Il grande paradosso della ‘street art legale’

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    “Non puoi viaggiare su una strada senza essere tu stesso la strada” disse Buddha… E come si puo difendere veramente il mondo della strada se non provieni da lì?

    Quando iniziammo, il termine “street art” non era stato ancora coniato. I muri che dipingevamo non erano mai autorizzati, le persone non sapevano bene cosa aspettarsi e, nel dubbio, ci insultavano spesso a priori. Quando andava peggio, finiva in lunghi inseguimenti; vigilantes o poliziotti incoscienti a volte ci sparavano anche dietro.

    Nell’ambiente del Writing esistevano in parte quelle distinzioni importate dagli U.S.A.: bombers da un lato e muralists dall’altro.

    Credevamo fieramente nella ricerca stilistica di ciò che producevamo esclusivamente per la strada e per noi. Ma eravamo anche un po’ ibridi. Mi spiego, per moltissimi di noi, se facevi solo tag e pannelli in yard eri sì degno di rispetto; ma non quanto lo fosse chi, oltre ad essere un bomber, evolveva anche il proprio stile nelle hall of fame, regalando outlines e sfumature impresse negli sguardi dei passanti.

    La magia che trovavamo nelle nostre hall of fame era qualcosa di unico, lì si dipingeva in tranquillità, incontravamo gli amici, crescevamo. Vicino a casa mia a Milano c’era quella della crew 16k, poi dall’altro lato del naviglio quella dei Thp-Mnp. Non erano semplicemente dei “musei a cielo aperto” o le solite favole raccontate da tutti quelli che oggi si spacciano per intenditori della materia, dai curatori ai critici d’arte. Erano pezzi di tessuto urbano, quei muri li sentivamo nostri, la mia hall of fame era come una seconda casa. Ci trascorrevo giornate intere, buttavo dentro tutti i miei risparmi, me ne prendevo cura, la difendevo.

    Un po’ come dei sarti improvvisati, nella sperimentazione quotidiana di una forma espressiva che non voleva essere accostata all’arte, non avevamo bisogno di social o Instagram o selfie giornalieri. Ci scambiavamo in strada le nostre impressioni, consigli e conoscenze acquisite sul campo e avevamo solo una manciata di foto stampate dei nostri lavori. Ma se volevi sapere chi eravamo, dovevi andare semplicemente in giro e leggere sui muri i nostri nomi, che erano un po’ ovunque. Una rete prima del web, un social con regole non scritte, ma con maggior rispetto tra tutti i membri di quello che potresti trovare oggi tra tutti gli iscritti a Facebook sul pianeta terra .

    Esistevano, certo e non pochi, numerose opposizioni all’interno per questioni legate al rispetto e agli spazi in yard, ma era uno scontro molto differente da quello ideologico in corso. Oggi da un lato la cultura Graffiti Writing rimane in gran parte fedele alla propria appartenenza libera in strada; dall’altro tutto ciò che si ammassa col termine “street art”, nella maggioranza dei casi di street non ha più nulla, ma vuole invece esser protagonista a tutti i costi dell’ “Art”, in un groviglio d’infiniti interessi commerciali.

    Da un lato alla Street Art fa comodo scaricare le responsabilità degli imbrattamenti indecorosi sul Writing, lei non c’entra perchè fa disegni belli. Dall’altro lato però, la Street Art è per lo più rappresentata dal neo rispolverato muralismo urbano, quindi ben lontano dall’illegalità. Ma ecco che qui scatta il moto d’orgoglio, lungi da qualsiasi street artist rinnegare il mondo dell’illegalità…

    Perchè Street Art legale non si può sentire. Allora ecco che la pretesa natura della Street Art, ovvero quella di arte di strada “spontanea”, trova una propria credibilità grazie a quella confusione di generi e definizioni che la vede ancora associata al Writing.

    Di questa confusione in realtà si giovano in molti. Associazioni che si professano di “volontariato” per promuovere la “Street art” ma che si muovono come agenzie di comunicazione, raggirando anche il fisco; festival di Sanremo dell’arte urbana, che con la scusa della rigenerazione urbana e di dare spazio agli artisti “fuori dall’illegalità”, assoldano a tozzi di pane neo street artisti acceccati da un minimo di visibilità.

    Nell’esplosione di messaggi contraddittori, le persone accorrono alle mostre dell’autore di strada che critica il capitalismo, ignorando che poi lo stesso autore agisce con la propria società per tutelare i propri diritti commerciali. Istituzioni che passano messaggi completamente contraddittori, come quel Comune di Milano che da un lato si costituisce parte civile in tutti i processi contro i writers, salvo poi dall’altro lato esaltare l’illegalità delle creazioni della multinazionale Banksy (…che poi non ho ancora perchè gli italiani chiamano “bansky”!).

