Contemporaneo: Maelström e il distacco

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    Vorrei intervenire con alcune considerazioni (testuali e visive) sul bel contributo di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Essere contemporaneo è scegliere di non parlare (la lettura del quale è, quindi, fondamentale per le note che seguono).

    Mi sento tirato in causa essenzialmente per due ragioni: l’interesse che ripongo nelle questioni sollevate e che ritengo centrali e inevitabili (la percezione e l’esperienza del contemporaneo, le dinamiche interne alle reti sociali ecc), e l’attuale stesura di un mio libro per il Saggiatore che tali questioni cercherà di affrontare con modalità certamente né analitiche né fenomenologiche, ma artistiche.

    Giancarlo non si limita a sollevare una serie di problemi ma, già dal titolo e poi nel finale, indica anche una soluzione: la scelta di “non parlare” (e qui stiamo al titolo, che efficacemente taglia e prelude), ovvero di “non parlare se non attraverso il linguaggio poetico”. La indica nel momento in cui il suo contributo finisce: e questo è giusto, poiché tale pratica deve e dovrà avvenire – e già avviene nell’istante stesso in cui la si immagina – dopo e intorno.

    Utilizzo questo spazio anche per chiarire a me stesso certe cose che sto affrontando in altri modi e con altri mezzi. Tali modi e tali mezzi, credo, rientrano – a prescindere dai risultati che potranno ottenere – in quella pratica che Giancarlo prefigura come risposta alla sovra-stimolazione sensoriale che ci cattura e ci libera costantemente, in un processo continuo di dentro/fuori, alto/basso, reale/irreale, vero/falso, ecc. che scuote il dualismo (illusorio) su cui si fonda la nostra percezione.

    Nota: è assai comune l’affermazione secondo cui le reti sociali, e Facebook in particolare, non siano luoghi adatti a ragionamenti complessi: personalmente la considero una falsa prospettiva, una forma di pigrizia e arrendevolezza. Qualsiasi luogo è il luogo, poiché tutto avviene nella nostra mente, che è essa stessa il luogo. Nel liquidissimo territorio di questa rete sociale, laddove il software, mutevole per essenza, scorre nell’apparente, attuale e storicamente provvisoria durezza del suo hardware, è questo che accade: Giancarlo scrive su cheFare, il suo pezzo viene condiviso, io lo catturo, lo leggo, mi stimola e mi suggerisce riflessioni, mi spinge a scrivere e a alimentare questo circuito di pensiero, interloquendo con chi scrive e chi legge: questo è la complessità. Il resto è pigrizia, è resa: quindi non ci arrendiamo.

    «Con lo sviluppo del capitalismo, il tempo irreversibile è unificato su scala mondiale. La storia universale diviene una realtà, perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. […] questa storia che dappertutto è simultaneamente la stessa […] È il tempo della produzione economica, ritagliata in frammenti astratti uguali, che si manifesta su tutto il pianeta come lo stesso giorno. » (Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967)

    Sono effettivamente cruciali i due elementi catturati dai testi di Agamben e McLuhan: la definizione di “contemporaneo” (Che cos’è il contemporaneo?, 2008), e il ritorno, nell’era digitale, allo spazio acustico, simultaneo e sinestetico tipico delle società pre-alfabetiche (Intervista a Playboy, 1969). E sono cruciali proprio perché essi ci permettono non solo di spiegare, ma anche di dispiegare risposte e pratiche possibile.

    Il contemporaneo

    Contemporaneo, osserva Agamben, è colui che, immerso nel tempo presente, riesce comunque a prenderne le distanze operando uno scarto: egli si trova al centro del vortice ma, a differenza degli altri, riesce al medesimo tempo – contemporaneamente – a uscirne, osservando l’accelerazione che altrimenti non potrebbe osservare. Lo sguardo è fisso sul proprio tempo e, insieme, è altrove: forse nel movimento stesso che ruota attorno al presente (che è tanto l’epoca, quanto letteralmente l’istante).

    Questo movimento è di per sé osservabile? è di per sé percepibile? Chi lo osserva ne è consapevole testimone? Non lo so, ma dovrebbe esserlo: credo, infatti, si debba agire in questo territorio mutevole, in questa faglia nella quale le cose deflagrano e si ricompongono allo stesso tempo. E che oltre a osservare le cose si debba, utilizzando certamente le forme che più si ritengono vicine a se stessi o praticabili o necessarie, descrivere le crepe che attorno e dentro alle cose si formano.

    Questo territorio non è quello delle luci, ma quello dell’oscurità, del buio:

    «Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio.  […] Percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci. Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità. […] Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.» (Agamben, cit.)

    Luce e buio sono inseparabili. E ancora: inseparabili – e questo è il concetto che considero cruciale soprattutto ai fini pratici – poiché compresenti. Non parliamo del buio conseguente alla luce grazie a quel movimento degli astri e del nostro pianeta a cui siamo biologicamente e psichicamente abituati, ma di ciò che è parte stessa e intima delle luci del secolo. Il nostro sguardo va quindi lì, in quella sovrapposizione che è al contempo una frattura.

