Olivetti: mito, leggenda, icona, riferimento, modello? La modernità olivettiana

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    Non c’è dubbio, Olivetti non è un’azienda come le altre. Fondata nel 1908, la sua notorietà supera le frontiere dell’Italia e la sua storia appare avvolta nell’aura luminosa del mito, non solo nell’ambito della cultura del progetto, del design e dell’innovazione tecnologica, ma anche al di là delle zone disciplinari, come esempio più unico che raro di impresa illuminata e umanista.

    In particolare, gli anni della direzione di Adriano Olivetti, figlio del fondatore Camillo, dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel pieno del boom economico e della ricostruzione, appaiono oggi come un’età dell’oro, la cui portata rivoluzionaria non smette di affascinare.

    Se una moltitudine di oggetti iconici, dalle macchine da scrivere Lettera 22 (1954) di Marcello Nizzoli e Valentine (1968) di Ettore Sottsass, agli showroom realizzati da architetti come Carlo Scarpa, Gae Aulenti, BBPR, Franco Albini e Franca Helg, contribuiscono a rivelare la traccia indelebile che l’azienda ha lasciato nella cultura italiana e internazionale, i racconti idilliaci sul villaggio di Ivrea dove le fabbriche e gli uffici componevano l’avamposto di una civiltà sperimentale, in cui arte, cultura e industria si completavano a vicenda, e soprattutto il mistero che avvolge la morte improvvisa di Adriano Olivetti nel 1960, la sua implicazione nei servizi segreti e il suo progetto politico, non smettono di suscitare l’interesse e la curiosità sulla storia dell’azienda.

    Allo stesso tempo, molte industrie tecnologiche, e non solo, rivendicano oggi l’eredità dell’idioma olivettiano, di un’essenzialità sofisticata, di un’attenzione per le forme e per i processi d’interazione, per i gesti dell’uso – che segnano il passaggio epocale dall’oggetto all’interfaccia, dal prodotto al servizio. 

    In questi ultimi anni, diverse pubblicazioni importanti hanno riportato l’attenzione su quest’esperienza storica, aiutandoci ad analizzare e capire meglio questo momento fondamentale della storia industriale e culturale italiana. Prima di tutto, la rinascita del catalogo della casa editrice Edizioni di Comunità, fondata dallo stesso Adriano Olivetti nel 1946, ha permesso di rimettere in circolazioni documenti e testi d’epoca e nuovi saggi, come l’imprescindibile L’Italia di Adriano Olivetti di Alberto Saibene (2017).

    Allo stesso tempo, riviste e cataloghi di mostre hanno aperto nuovi fronti di documentazione (come L’idioma Olivetti 1952–1979, curato da Caterina Toschi, Quodlibet, 2018). Usciti da poco, due volumi collettivi aggiungono delle prospettive di interpretazione inedite: se Identità Olivetti. Spazi e linguaggi 1933-1983, a cura di Davide Fornari e Davide Turrini (Triest, 2022), si concentra sul “vocabolario” visivo dell’azienda, dai negozi e gli allestimenti alla grafica pubblicitaria, Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti, a cura di Daniele Balicco (L’ospite ingrato, n. 6, Quodlibet, 2021) estende l’analisi a una molteplicità di aspetti, fonti, risonanze, cercando di mettere a fuoco la specificità della traiettoria dell’impresa all’interno del compresso progetto della modernità. 

    Allora, alla luce di queste nuove pubblicazioni, quale è l’attualità di Olivetti? Cosa ci insegna ancora oggi questo episodio? Costituisce ancora un modello? E un modello di cosa?

