Una delle prime cose che colpiscono di Torino è la vastità degli spazi. In particolare accade se si viene da Milano, con i suoi agglomerati densi e un senso tutto formicolante di persone e mezzi in movimento dentro uno spazio spesso troppo angusto per le ambizioni che contiene. Torino è invece una città larga e distesa, viali e controviali si incrociano ordinatamente, si è sempre raggiunti dal sole e si ha l’impressione, pur conoscendola poco, che non accada così spesso di sentire il fiato corto.
Chi pensa a Torino pensa Fiat, Einaudi, Salone del libro. Un passato industriale e un presente costruito intorno alla cultura e ai suoi eventi. È però vero che le città sono sistemi complessi, interconnessi, in parte indecifrabili: il loro sviluppo non è mai unidirezionale e il loro funzionamento mai efficacemente ascrivibile a poche e semplici formule. Lo ricorda Italo Calvino ne Le città invisibili, citato in esergo al libro Una città laboratorio culturale. Torino: storie, esperienze, strategie di Francesco De Biase per Franco Angeli edizioni: “Marco Polo descrive pure il rapporto esistente tra unità e molteplicità e come ogni elemento concorra a creare l’insieme dove però l’insieme che ne risulta è diverso dalla somma di ogni singolo elemento.”
Ciò che aiuta a fare il libro di De Biase è per l’appunto dissezionare i percorsi e le esperienze che, in ambito culturale, a partire dagli anni ‘70 ad oggi, hanno contribuito e rendere la città ciò che è, definendone anche una particolare auto-proiezione nel futuro a breve e medio termine. L’autore, emigrato dalla Lucania insieme al padre che trovò lavoro in un’azienda edile, vanta un’esperienza più che trentennale da dirigente pubblico nell’area della cultura della Città di Torino. Come spesso accade, la biografia dà forma alla vocazione: De Biase racconta degli scioperi degli operai a cui prendeva parte insieme al padre e del sacerdote che negli stessi anni si occupava di teatro insieme ai giovani del quartiere: da qui i due imprinting torinesi divenuti in seguito passioni e impegni: la politica e la cultura. E’ grazie all’esperienza in questi due ambiti che De Biase ripercorre dettagliatamente il lavoro compiuto insieme a decisori politici, colleghi di dipartimento, enti, associazioni e cittadini. Il testo, oltre a dare conto dell’operato degli assessori alla cultura che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni – Ugo Perone, Fiorenzo Alfieri, Maurizio Braccialarghe, Francesca Leon e l’attuale Assessora Rosanna Purchia – ospita anche i contributi di alcuni esperti che riflettono sulle sfide per le città del futuro.
La definizione di Torino come laboratorio viene dal riconoscerne il ruolo di punto nodale di scambi, fabbrica di idee, movimenti e scoperte innovative in ogni ambito. Una città che a causa di crisi di natura produttiva, politica e sociale, ha dovuto ripensarsi e rinnovarsi di continuo cercando un modo per cambiare senza tradire sé stessa, la propria storia e la propria vocazione. Perché una delle caratteristiche di Torino e dei suoi abitanti sembra infatti essere un certo spirito conservativo, sebbene non necessariamente conservatore, di ciò che la città ha saputo essere nel passato. Seguendo Charles Landry che in City Making sostiene sia necessaria una conoscenza delle strutture culturali che caratterizzano una civiltà per poterne comprendere le dinamiche presenti, possiamo leggere la Torino di oggi alla luce di quella di ieri. Nel corso degli ultimi decenni, al pari di altre realtà europee con un grande passato manifatturiero, Torino è diventata una città postindustriale. Ciò ha generato crisi e ripensamenti, problematiche di ordine sociale ed economico di non facile risoluzione. Una delle risposte più consistenti ha avuto a che fare con la generica quanto ambiziosa volontà di “puntare sulla cultura” per dare all’ex capitale dell’auto una nuova identità che costituisse, contemporaneamente, un’immagine inedita e un inedito driver di crescita.
