È uscito alla fine dell’estate Questo immenso non sapere, secondo libro in prosa di Chandra Candiani tra le sue ultime raccolte di poesia (Fatti vivo, 2017; Vista dalla luna, 2019; La domanda della sete, 2020). Che sia in prosa è un dato formale e forse fuorviante: non è un saggio e nemmeno un diario, anche se a un occhio miope così potrebbe apparire; non è poesia se non nella sostanza più profonda e invisibile agli occhi che si fermino al fitto della pagina.
Chi conosce Chandra Candiani sa bene la sua allergia alle divisioni in “generi letterari”… C’è una pratica, una pratica della scrittura: un’apertura che è l’ascolto e la traduzione di una musica naturale; un dare rifugio al mondo nello spazio che è il cuore di un essere umano; una composizione nella lingua umana, una restituzione del mondo al mondo. E c’è una pratica, la pratica buddhista della meditazione, della consapevolezza, raccogliendosi seduti o camminando, fermandosi in una stanza dedicata o lavando i piatti – pratica della postura e del respiro.
In questo libro, ma in fondo in tutti i libri di Candiani – forse qui più esplicitamente, – le due pratiche si incontrano e mostrano quanto i percorsi in una vita non possano mai essere troppo distanti, perché la vita tiene tutto, la vita non lascia.
In questo libro molte direzioni, ma su tutte ne risaltano alcune più di altre: la vita in tempo di pandemia; la ricerca della natura, il trasferirsi in “campagna” e l’abbandono della città (un tema antico, reso attuale dallo scoppio della pandemia); il rifugio che è la natura quando gli altri sono l’inferno; l’infanzia, che vive senza difese ma anche all’inferno, nell’impensabile, ha dei preziosi alleati per salvarsi, come gli animali; la via della meditazione che non trasforma ma porta ordine, fa spazio, e quando trasforma trasforma lo sguardo, perché possa discernere.
Vorrei iniziare questo dialogo, Chandra, prendendo il fondo del libro. Una tua conclusione. “Ho una sensazione strana e per me davvero inedita: mi sento adatta a questa epoca. Proprio questa, con la pandemia, il crollo economico, la politica miserabile […]” (p. 151). Chi vive sempre nel senso dell’emergenza è più preparato di altri ad affrontare tempi di crisi come questo, spieghi. Così è per te. Che tempo stiamo vivendo? Cosa ci insegna questo tempo? Come vivi, tu, non tanto questo tempo, quanto lo scatto che in questa pagina descrivi tra l’inattualità, l’inadeguatezza al proprio tempo e l’improvviso sintonizzarsi dell’epoca?
Ma… credo che quel che più mi colpisce è la nostra impreparazione all’emergenza, alla sofferenza, alle rinunce, al non sapere, al non poter vedere soluzioni, allo stare con l’incertezza. Mi sembra che tanti si sentano offesi personalmente, vittime di ostacoli ai loro desideri e alla loro idea di vita normale. Queste cose succedevano altrove, in Afganistan, in Africa, in India, in Medio Oriente. Ma noi siamo quelli che le guardano in televisione. Sono sempre stata una disadattata perché la vita mi ha presentato fin da subito il suo lato tremendo. Andavo male a scuola anche perché la pressione che esercitavo per tenere nascosta la mia esistenza pericolosa a casa era così grande da non lasciar spazio ad altro. Le nozioni scivolavano via. E poi è successo di andare a insegnare poesia a bambini rotti, strappati dalla loro terra, dai legami, dalle storie, dalle facce, dagli animali e di colpo ero adatta. Non per una qualche speciale qualità o competenza ma proprio per la mia incompetenza, tremore, il mio vacillare accompagnava meglio di tutto le parole scheggiate di chi era rimasto in vita senza lingua natale. E così è stato con la pandemia. So star sola, so stare nel pericolo, so la morte e la malattia, so soffrire con gli altri e per gli altri. Non granché certo, ma già non sentirsi regine offese dal mondo che vogliono tornare ai loro privilegi è qualcosa. E poi assistevo alla distruzione del pianeta da anni e anni, cercando di chiudere le falle con una mano piccolissima, così tutto quello che sta succedendo ha un senso più ampio, non è una sorpresa, non è una catastrofe inaspettata, è il nostro costante atteggiamento predatorio, il nostro essere sempre al centro, sfruttando tutti gli altri, umani, animali, alberi, il crollo di un modo di stare al mondo che non è l’unico, è solo il più prepotente.
Passando, se è possibile, dai termini particolari ai termini generali, cosa è per te Contemporaneo? A cosa ti senti contemporanea? A chi?
