Se il Consumer ha la meglio sul Producer: il salto dello squalo

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    Nella direzione tracciata, tanto per cambiare, dal ciclo di Star Wars, fioriscono tra la fine dei novanta e l’inizio del nuovo millennio storie che costruiscono universi così complessi e profondi e ingombranti da tracimare dal media originario in altri più o meno contigui. Sono gli anni di Matrix e dei Pirati, gli anni della Cultura Convergente di Jenkins, gli anni dei romanzi storico-corali alla Wu Ming, che non a caso per Jenkins scrivono la prefazione dell’edizione italiana. Negli anni successivi si arriva alla deriva popolare e populista di questa complessità narrativa: si prendono storie già scritte decenni prima, ovvero universi già tracciati e in gran parte conosciuti e rassicuranti, si definisce una programmazione ventennale che al confronto Stalin era un pischello ed eccoci di fronte all’eterno ritorno dell’uguale Marvel – DC Comics, con tanto di serie Netflix dedicate agli eroi meno conosciuti, in epoca di coda lunga una strizzatina d’occhio alle minorities non fa mai male.

    Solo che anche la più brutale exploitation deve fare i conti con la nota scarsità delle risorse, per cui assistiamo a poveri produttori e registi costretti a continui reboot, con Joaquin Phoenix che fa Jared Leto che fa Heath Ledger che fa Jack Nicholson che fa Joker. Quanto alle saghe, Signore degli Anelli e Alien iniziano a mostrare la corda (sebbene non ci si astenga dallo sfruttarle fino alla fine), e nonostante il binge watching, sulla carta, consenta di mantenere un’attenzione prolungata su una trama complessa, ecco fioccare le miniserie, o le serie antologiche: così, se una la sbaglio, posso rifarmi con quella dopo. Quanto ai prodotti più tradizionali, ecco che dopo qualche stagione si sente il bisogno di riazzerare, cambiare il contesto, dimezzare il cast, inserire nuovi personaggi, pazienza se non del tutto riusciti.

    Il Votumer (Elettore-Consumatore) non sembra disporre di maggiore pazienza e fedeltà; e tecniche e dinamiche sono le stesse nella produzione culturale e in quella politica. La durata media di un leader in charge si è frantumata dagli anni ’50 a oggi. Se Andreotti era eterno e Berlusconi ha retto più o meno 20 anni, il primo Matteo non arriva a 4 (ed è comunque longevo rispetto a chi lo ha preceduto), per cui facile che anche Matteo2 sia oggi un po’ preoccupato. Altrove non è diverso. Macron è in à caduta libera, di chi ci fosse prima quasi non ci si ricorda il nome, la Lepen lotta per mantenere il suo posto al sole, ma deve ricorrere alla sorella per introdurre un po’ di novità. Spagnoli e inglesi non sembrano da meno (Tony Blair, wherefore art thou?), mentre resiste, è vero, Angela Merkel che, non a caso, sembra ormai appartenere a un’altra epoca.

    Se il Consumer ha la meglio sul Producer

    Se Eco amava dire che non avrebbe potuto scrivere Il nome della rosa senza un personal computer e se la rivoluzione digitale ha effettivamente abbattuto i costi di realizzazione (pur non eliminando del tutto il problema delle idee e del livello qualitativo), nulla di quanto avvenuto nella produzione è paragonabile alla trasformazione che si è verificata nel consumo.

    Dalla «musica che si porta addosso» all’acquisto on line istantaneo, dallo shuffle ai suggerimenti di Spotify fino all’infinito catalogo di #Bastanetflix, la nostra epoca è quella in cui il Consumatore (culturale e non) dispone di una potenziale ampiezza, profondità, specificità di fruizione che non ha pari nella Storia umana. Rifkin si sbagliava: anche i «produttori di segni» sono colpiti dalla tecnologia che globalizza e poco importa se tu sia uno scrittore, un rapper, o un giovane politico: nell’oceano di questa offerta sempre nuova e disponibile tocca sgomitare di brutto, o si affoga.

    Se Salvini salta lo squalo

    Come già aveva previsto Adorno, la costante offerta del sempre Nuovo alla lunga anestetizza il proprio pubblico. Il parallelo recentemente tracciato da Scurati tra piccole borghesie regge anche e soprattutto rispetto al pubblico odierno che, proprio come quello degli anni ’20, ha bisogno di un periodico shock futurista per non addormentarsi sul divano. Le narrazioni troppo lunghe e complesse non le segue più nessuno, annoiano, sono cose da radical chic. Il pubblico, insegnano sempre i francofortesi, «tende continuamente a distrarsi», figuriamoci poi se passa ore e ore sui social a deprimersi e ad aumentare esponenzialmente la propria propensione al suicidio.

    Si rende necessario un ricorso sistematico a stimoli che riportino l’attenzione sul prodotto. Il problema, strutturale e dunque irrisolvibile, di ogni stimolo è che, esattamente come nella pratica dell’elettroshock, non deve uccidere il consumatore/spettatore/elettore/paziente, ma allo stesso tempo deve essere più forte di quello precedente. Salvini blocca i porti / Di Maio attacca la Fornero. Di Maio promette il Reddito di cittadinanza / Salvini fa sognare con la Flat Tax.

    Fino a un certo punto funziona. Prima o poi, purtroppo, anche lo spin doctor/sceneggiatore più bravo si ritrova a corto di idee. E allora ci si ritrova, di punto in bianco, a saltare lo squalo come dei Fonzie qualunque*, peccato che il pubblico ti abbia già abbandonato da tempo, non vede l’ora di buttarti via e di divorare una nuova storia, nuovi eroi, un nuovo universo.

    *A qualcuno è già capitato, va detto che non aveva mai fatto mistero di quale fosse il suo telefilm preferito da ragazzino.

    Note