Per scoprire se il futuro è tornato bisogna leggere ‘Quattro modelli di futuro’

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    Poche volte nella storia l’uomo si è trovato di fronte a un domani così incerto e dalle tinte così fosche. Tutti ci chiediamo: cosa succederà? Peter Frase risponde a questa domanda con un libro energico, polemico, radicale, profondo e visionario. In occasione della presentazione di oggi alla Triennale di Milano pubblichiamo un estratto da Quattro modelli di futuro (Treccani libri) di Peter Frase.


    Il motivo per cui ci sono quattro futuri, e non uno soltanto, è che nulla accade automaticamente. Spetta a noi determinare la strada che abbiamo davanti.

    Attualmente gli attivisti della giustizia climatica stanno lottando per soluzioni socialiste e non sterministe al cambiamento climatico, anche se forse non descriverebbero quello che fanno in questi termini. E coloro che si battono per l’accesso al sapere, contro una rigida proprietà intellettuale in ogni ambito, dalle sementi alla musica, lottano faticosamente per respingere una distopia renditista e tenere in vita il sogno del comunismo. […]

    Per chiunque abbia tendenze di sinistra, egualitarie, è facile dire che renditismo e sterminismo rappresentano il male e il socialismo e il comunismo la speranza del bene. Potrebbe essere giusto se concepiamo queste società ideali solo come destinazioni o slogan da apporre sui nostri striscioni. Ma nessuna di queste società modello è pensata per rappresentare qualcosa che si possa mettere in pratica dalla sera alla mattina, con una completa trasformazione degli attuali rapporti sociali.

    Anzi, probabilmente nessuna è possibile in una forma pura: la storia è semplicemente troppo incasinata, e le società reali superano i parametri di qualsiasi modello teorico.

    Ciò significa che dovremmo occuparci soprattutto della strada che conduce a queste utopie e distopie, piuttosto che della natura precisa della destinazione finale. Soprattutto perché il sentiero che conduce all’utopia non è necessariamente utopico in sé e per sé.

    Ho proposto una strada particolarmente fantasiosa e utopica per giungere a una destinazione utopica: la “via capitalista al comunismo”, in cui il reddito universale di base lubrifica lo scivolamento nel pieno comunismo.

    Ma un passaggio del genere vorrebbe dire detronizzare l’élite ultraricca che attualmente domina la nostra politica e la nostra economia.


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    Oggi alle 18.30 alla Triennale di Milano cheFare con Treccani presenta Quattro modelli di futuro (Treccani libri) di Peter Frase. Con Peter Frase saranno presenti Stefano Boeri e Bertram Niessen


    La limitata esperienza storica dei reali sistemi di reddito di base indica che è improbabile che i ricchi rimarranno a guardare mentre la loro fortuna e il loro potere si affievoliscono, e quindi ci saranno battaglie agguerrite.

    Prendiamo in considerazione, per esempio, il progetto pilota condotto tra 2008 e 2009 a Otjivero-Omitara, in Namibia. Per due anni tutti gli abitanti del villaggio hanno ricevuto un pagamento mensile di 100 dollari namibiani (circa 13 dollari americani).

    In termini umani, anche un reddito di base così minimale è stato un grande successo: la frequenza scolastica è aumentata, la denutrizione infantile è crollata e persino la criminalità è diminuita. Ma questo non interessava molto agli agricoltori bianchi che costituivano l’élite locale. Hanno insistito nel dire, contro ogni evidenza, che il reddito di base aveva portato criminalità e alcolismo.

    Se i ricchi non rinunceranno volontariamente ai loro privilegi, probabilmente questi verranno loro sottratti con la forza, e lotte del genere possono avere conseguenze devastanti per entrambe le parti

    Secondo Dirk Haarmann, economista e teologo che ha contribuito ad attuare il progetto del reddito di base, erano forse «spaventati che i poveri ottenessero influenza e deprivassero il ricco e bianco 20 per cento della popolazione di una parte del suo potere». E forse, in modo più immediato, temevano che ricevere 100 dollari al mese avrebbe reso i lavoratori meno disponibili ad accettare il salario minimo di 2 dollari l’ora per il lavoro nei campi.

    La transizione verso un mondo di abbondanza e uguaglianza, pertanto, sarà tumultuosa e costellata di conflitti. Se i ricchi non rinunceranno volontariamente ai loro privilegi, probabilmente questi verranno loro sottratti con la forza, e lotte del genere possono avere conseguenze devastanti per entrambe le parti.

    Infatti, come disse Friedrich Nietzsche in un famoso aforisma: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro […]. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te».

    O, come scrisse il poeta comunista Bertolt Brecht in A coloro che verranno, una rivoluzione contro un sistema brutale potrebbe a sua volta brutalizzare chi vi ha preso parte.

    Anche l’ira per l’ingiustizia 
fa

    roca la voce. Oh, noi

    che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,

    noi non si poté essere gentili.

    Oppure, come affermò Mao con il suo tipico stile tagliente, «una rivoluzione non è un pranzo di gala».In altri termini, anche la rivoluzione più riuscita e giustificata ha i suoi sconfitti e le sue vittime.