    Daniele Balicco, ricercatore in Teoria della letteratura presso l’Università di Roma3, spiega: “Olivetti incarna ancora oggi un modo possibile di essere moderni, cercando soluzioni complesse allo sradicamento psichico e ambientale imposto dal comando tecnologico sul lavoro nelle economie di scala. Olivetti ha cercato di realizzare un progetto sociale complessivo, ambizioso e non privo di contraddizioni; una civiltà del lavoro, dove umanesimo e tecnologia, sviluppo industriale e democrazia sociale provano, forse per l’ultima volta nel Novecento, a dialogare. In fondo, e ha perfettamente ragione su questo il sociologo Luciano Gallino1Vedi Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista a Adriano Olivetti, a cura di Paolo Ceri, Torino, Einaudi, 2014., se confrontati con le sfide di questo progetto, ad apparire moderni oggi non sono certo i contemporanei”2 Intervista con Daniele Balicco, Marzo 2022. . Nel suo testo introduttivo, Balicco sottolinea la distanza che separa la strategia di Olivetti da quella dell’Apple di Steve Jobs o di Tim Cook, che sembra rifarsi a questo modello.

    Se in entrambi i casi, la dimensione estetica assume un ruolo centrale nella progettazione di macchine operatrici, la prospettiva è molto diversa. Per Olivetti, l’attenzione all’estetica ha la funzione di “controbilanciare quello ‘sradicamento involontario’ – l’espressione è di Simone Weil, le cui opere Adriano fa tradurre a Fortini già nel 1951 – che l’organizzazione del lavoro fordista genera, non solo nella psiche dei lavoratori che direttamente patiscono la catena di montaggio, ma, più in generale, nella cultura complessiva della società moderna”3Daniele Balicco, « Introduzione », in Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti, a cura di D. Balicco, L’ospite ingrato, periodico del Centro di Ricerca Franco Fortini, Nuova serie n. 6, Macerata, Quodlibet, 2021, p. 10. , mentre nel caso di Apple, “l’uso dell’estetica assomiglia piuttosto ad un’inquietante formazione di compromesso, dove la bellezza delle macchine tecnologiche, come il canto delle Sirene nell’Odissea, dissimula la violenza del processo produttivo.”4Ibid. p. 11. Le due imprese rappresentano quindi “due forme di civiltà del lavoro opposte”. Di fronte al cinismo produttivista e manipolatorio dell’industria informatica contemporanea, Olivetti oppone una concezione della progettazione come trasformazione profonda, radicata in un territorio, che implica nel processo la vita dei lavoratori, che si estende a quell’orizzonte sociale che Adriano Olivetti chiamava “comunità”. 

    Una differenza che sembra situarsi non tanto sul piano dell’innovazione tecnologica o formale, né dell’azione sociale, ma di una tensione morale, che sembra oggi perduta o in pericolo. 

    Anche Barbara Carnevali, professoressa all’EHESS di Parigi, conferma l’attualità del progetto Olivetti, come cantiere insuperato di un’unità tra creazione e produzione: “L’esperienza di Olivetti non smette di insegnarci cose importanti. Per esempio, come credere nella possibilità di conciliare il progresso e la giustizia, l’economia e la morale, la tecnica e la bellezza, la civiltà e l’ambiente. Nessuno dei suoi sogni può dirsi superato, e ognuno di essi ha un posto nell’agenda contemporanea. Ma se dovessi riassumere in una sola formula quella che credo essere l’eredità olivettiana più importante, direi che è stata un’esperienza di creatività e armonia. Olivetti ci ha insegnato, e ci insegna ancora, a scommettere nell’immaginazione per creare nuove forme e nuovi mondi, avendo come metro di misura quell’equilibrio armonico di cui la vita ha bisogno per fiorire”5Intervista con Barbara Carnevali, marzo 2022. .

    Nel suo saggio che apre il volume Umanesimo e tecnologia, l’autrice inserisce il “caso Olivetti” all’interno di una genealogia tutta italiana di una cultura moderna che, dagli anni Trenta agli anni Sessanta, si oppone al modello egemonico del funzionalismo. Pur aderendo ai principi del razionalismo, tale prospettiva rifiuta “la volontà di potenza e l’imperialismo di una ragione ridotta in chiave strumentale”, oppone alla linearità della marcia inesorabile e cieca del progresso a tutti i costi, le vie traverse delle relazioni, della cooperazione. Nella progettualità umanista difesa da Olivetti, nello stile limpido e elegante, si intravede in filigrana il profilo di una modernità alternativa, più sfumata, nella quale la dimensione estetica convive con la tensione critica, in cui “il design non separa natura e cultura”6Barbara Carnevali, « Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti », in Umanesimo e tecnologia, op. cit, p. 22. : un “modernismo gentile”7Ibid., p. 18. , all’insegna dell’armonia e della grazia, del rispetto e dell’equilibrio.  

