Autobiografia di un corpo in uno spazio

Scarica come pdf

Scarica l'articolo in PDF.

Per scaricare l’articolo in PDF bisogna essere iscritti alla newsletter di cheFare, completando il campo qui sotto l’iscrizione è automatica.

Inserisci i dati richiesti anche se sei già iscritto e usa un indirizzo email corretto e funzionante: ti manderemo una mail con il link per scaricare il PDF.


    Se inserisci il tuo indirizzo mail riceverai la nostra newsletter.

    image_pdfimage_print

    Mi chiamo Paola, ho 34 anni, 10 anni fa mi sono laureata in architettura; da 5 anni sono iscritta all’Ordine, pago la mia cassa di appartenenza, e a giugno ho concluso un dottorato in Progettazione Architettonica. Ma alla fine mi sa che non sono un architetto.

    Questa crisi di identità ce l’ho da sempre, per esempio nonostante le insistenze di mia madre non ho voluto scrivere sul citofono “architetto” prima del nome. Anche quando ero all’università, pensavo che quello che stavo studiando mi piaceva, ed ero brava e macinavo esami, ma sospettavo che comunque non sarei mai stata un architetto; e poi ho passato l’esame di stato l’anno dopo essermi laureata, ho aspettato 5 anni per iscrivermi all’Ordine degli Architetti di Roma, e da 3 anni sono anche consigliere (per vicende traverse che poi racconterò), ma ancora non sono sicura di essere un architetto.

    C’è stato un evento che ha spezzato in due il percorso lavorativo mio e di molti miei colleghi, un evento di quelli per cui c’è un “prima” e un “dopo” e il dopo non potrà mai essere uguale al prima: e questo evento è stato – è tuttora – la crisi economica. Sembra una banalità dirlo ed è tra l’altro vero per tutti i mestieri, ma nel caso di chi lavorava nel settore edilizio la crisi economica è stata davvero di una violenza inaudita perché è andata a soffiare sul fuoco della speculazione immobiliare su cui tutto il sistema produttivo italiano si era seduto, nell’illusione che si potesse continuare a costruire per sempre. Se mi fossi laureata 20 anni fa, chissà, forse, avrei potuto essere un architetto, anche solo per un periodo della mia vita; comunque non avrei avuto bisogno di chiedermelo, l’avrei fatto e basta.

    Invece mi sono laureata nel 2006: all’epoca Roma era in pieno processo di approvazione del nuovo Piano Regolatore e c’era tutta una frenesia di centri commerciali e palazzine balconatissime che avrebbero dovuto costituire le “nuove centralità” per il recupero delle periferie; a 30 km dal centro venivano tirate su vere e proprie micro-città, senza neanche un progetto di metropolitana a servirle, senza negozi, senza scuole, e andavano a ruba a 5000 €/mq; per la legge dei grandi numeri c’era anche qualche progetto di qualità, e se avevi un buon voto di laurea e un buon portfolio ci mettevi poco a trovare lavoro in uno studio di architettura, che magari non faceva proprio bassa speculazione e ti insegnava il mestiere, e ti pagavano anche: poco, ma in misura incredibilmente maggiore rispetto a quello che tocca ora a un neo-laureato.

    Così per un anno ho lavorato per diversi studi romani, poi ho vinto una borsa di studio per andare a lavorare per uno dei più importanti architetti di Barcellona, Carlos Ferrater, e sono partita. Stavo cioè facendo quello che fa qualunque laureato in architettura per poter diventare un architetto: la gavetta.

    La Spagna era stata per anni l’El Dorado degli architetti: anche lì il sistema produttivo si era seduto sul fuoco della speculazione edilizia, ma lo aveva fatto investendo in qualità e sperimentazione; c’era solo un piccolo dettaglio: per alimentare questo fuoco, avevano usato la benzina dei mutui sub-prime. Così, quando sono arrivata io, c’era l’inferno di cristallo: la disoccupazione era al 25%, ogni giorno si sentiva di qualche amico, o amico di amici, che aveva perso il lavoro. Ho finito mestamente la mia borsa di studio, ho provato a cercare lavoro lì senza successo, e a marzo del 2007 sono tornata in Italia.

    Intanto la crisi era arrivata anche da noi, e per 4 mesi ho provato inutilmente a trovare un lavoro pagato in uno studio (in Italia bisogna sempre specificare se il lavoro è pagato o no, perché come diceva Massimo Troisi, il lavoro e basta non esiste). Alla fine ho accettato la prima cosa che mi è capitata: girare l’Italia per reperire planimetrie nei catasti.