Mi vengono in mente i versi di Pasternak: “… griderò ai monelli: sapete dirmi cari, che millennio corre nel nostro cortile?” Inattuale, isolato, non fedele alla realtà eppure ancora oggi la sua poesia è contemporanea. Mi sembra che sia impossibile oggi essere non contemporanei, i mondi, le realtà sono così tante, infinite forse, e coesistono tutte. Una piccola gigantesca donna come Emily Dickinson viveva chiusa in una stanza, vedeva l’eternità e il mondo dalla sua finestra e dentro il suo essere specchio ed è nostra contemporanea nei secoli. Come contemporaneo è chi salva i naufraghi che cercano di andare verso una vita possibile, chi combatte per la salvezza del pianeta, chi si prende cura e chi muore. Niente resta fuori. Tutti quelli che sentono il battito del tempo, interno o esterno che importa? La visione ampia è per me stare con il tempo. Sentire il battito dell’epoca. E saper discernere senza cadere nella violenza e nelle accuse buttate alla cieca. La fiducia di rilanciare sempre, di provarci fino all’ultimo respiro a vivere in modo degno, aperto a sé e agli altri. Perché se non so stare sola, se non so ascoltare il mio peggio, se mi rifiuto di vedere in me la violenza e il male che scopro nel mondo e negli altri, allora il mio concetto di ‘noi’, di comunità, sarà una nuova forzatura, sarà di nuovo un’esclusione di tanti, di troppi, dei singoli, dei solitari, dei sofferenti, dei muti o ammutoliti.
Figura della contemporaneità, nella tua pratica, nel tuo pensiero, mi sembra sia il Cuore. Scrivi: “Il cuore sta tra testa e pancia, non è condensazione di pensieri, eppure riflette; non è impetuosità, eppure è ardore. Il cuore è una zona ampia, tra le due ascelle, da sotto la gola fino al petto […]” (p. 141). “Il cuore abita nel corpo, non c’è altro luogo in cui sentirlo, altrimenti è idealizzazione o sentimentalismo” (p. 24). “Il cuore può diventare un tempio” (p. 42). Il cuore è un organo, un muscolo, ed è uno spazio, quello di cui dai le coordinate; ma mi sembra tu stia dicendo anche che il cuore è un’occasione dove il pensiero e la sensazione, il ragionamento e l’emozione, trovano la coincidenza dei propri tempi: è una radura – mi ripeto – di contemporaneità.
Il cuore è lo sconosciuto, lo straniero che vive in noi. Non sono le emozioni, ma semmai dove emozione e pensiero si incontrano, dove il sentire riflette su di sé e diventa conoscenza. Il cuore non fa distinzioni, ma sa ‘qui fa male’, ‘qui fa bene’. Sa prendere decisioni senza basarsi su concetti e opinioni ma sulla diretta conoscenza di quello che si prova quando in noi agisce la prepotenza e la paura e quando invece agisce la comprensione e la gentilezza. Forse è una radura di contemporaneità perché è capacità di sintonizzarsi con il battito di un altro cuore, umano, animale, vegetale, minerale. Sentire il battito di una montagna come sento il battito della mia amica più cara. Forse è contemporaneo perché è la parte di noi rimasta sempre fuori gioco, fraintendendola come romanticismo, zuccherosità, emotività e buoni sentimenti. Il cuore conosce l’altro come altro, sa stare, anche dolorosamente, nell’alterità. Il cuore sa trasformare, è un alchimista. Conosce l’anima del mondo e non solo la sua. Il cuore ha bisogno di riprendere i sensi, non è impulsività e non è razionalità, è uno specchio che riceve il mondo e riflette silenziosamente. Ma è uno specchio corporeo, feribile, graffiabile, friabile. Va a pezzi e torna intero. Sa pensare e sa parlare. E’ sovversivo, non si lascia incantare, pensa liberamente affidandosi al sentire che è una funzione del conoscere.
Nelle tue parole non c’è un’accusa giudicante contro chi contribuisce, consapevolmente o meno, alla distruzione del pianeta. Non c’è avversione nemmeno contro questo Virus (“Non lo odio, il Coronavirus […]. Sta facendo il lavoro dei virus”, p. 60). Il tuo ambientalismo non è una difesa agguerrita degli animali e della natura, ma una visione, proprio nel senso del fare spazio alle cose perché si mostrino. Non c’è nemmeno biasimo o rassegnazione nel descrivere la violenza ignorante degli uomini sugli animali (come quando, siamo a pagina 146, descrivi la morte di centinaia di uccelli a Roma per i botti di Capodanno). C’è un limpido e sentito dar voce, dar voce agli ultimi, ai senza voce, ma anche alla necessità di coesistere, anzi di ritrovare una comunità con gli animali e con l’ambiente naturale.