    Maelström

    Edgar Allan Poe nel suo racconto Una discesa nel Maelström (1833) ci narra la vicenda di un gruppo di pescatori norvegesi che si imbatte in una terribile tempesta, finendo al centro di un vortice perenne e immenso detto appunto Maelström. Un marinaio, testimone della vicenda, racconta:

    “Mi accorsi che la nostra imbarcazione non era l’unico oggetto caduto nell’abbraccio del gorgo. Sia sopra che sotto di noi erano visibili frammenti di navi, ammassi di legname da costruzione, tronchi di albero, unitamente a molti altri oggetti più piccoli, mobili, casse infrante, barili, botti. Ho già accennato alla innaturale curiosità che aveva sostituito la mia originaria paura. Sembrava aumentare man mano che mi avvicinavo alla mia spaventosa fine; cominciai a osservare, con un curioso interesse, le tante cose che fluttuavano in nostra compagnia. Dovevo essere preda del delirio, perché trovavo persino un certo divertimento nel confrontare le relative velocità di discesa dei vari oggetti verso la spuma sottostante.”

    Ma cos’è questa, se non una descrizione dello sguardo contemporaneo e di quel gorgo iridescente che quotidianamente cattura i nostri sensi? dello schermo del nostro personal computer, la superficie touch dei nostri dispositivi?

    Il marinaio di Poe evita il disastro comprendendo l’azione del vortice. La sua salvezza nasce da un distacco che è, al contempo, intima partecipazione. Tutti i frammenti che compongono la realtà vengono osservati nell’attimo che precede alla loro riunificazione nella spuma del vortice.

    Ed è lì che l’umano, divenuto eternauta, travolto dal sovraccarico informativo, dal flusso incessante di immagini, suoni, sensazioni al limite del delirio, evita l’abisso pur stando dentro l’abisso.

    Lo spazio acustico

    Per McLuhan l’avvento dei media elettrici segna un cambio totale di paradigma, che stabilisce un ritorno al regno pre-alfabetico tipico delle società primitive e tribali.

    E questo poiché i nuovi media, configurandosi come un’estensione del nostro sistema nervoso e del nostro corpo, rimettono in primo piano la totalità dei sensi.

    Il senso della vista – il senso principale dell’era Gutenberghiana, dall’avvento delle tecnologie di stampa in poi – perde, nel territorio complesso e caleideoscopico dei media elettronici, la centralità acquisita: è questo il ritorno allo spazio acustico. Uno spazio privo di confini, percepito attraverso l’interazione simultanea di tutti i sensi. Uno spazio magico, primordiale: uno spazio meraviglioso e terribile, luccicante e oscuro, che attrae con una forza spaventosa. Proprio come il gorgo di Maelström.

    McLuhan non si risparmia nella descrizione di scenari inquietanti, utilizzando accenti quasi pre-debordiani, quando nel 1962 scrive:

    «Invece che tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello dei racconti di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori da noi, il Grande Fratello entra in noi. Così, se non riusciremo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo improvvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata a un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e coesistenza imposta dall’alto».

    Maelström torna ad essere il vortice terribile che va compreso, misurato, affrontato. McLuhan, ricordiamolo, scrive nel 1962: decenni prima del personal computer, prima di Internet e delle reti sociali. Eppure parla di noi.

    Ma dobbiamo chiederci: il ritorno all’acustico è davvero il ritorno alla trappola dell’elementare? Lo è di certo, ma mi chiedo: potrebbe, allo stesso tempo, porre le basi della possibilità di un nuovo spazio e di nuove modalità, tuttora inesplorate poiché non ancora date?

    Il marinaio di Poe ci indica una strada ardua ma percorribile: un’idea di scandaglio, di scrittura, di pratiche artistiche che si avvicinano al distacco operato nella meditazione. Cosa significa, in fondo, precipitare nel Maelström? Si prova dolore? gioia? O si sperimenta forse – l’assenza di gioia e dolore? (Senza attrazione e repulsione comprenderai chiaramente, ci ricorda una voce che vibra nei secoli.)

    Dopo Maelström

    «L’uomo divenuto eternauta accoglie tutte le stimolazioni elettriche possibili»: è quindi un male? O è la prefigurazione di modalità inaudite, al momento solo intuibili, in cui uno spazio (la nostra mente) interagisce con altri spazi (altre menti)? Modalità come la telepatia, ad esempio.
    A questo proposito, e per chiudere aprendo a scenari inauditi, riporto un ulteriore passaggio dell’intervista di Playboy a McLuhan (1969):

    McLuhan: L’elettricità rende possibile – e neppure in un futuro distante – un’amplificazione della coscienza umana su scala planetaria, senza bisogno di alcuna verbalizzazione.

    Intervistatore: Sta parlando di telepatia globale?

    McLuhan: Precisamente. Già ora i computer offrono il potenziale per poter tradurre istantaneamente qualunque codice o linguaggio in qualunque altro codice o linguaggio. Se il feedback di dati è possibile attraverso i computer, perché non dovrebbe essere possibile un inserimento-feedback di pensiero attraverso il quale una coscienza globale si connetta all’interno di un computer globale? […] Il computer, quindi, permette d’intravedere la prospettiva di uno stato tecnologicamente generato di comprensione e unità universali […] Questo è il vero uso del computer, non quello di facilitare il marketing o di risolvere i problemi tecnici, ma quello di velocizzare il processo di scoperta e orchestrare nuovi ambienti ed energie terrestri – e, alla fine, cosmici. L’integrazione psichica collettiva, resa infine possibile dai media elettronici, potrebbe creare l’universalità della coscienza prevista da Dante quando preconizzava che gli uomini avrebbero proseguito la loro vita come null’altro che frammenti spezzati finché non sarebbero giunti a unificarsi all’interno di una coscienza inclusiva. […]

    Intervistatore: Una simile proiezione di una coscienza globale elettronicamente generata non è più mistica che tecnologica?

    McLuhan: Sì – altrettanto mistica delle più avanzate teorie della moderna fisica nucleare. Il misticismo non è altro che la scienza di domani sognata oggi.

    Note