    Da questo momento in poi il mio curriculum è diventato un Frankenstein di lavori fatti ovunque e comunque per accumulare esperienze, pagarmi l’affitto, provare a costruire un percorso che mi conducesse ad avere una professionalità spendibile, passando fra forme contrattuali sempre più al ribasso: dal finto contratto a progetto alla finta partita iva alla finta partita iva con timbro del cartellino. Questa che sembra quasi una notazione sindacale nel racconto biografico di un percorso umano e lavorativo è invece secondo me la pietra di inciampo che, una volta presa coscienza della sua esistenza, ha deviato – per la seconda volta – il cammino che avevo intrapreso per cercare in tutti i modi di essere un architetto. E non solo perché – banalmente ma anche legittimamente – non vale la pena lavorare a certe condizioni, ma perché l’errore sta proprio nel dividere il modo in cui si lavora dal prodotto del proprio lavoro, e proprio non si può produrre qualcosa di decente in quel modo lì, senza diritti, senza prospettive, e senza ormai più nessun piacere e neanche un’etica, perché a quel punto progetteresti di tutto – progettavamo di tutto, case al limite dell’abuso e grattacieli in campagna a 5 km dal raccordo.

    Così 5 anni fa ho intrapreso una nuova strada: ho provato a essere un architetto nei modi in cui posso esserlo in proprio. In Italia infatti se non hai determinati requisiti di fatturato – al netto di tutta la corruzione del sistema, che per praticità in questo racconto faremo finta che non ci sia – non puoi partecipare alle gare di progettazione e accedere ad incarichi pubblici di un certo livello; gli incarichi privati viaggiano col passa parola, e quindi hanno un peso economico direttamente proporzionale alla capacità economica delle persone della tua cerchia. Rimane il mercato dei piccoli investitori, delle ristrutturazioni edilizie, dei lavori in sub-appalto, della burocrazia minuta; il mercato dei concorsi di progettazione – sempre più rari, dei finanziamenti europei di dimensione limitata; e mercati incerti come quelli dell’innovazione sociale e della promozione culturale legate all’architettura: processi partecipativi, interventi di rigenerazione urbana a basso budget, didattica ed eventi. Tutti questi micro-mercati insieme fanno un mercato (più o meno), ma da soli non bastano: così il mio Frankenstein è tornato in piedi, più scomposto di prima se possibile, eppure più simile a come lo volevo io.

    Alla fine infatti Frank e io ci vogliamo molto bene; nel puzzle del suo corpo rattoppato ho trovato il modo di inserirci tutto quello che fa di me – forse – non un architetto, ma la persona che sono, i ragionamenti che stanno nella mia testa, la visione che ho del mondo, che non passano solo per il lavoro che faccio: in questi 5 anni la consapevolezza sempre più forte che quella che mi trovavo a vivere non era solo una difficile vicenda biografica ma il risultato di una crisi sistemica a cui andava data una risposta collettiva mi ha portato all’impegno pubblico e politico, fondando un’associazione (Iva sei Partita) per denunciare il fenomeno delle finte partite iva tra i professionisti del mio settore e venendo eletta nel Consiglio dell’Ordine degli Architetti di Roma; l’idea dell’impossibilità dell’esistenza di un’architettura “pura”, non contaminata dal sistema economico e sociale in cui viene generata e ininfluente sui comportamenti delle persone che la fruiscono, mi ha fatto associare con un gruppo di amici, non tutti architetti, con cui promuoviamo eventi e progetti diversi che hanno in comune l’obiettivo di far uscire per quanto possibile la disciplina dai suoi specialismi e allo stesso tempo riaffermare presso l’opinione pubblica l’importanza cruciale dell’architettura nella società (l’associazione si chiama Open City Roma e per esempio facciamo queste cose qui e queste altre); la curiosità di capire questo legame tra i nuovi paradigmi tecnologici, produttivi e sociali e l’architettura mi ha spinto a intraprendere di nuovo il percorso universitario e a concludere il dottorato con una tesi sul rapporto tra spazi della produzione e spazi urbani nella città contemporanea; la fame mi fa fare un sacco di pratiche al catasto (buttale via).

    Da qualche mese ho fatto anche una cosa che quando ho iniziato a lavorare in proprio non potevo permettermi di fare e avevo per lungo tempo rimandato: prendere in affitto uno spazio – condiviso con amici e colleghi – in cui con Frank potessimo continuare a portare avanti i nostri esperimenti lavorativi. Questo spazio sta diventando il centro delle orbite di tutti i miei compagni di ventura e dei loro rispettivi Frankenstein, il luogo dove lavoriamo da soli e insieme, ci riuniamo, e succede anche che nascano nuovi progetti. Sembra strano, per quella che è oggi la pervasività del virtuale, ma certi processi di collaborazione, di innovazione, di creazione, per avvenire hanno bisogno di uno spazio reale.

    La verità in effetti è che finché avremo un corpo avremo bisogno di uno spazio, e dell’architettura. (e degli architetti o come me più o meno tali: non vi libererete facilmente di noi).

    “Continuando noi ad essere luoghi, come possiamo non volere dei luoghi? Ma i luoghi desiderabili non possono più essere quelli della polis e neanche più quelli della metropoli industriale. Devono essere luoghi nei quali i caratteri della mobilitazione universale possano essere rappresentati” (Massimo Cacciari, La città)

    Note