Mmmm mi sa che in me l’accusa ai distruttori c’è e forte, decisa, chiara, ma non è il punto del libro, il punto è la custodia di chi non sa difendersi, dei disarmati. Non odio il virus ma accuso il pensiero e l’azione antropocentrica che ci ha portato fin qui e chissà quanti altri sconosciuti antichissimi virus arriveranno con lo scioglimento dei ghiacciai. Perché prendersela con loro e non con chi li ha provocati? Solo penso che combattere un pensiero e un modo predatorio di esistere con le stesse armi, gli stessi toni, le stesse convinzioni assolute sia cecità. In sanscrito ignoranza si dice avidyā, alla lettera ‘non vedere’. Non mi sembra il tempo ormai delle accuse urlate, delle polarizzazioni inutili e nemmeno delle esortazioni. Ora non ci resta che la trasformazione della nostra personale prepotenza e violenza in un atteggiamento propositivo, collaborante, aperto ai regni d’esistenza non umani, aperto allo sconosciuto. Sapere che quel che accolgo di me è quello che saprò accogliere degli altri, altrimenti è solo idealismo, virtù e finirà per trovare la via di nuove prepotenze. Sento il bisogno di ardore, di trasformare il fuoco della rabbia in ardore verso la trasmutazione e la compassione verso tutti gli esseri. È un sentimento forte e rivoluzionario la compassione, non sono le lacrime di commozione, sono la mano tesa verso chi sta annegando, con i piedi saldi su un’assicella che vacilla. Qui tutto annega, anche la montagna che frana, gli alberi che crollano, anche la vigna divorata dalla Popillia Japonica. Ho incontrato dove vivo un taglialegna che ha aveva una grande vigna antica, generazioni di vigna, completamente distrutta. Lui ha messo tutti gli insetti in grandi bottiglie di vetro e le ha lasciate in bella vista ai piedi delle viti. Quando l’ho incontrato mi ha detto: “Hai visto? Ecco la globalizzazione.” Aveva tante lacrime negli occhi. Le grosse lacrime di un solido taglialegna.
“Forse la perdita più grande nella vita di una persona è la perdita della magia. La fedeltà all’infanzia è il rifiuto e la lotta per non perdere l’incantesimo. […] Bisogna fare attenzione al rischio degli assassini della magia” (p. 144). Chi sono gli assassini della magia? E come possiamo difendere la magia, quando il tempo dell’infanzia ci abbandona?
Non mi ricordo più chi ha detto che bisogna crescere rivolti all’infanzia. Non smettere mai di giocare, di ridere di sé, di essere il proprio clown, non nascondendo ombre e difetti ma facendone opera di umorismo per gli altri. Spesso ascolto le persone fare pubblicità di se stessi, elencare più o meno esplicitamente quanto valgono. Mi si stringe la gola. A me piace far ridere di me, non per qualcosa, per ridere e basta e per farsi tenerezza reciproca. Gli assassini della magia sono quelli che nel bosco buttano le carte e le sigarette per terra. Faccio spesso la spazzina del bosco perché è casa mia e mio tempio. Sono assassini e non solo disattenti perché non sanno, non sentono che tutto è vivo, che l’albero ti sente passare, che la farfalla scappa per la tua vibrazione arrogante, che la tua casa è diventata la tua discarica. Chi ha opinioni incrollabili, chi non sente mai di avere torto, chi crede di essere importante e giudica e misura tutti quanti. I virtuosi. Quelli che dicono: “Non è questione.” Oppure: “Mi sembra un po’ ingenuo.” “La cosa è ben più complessa.” Ma soprattutto chi non fa mai un saltello, all’aperto o in casa, non importa, chi non fa mai un saltello uccide la magia. Eppure, resterà solo lei, la magia.
Sembri indicare la dimensione naturale, e animale in particolare, come un luogo e un tempo sintonizzati all’infanzia. E in effetti osservando i bambini si avverte in loro come la risposta all’appello degli animali, una comunicazione naturale, un riconoscersi e un riconoscere l’appartenenza a una casa comune…
Sì è la casa di chi non lo fa apposta, di chi vive per vivere intensamente e non per capire e creare teorie sul vivere. La casa di chi fa all’insaputa di sé, di chi è sempre in formazione. Imparo tanto dalle creature, animali, vegetali, bambine e bambini, imparo la danza, la coreografia di gesti e di versi che non separa il terribile dal meraviglioso, celebra tutto, danza urlando, ululando, ragliando e danza silenziosamente, lasciandosi andare, a occhi vigili, a braccia spalancate, anche alla morte.
Il mondo è in rovina, la vita per come la conoscevamo va a rotoli, il futuro anziché dire fiducia e realizzazione sembra sempre più uno schermo nero e immobilizzante. Come ci salviamo?
Non ho ricette di salvezza, nemmeno il mio Maestro, il Buddha, era un salvatore, solo ha ritrovato (non inventato) un’antica Via e ha fatto di sé una strada. L’accesso alla Via è aperto, non c’è bisogno di iniziazioni, di credi, di riti di passaggio solo: ehipassiko, vieni e vedi. Un esperimento da fare con la propria vita tutta intera, un tentativo di trasmutazione della sofferenza in saggezza, della brama in compassione. D’altra parte il Maestro tibetano Tilopa l’ha chiamata la Via delle nuvole bianche. Il movimento preferito delle nuvole bianche è passare e dissolversi. Dunque, non restano orme decise da seguire, ognuno fa il suo tracciato lungo il cielo. Nessuna esclusività. Le Vie sono infinite.
Certe volte scrivono di me: “La sua poesia è influenzata dal buddhismo.” Ah sì? Credevo anche dalle foglie, dalle nuvole, dai libri, dal respiro, dagli asini, dall’infanzia, da te, da me e dal nostro tentativo di vivere e lasciar vivere e custodire. Tutto qua.