Progettare la cultura oggi significa però pensare a molte cose: all’arte così come all’intrattenimento, all’università quanto ai grandi eventi. Perché l’effimero si accompagni al duraturo è stato necessario lavorare in molte direzioni e scale, guardando all’Europa senza dimenticare i quartieri. Per reagire dunque adeguatamente al tramonto di uno sviluppo industriale che non è avvenuto in funzione di Torino ma piuttosto all’inverso – Torino in funzione dell’industria – la trasformazione in città di cultura e servizi doveva partire dal ricostruire un “volto umano”. Biblioteche, centri sportivi, teatri, scuola: la città come un cantiere educativo.
Ragionando in questi termini per l’amministrazione della città ha avuto senso partire da ciò che già si aveva, connotandolo in maniera nuova.
Il passato di capitale dell’automotive ha lasciato tracce, ad esempio, nell’identificazione del design come ambito di importanza strategica per la progettazione culturale: ponte fra tecnologia e arte, idea e risultato, desideri e modi di vita, cultura e commercio. Allo stesso modo, il passato di Torino come culla di una delle più prestigiose case editrici del paese, oltre che milieu di provenienza di una rilevante fetta della classe intellettuale del dopoguerra ne determina la vocazione alla letteratura, con La Fiera del Libro, il Circolo dei Lettori, il Premio Grinzane Cavour, la Scuola Holden e il riconoscimento da parte dell’UNESCO del titolo di Torino Capitale Mondiale del libro nel 2006.
Interessante la testimonianza di Fiorenzo Alfieri, assessore alla cultura dal 2001 al 2011 con il sindaco Sergio Chiamparino, che prima degli incarichi politici fu maestro elementare, oltre che fondatore e attivista del gruppo del Movimento di Cooperazione Educativa. Alfieri sosteneva che non vi fosse “davvero grande differenza tra la programmazione della scuola e quella della città. L’insegnante ha davanti a sé un certo numero di anni, quindi si costruisce una programmazione, poi anno per anno la ridefinisce, infine giorno per giorno la raffina. L’amministratore fa la stessa cosa.” Alfieri coordinò la riapertura di Palazzo Madama e di diverse sale teatrali e si occupò del completo rinnovamento del Museo dell’Automobile.
Braccialarghe, assessore alla cultura della giunta Fassino poneva invece l’accento su un altro aspetto della progettazione culturale: la difficoltà, nell’epoca della crisi continua, di trovare le risorse per le attività culturali. La cultura, al pari della ricerca e dell’educazione scolastica, è un bene e un investimento a lenta restituzione di profitto. Tale lentezza ne determina il valore pervasivo ma anche la fragilità. L’obbiettivo dichiarato di Braccialarghe è stato quello di allargare la fruizione della cultura: “se la cultura, come penso, è cibo per l’anima, se è cibo per la mente, se è un modo di coesistere e riconoscersi in una comunità, noi dobbiamo far di tutto per allargare i fruitori di questi eventi culturali. Quello che dico è che va benissimo avere un Teatro Regio con 16.000 abbonati, ma Torino è una città di un milione di abitanti. Facciamo una grande mostra, sono contento che la mostra di Renoir abbia avuto 251.000 visitatori, ma siamo sempre una città di un milione di abitanti.” Braccialarghe fu l’assessore che alla Rassegna Classica affiancò Torino Jazz Festival, passando per Natale coi Fiocchi, iniziative che hanno animato la città eventi di natura trasversale e ampia.
Se è vero, di nuovo con Calvino, che ciò che si gode delle città non sono le sette o settantasette meraviglie ma la risposta che danno a una propria domanda, Torino sembra dire che laddove qualcosa finisce qualcos’altro può iniziare. Nessuno stravolgimento né rinnovamento totale, ma una progettazione che parta dai cittadini e dalla loro tradizione; un luogo, con De Biase, dove si sperimenta, si generano alchimie, si sbaglia, si prova e si rinnova. D’altronde il futuro non è qualcosa di inatteso e lontano: è invece un processo permanente.
Immagine di copertina di Fabio Fistarol da Unsplash