    Da parte loro, i curatori del libro Identità Olivetti, Davide Turrini, professore associato all’Università di Ferrara, e Davide Fornari, professore associato all’ECAL di Losanna, appaiono più riservati: “Olivetti rappresenta un riferimento complesso per la contemporaneità, perché ha messo in atto nel tempo un insieme di contromisure all’alterazione causata dalla produzione industriale all’ambiente naturale e alla società. Da questo punto di vista, l’esperienza deve essere considerata più come un riferimento e che come un modello.”8Intervista con Davide Fornari e Davide Turrini, marzo 2022. Con l’obiettivo di riabilitare i fatti e la verità degli archivi o delle testimonianze orali, rispetto alla deriva mitologica che ha condotto la storiografia verso “il panegirico della nostalgia”, p.26, il volume Identità Olivetti. Spazi e linguaggi 1933-1983 mette al centro dell’analisi le strategie di autorappresentazione dell’impresa: come Olivetti ha costruito la propria immagine.

    Dipanando il filo dell’inchiesta oltre gli elementi che hanno da sempre costituito il fulcro dell’eccezionalità dell’impresa, come il design di prodotto e l’architettura, esplorando i molteplici supporti della comunicazione e della diffusione, dai celebri spazi di vendita e showroom alle meno conosciute esposizioni aziendali, dai cataloghi agli opuscoli, fino ai “critofilm” realizzati da Carlo Ludovico Ragghianti, il libro mette in luce il percorso complesso che Olivetti ha realizzato con l’obiettivo di disegnare un’identità forte e riconoscibile.

    Le esposizioni, in particolare – di cui oggi nella storia dell’arte e del design si comincia infine a misurare l’impatto storico e culturare – hanno giocato un ruolo fondamentale di promozione allo stesso tempo dell’idioma Olivetti e delle idee. Da Olivetti: Design in Industry, al MoMA di New York del 1952 a Olivetti formes et recherches, mostra itinerante allestita da Gae Aulenti negli anni Settanta, fino a Design Process. Olivetti 1908-1978, che gira gli Stati Uniti e l’Europa, l’esposizione diviene uno spazio-manifesto per celebrare la visione olistica e umanista dell’azienda, che si esprime attraverso il progetto di un design integrato, che non solo unisce in modo organico aspetti tecnologici, formali e commerciali, ma sottintende una visione sociale di equilibrio e di armonia, che retrospettivamente può apparire, per certi aspetti, un’utopia. 

    Ma, alla fine, è proprio per questa tensione tra realismo e utopia, tra progetto e società, tra industria e politica, che l’esperienza unica di Olivetti continua a esercitare il suo fascino. Riferimento o modello, in ogni caso testimonianza di un’alternativa possibile alle derive totalitarie del marketing. Anche il design, anche l’industria, è una questione di coscienza – come spiegava già il poeta Franco Fortini, di cui il volume Umanesimo e tecnologia riproduce diversi testi d’occasione scritti durante la sua lunga collaborazione con Olivetti.

    Descrivendo il villaggio di Ivrea, Fortini commentava, nel lontano 1949: “è proprio questo elemento di coscienza, non solo nell’accezione di coscienziosità, ma in quella più elevata e meno tecnica, che si fonda questa fabbrica. Il visitatore non può fare a meno di avvertirla, questa “coscienza” un po’ severa, per niente brillante, e sostanziosa invece; ma che non rinuncia tuttavia all’eleganza”. E conclude: “un’industria non si esaurisce nell’oggetto […] ma articola […] la sua ambizione più alta: la creazione cioè di un più genuino rapporto umano, di una difficile unità morale pur nelle diversità e nei necessari contrasti”9Franco Fortini, « Visita a una fabbrica », 1949, in Umanesimo e tecnologia, op. cit. p. 288. . 

    Note