Design e innovazione allo stato libero

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    «Per noi open source è una questione di atteggiamento», spiega Alessandro Tartaglia, uno dei fondatori della Scuola Open Source di Bari (SOS) che a breve comincerà le sue attività tra design e tecnologia negli spazi del Politecnico, dopo la vincita del premio cheFare da 50.000 euro per i progetti di innovazione culturale a forte impatto sociale. «Tutto può essere open source. Anche la storia, per esempio, se insegnata in modo aperto, condiviso e multidisciplinare».

    Pubblichiamo un estratto da Pagina99. Domani in edicola il nuovo numero

    La filosofia della collaborazione, ovvero, va ben oltre l’aspetto tecnologico, che pure è fondamentale: è l’intreccio delle competenze dei soggetti che costruisce nuovo sapere e che risponde a nuovi bisogni inventando nuovi oggetti o hackerando quelli esistenti.

    A quindici anni dal 2001, anno in cui nel seminterrato del MIT è nato il primo laboratorio di fabbricazione collaborativa, ovvero il primo FabLab, l’open source e il design dal basso perdono volentieri la loro aura rivoluzionaria per diventare pratiche quotidiane, negli USA come in Europa. E lo stesso in Italia, dove il movimento maker sta mettendo radici alla frontiera tra cultura digitale e cultura del progetto, tant’è che – secondo i dati di FabFoundation – il numero di FabLab sul territorio (64) è secondo solo a quello degli Stati Uniti (110).

    Scuola Open Source è uno dei tre vincitori del bando cheFare 2015

    In più sono sempre maggiori, come dimostra il caso di SOS, le risorse investite in design, open source e alfabetizzazione digitale. È notizia di pochi giorni fa il bando del ministero dell’Istruzione, con un finanziamento da 28 milioni di euro, per dotare le scuole del primo ciclo di nuovi spazi didattici per l’apprendimento delle competenze tecnologiche di base, trasformando i vecchi laboratori didattici in FabLab a colpi di software libero come Arduino e macchine come stampanti 3D e laser cutter, ma sono già tante le realtà pubbliche e private che sperimentano sul confine tra design, innovazione tecnologica e formazione alla creatività.

    La sfida, infatti, ora che la progettazione open source è possibile su larga scala, è innestare il patrimonio dei saperi dell’artigianato – la cura dei dettagli, la scelta dei materiali, la creatività della forma rispetto alla funzione – sulle nuove possibilità tecnologiche e sui nuovi modelli di partecipazione.

    «Spiegare cos’è un maker o cos’è il movimento open source per noi significa spiegare che oggi, quando siamo davanti a un servizio, una tecnologia o un prodotto», continua Tartaglia, «possiamo pensare di smontarlo, capirlo e rimontarlo rimodulandolo a seconda delle necessità». E ancora: «nessuno di noi crea il mondo che viviamo, ma se ne comprendiamo dinamiche e funzionamento possiamo modificarlo attraverso il nostro agire. In questo senso siamo tutti degli hacker».
    SOS nasce all’incrocio tra making e hacking, e con l’esigenza di reimmettere subito in circolo il proprio sapere tecnologico attraverso la scuola: «crediamo che la didattica possa e debba essere tutt’uno con l’attività continua di ricerca ed esplorazione. Fare le cose e imparare facendole è assolutamente centrale nella nostra visione delle cose, e nel progetto (anche di vita) che vogliamo realizzare», specifica Tartaglia.

    Le attività di SOS (fondata da una comunità di «artigiani digitali, maker, imprenditori, designer, programmatori, pirati, umanisti, ricercatori, sognatori e innovatori», si legge nel loro manifesto) si svilupperanno a breve in corsi teorici e laboratori pratici di vari livelli, iniziative culturali, progetti speciali e di ricerca, consulenze, dopo un primo laboratorio di avviamento «che avrà come oggetto la co-progettazione assieme a docenti, tutor e partecipanti, durante un periodo di 7 giorni, della scuola stessa».

    Makers a Bologna

    Dalla Puglia all’Emilia-Romagna, altra esperienza rilevante è quella del FabLab di Bologna, nato tra il 2011 e il 2012 da un piccolo gruppo di makers e ora uno dei FabLab più attivi e più importanti d’Italia, con 350 membri della community iscritti all’associazione MakeInBo e un fitto dialogo con scuole, cooperative e istituzioni.

    «Siamo in forte crescita», racconta Andrea Sartori, tra i fondatori e i principali animatori del FabLab bolognese. «Stiamo raddoppiando lo spazio in Piazza dei colori e al tempo stesso stiamo cercando una via di sfogo anche nel centro della città. A breve usciremo con una nuova offerta rivolta a makers, scuole e aziende». Tra gli obiettivi, l’esportazione dei laboratori dal basso nel circuito scolastico del territorio e uno sviluppo ancora maggiore del rapporto con le aziende, grazie anche all’integrazione tra designer tradizionali e designer-hacker.