    In una lettera indirizzata nel 1962 all’economista Paul Baran, il filosofo Herbert Marcuse osserva che «a nessuno è mai fregato niente delle vittime della storia».

    La frase era indirizzata all’ipocrisia dei liberali, ansiosi di fare i moralisti sulle vittime del comunismo sovietico ma che tacevano riguardo agli ingenti costi umani del capitalismo. Si tratta di un giudizio duro, forse crudele, e lo stesso Marcuse propone di superarlo.

    Tuttavia ci dà una prospettiva importante sull’esercizio qui intrapreso, perché ci consente di vedere che i quattro futuri della società non rientrano in precise caselle morali.

    Ecco uno dei pericoli, quello di sottovalutare la difficoltà del percorso che dobbiamo intraprendere o di lasciare che la bellezza della meta autorizzi una violenza senza limiti per arrivarci. Ma un’altra possibilità è che, al termine del viaggio, avremo dimenticato quanto arduo sia stato il percorso e coloro che ci siamo lasciati alle spalle.

    Nel suo saggio Sul concetto di storia, Walter Benjamin sostiene che i resoconti storici tendono necessariamente a simpatizzare con i vincitori, che in genere sono coloro che scrivono la storia.

    «Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre. L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno».

    Ma possiamo anche dire che, persino in una società del tutto priva di dominatori, la storia tende a simpatizzare per i sopravvissuti; tutto sommato, sono letteralmente gli unici che possono scriverla.

    Ritorniamo, a questo proposito, ai residenti del nostro primo futuro, quello comunista. Dopo tutto, forse non si trovano al termine del percorso che conduce dal capitalismo al comunismo, ma al termine di un viaggio molto più lungo e oscuro attraverso gli orrori dello sterminismo.

    Ricordiamo la problematica centrale dello sterminismo: l’abbondanza e la libertà dal lavoro sono possibili per una minoranza, ma a causa dei limiti materiali è impossibile estendere lo stesso modo di vivere a tutti.

    Nel contempo, l’automazione ha reso superflue le masse di lavoratori. Il risultato è una società di sorveglianza, repressione e incarcerazione, sempre minacciata da un rapido capovolgimento in vero e proprio genocidio.

    Proprio come ha detto Marcuse, a nessuno è mai fregato niente delle vittime della storia

    Ma presumiamo di scrutare in quell’abisso. Che cosa resta quando i corpi “in eccesso” sono stati eliminati e i ricchi rimangono finalmente da soli con i loro robot e i loro complessi recintati? Si potrebbero smantellare i droni da combattimento e i boia robot, così come, gradualmente, tutto l’apparato di sorveglianza, e la popolazione rimasta potrebbe evolversi oltre la morale bellica brutale e disumanizzante, giungendo a una vita di uguaglianza e abbondanza: in altre parole, al comunismo.

    In quanto discendente di europei giunti negli Stati Uniti ho un’idea di come tutto questo potrebbe realizzarsi. Dopo tutto, sono il beneficiario di un genocidio.

    La mia società è stata fondata sullo sterminio sistematico degli abitanti originari del continente nordamericano. Oggi i discendenti sopravvissuti di quei primi americani sono talmente impoveriti, pochi e geograficamente isolati che la maggior parte degli americani può ignorarli e andare avanti con la propria vita.

    Di tanto in tanto i sopravvissuti impongono la loro presenza alla nostra attenzione. Ma per lo più, anche se magari critichiamo la brutalità dei nostri progenitori, non contempliamo l’ipotesi di rinunciare alle nostre prospere esistenze sul nostro territorio.

    Proprio come ha detto Marcuse, a nessuno è mai fregato niente delle vittime della storia.

    Allargando un po’ la prospettiva, quindi, il punto è che non sceglieremo necessariamente uno dei quattro futuri: potremmo averli tutti, e ci sono percorsi che conducono da ciascuno di essi a tutti gli altri.

    Abbiamo visto in che modo lo sterminismo diventa comunismo. Il comunismo, a sua volta, è sempre suscettibile a una controrivoluzione, se qualcuno riesce a trovare un modo per reintrodurre una scarsità artificiale e creare una nuova élite renditista.

    Il socialismo è soggetto a questa pressione in modo ancor più forte, perché la maggiore quantità di avversità materiali condivise aumenta l’impulso di alcuni gruppi a costituirsi come élite privilegiata e a trasformare il sistema in uno sterminista.

    Tuttavia, a meno di un crollo della civiltà così totale da tagliarci fuori dal sapere che abbiamo accumulato e da farci sprofondare in un nuovo Medioevo, è difficile scorgere una strada che riconduca al capitalismo industriale come lo abbiamo conosciuto.

    Non possiamo tornare al passato, e non possiamo neppure aggrapparci a quello che abbiamo adesso. Qualcosa di nuovo sta arrivando, e anzi, in un certo senso, tutti e quattro i futuri sono già qui, distribuiti male, per dirla con William Gibson. Spetta a noi costruire un potere collettivo in grado di lottare per i futuri che vogliamo.


    Tratto da Peter Frase, Quattro modelli di futuro, Treccani 2019
    © Peter Frase 2016
    Tutti i diritti riservati
    Traduzione di Chiara Veltri

    Immagine di copertina da Unsplash: ph. Frank V.

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