    «L’autoproduzione è un fenomeno in forte crescita tra i designer professionisti locali», spiega infatti Sartori. «Le collaborazioni stanno aumentando e quasi tutte riguardano la realizzazione di gioielli e design di arredo. Il rapporto che si instaura è sempre molto interessante: il maker trasferisce conoscenze sulle macchine e i processi produttivi, dà consigli sulle lavorazioni e sulle economie del processo; d’altro canto il designer, attraverso l’autoproduzione, riesce a utilizzare le macchine sfruttandone completamente il potenziale dando così al maker anche una diversa visione di utilizzo».

    Lontani i tempi in cui i maker agivano in solitudine, quello che si apre ora è un nuovo ecosistema in cui design tradizionale e «design diffuso» collaborano strettamente per la messa a punto di progetti innovativi ad alta componente tecnologica.
    È Ezio Manzini che nel saggio Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation (MIT Press, 2015), contrappone il diffuse design all’expert design classico, delineando «una relazione che si svilupperà non appena i due tipi di design lavoreranno insieme per risolvere i molti e diversi problemi che le nostre società dovranno fronteggiare».
    Come a dire che le modifiche nel panorama del design (i FabLab, il movimento maker, l’hacking) non sono una moda passeggera ma il risultato dei nuovi modi di interazione digitale che abbiamo oggi a disposizione, e che sostituiscono all’idea determinista di una tecnologia con tutte le risposte quella, più democratica, di una tecnologia che genera domande e solleva dubbi, portando l’uomo-maker a guardarla come uno strumento e non come qualcosa di dato.

    Faber sardi

    Anche in Sardegna diversi progetti mettono insieme investimenti tecnologici e culturali, con un rapporto diretto tra mondo della scuola e della ricerca.

    Sardegna Ricerche, l’ente sardo per la ricerca e lo sviluppo tecnologico, dal 2014 destina con il FabLab mezzo milione di euro (finanziamento regionale) per consentire a tutti di sviluppare liberamente i propri progetti tecnologici. «I progetti del FabLab appartengono alle persone che li sviluppano», specifica Sandra Ennas, responsabile del laboratorio. «Il ruolo di Sardegna Ricerche e del laboratorio è quello di sostenerli e aiutare gli artigiani a realizzarli».

    È rivolto invece a disoccupati o inoccupati residenti sull’isola il programma “Generazione Faber”, che ha già assegnato, a oggi, 100 borse da 5000 euro per lo sviluppo di progetti sperimentali nelle tre aree del FabLab – un’officina-laboratorio, un coworking e un’area e-textile, uno spazio attrezzato per sartoria e ricamo pensato come luogo di incontro tra artigianato tessile, moda e nuove tecnologie.

    L’altra massiccia sperimentazione sul territorio sardo, che prenderà il via in queste settimane, è quella di Iscol@, progetto che nasce da una collaborazione tra la Regione e il CRS4, centro di ricerca interdisciplinare incentrato sull’innovazione e già culla della Web Economy sarda, dai tempi del primo giornale online in Europa (era il 1994, con L’Unione Sarda.it).

    L’obiettivo è ambizioso: combattere la dispersione scolastica (che nell’isola è al 24,7% contro una media nazionale del 17%) attraverso laboratori didattici innovativi che mettono insieme l’Augmented Reality con la progettazione 3D, l’internet delle cose con la geolocalizzazione, la scrittura di contenuti multimediali con il coding.

    Grazie a tutor tecnologici, insegnanti e allievi saranno coinvolti in 120 laboratori, dalle elementari alle scuole superiori, per rafforzare il processo di apprendimento tradizionale e per acquisire nuove competenze tecnologiche. «Per la prima volta», racconta Carole Salis, responsabile del progetto per CRS4, «saranno delle realtà esterne al mondo scolastico a dire la loro in materia di progettazione e vediamo quindi cosa succederà, quale sarà l’impatto sui ragazzi, sui docenti, e sulla lotta contro la dispersione scolastica».

    Anche in questi casi, come nei molti altri sparsi tra i FabLab italiani, pensare e fare design si avvia a diventare uno dei modi in cui possiamo ripensare il nostro rapporto con la tecnologia, non subendone i risultati ma facendone un consumo produttivo, per dirla alla de Certeau, contribuendo a fare e a disfare i nostri prodotti tecnologici. Un approccio critico che può fare la differenza tanto per la scuola quanto per il design del futuro.

    Note