    Parallelamente a tutto questo – come una sterzata in grado di incrinare ulteriormente il panorama – nel 2009, sulla scia di discorsi politici nati dalla trovata che “decoro” equivale a “sicurezza” delle città, la politica calpestò senza troppa lungimiranza tutto ciò che faceva parte del mondo della strada. Venne inasprito il reato di imbrattamento previsto dall’art.639 del Codice penale italiano, introducendo la procedibilità d’ufficio per quasi tutte le ipotesi d’intervento di writers e street artist, punendoli con pene detentive più severe.

    Contemporaneamente a Milano, una giunta accecata dalla guerra al mondo della creatività urbana (che durava ormai da vent’anni), dopo averla celebrata soltanto un anno prima al Padiglione d’arte contemporanea con una mostra (Pac, 2007), ora ne cancellava a rullate di grigio i migliori esempi (valga su tutti il bellissimo pezzo di Phase 2 (RIP), riconosciuto padre mondiale del graffiti writing, in via G.Richard).

    Forse la gente d’un tratto fu più felice con tutti questi processi… Quante volte ho sentito dire:” il writing è quella cosa che deturpa le città con le tag, mentre la street art è quella dei disegni belli”. O magari : “A me la street art piace perchè è arte, mentre i writers devono esser puniti” (e magari aggiungendo “se lo facciano a casa loro!”).

    Quando arrivò il momento di affondare le mani nelle maglie giuridiche del sistema, mi resi conto che altre tag in mezzo alla strada non avrebbero aggiunto nulla di nuovo, ma una serie di azioni ben mirate nel mondo giudiziario forse sì.

    L’occasione si presentò allora quando, indagato io stesso in un procedimento penale per imbrattamento, ancora praticante avvocato, arrivarono i primi writers imputati a chiedermi di difenderli (..che tralaltro in aula al posto di “avvocato” mi chiamavano con la mia tag…). Ne arrivarono sempre di più, del resto l’anti-graffiti task force costituita a Milano e nata da un accordo tra il Comune e la Procura della Repubblica, stava affrontando writers e street artist con metodologie anti-terrorismo.

    Writers più giovani che poco tempo prima venivano a trovarmi quando dipingevo nella mia hall of fame in Barona, ora chiedevano appuntamento in studio. Inevitabilmente difenderli diventò come difendere me stesso. Le stesse istituzioni che da un lato elogiavano la street art, volevano processare dall’altro gli stessi autori, creando una confusione di senso e nelle politiche del territorio che ci trasportiamo ancora oggi. Per me era il momento di agire su quel terreno di gioco.

    Necessario innanzitutto illustrare ai giudici il perchè della cultura di strada ed il significato di quella ricerca che presuppone anche una semplice tag, concetti di cui tutti sembravano completamente all’oscuro.

    Fu così che lunghe chiacchierate tra amici alle Hall of fame, o la sera davanti una birra prima di andare tutti a dipingere, tornarono utili nelle mie strategie difensive. Nessuno infatti aveva mai approcciato il discorso writing o street art indagando sul senso proprio dell’agire in strada nelle aule giudiziarie. Del resto ho sempre la netta percezione, che un diritto di espressione possa esistere al di là delle coesistenze tra norme giuridiche e che si tratti solamente di farlo capire anche a chi deve giudicare.

    Come può essere reato una tag o un disegno di chi, pur agendo senza alcun tipo di autorizzazione, realizza anche un semplice Throw up, su un muro già precedentemente imbrattato? La convinzione di un senso nel percorso in strada, era più forte di una norma giuridica, ero certo che esistesse un diritto anche nell’illegalità del writing.

    Quell’idea insieme a tante altre, trovarono finalmente terreno fertile e la conferma avvenne proprio nella prima pronuncia che assolveva i due writers che difesi dinnanzi al Dott. Giordano del Tribunale di Milano (nel 2012), rei di avere realizzato dei Throw up su muri non autorizzati. Nacque così il primo precedente giudiziario in Italia in favore del Writing.

    Tutto ciò non rappresentava un inno all’illegalità, anzi: il rispetto del principio di legalità e la sussidiarietà della pena, dev’essere un monito per tutti; proprio per questo condannare un innocente è molto più grave che assolvere un colpevole, esattamente come ci insegnava l’insigne prof. Stella all’università.

    Non è tra l’altro necessario, a mio avviso, avventurarsi su territori sconnessi, del genere capire cosa sia arte e cosa non lo sia, anzi lungi da un avvocato sostenere che questa o quella creazione in strada siano forme “d’arte” come invece molti ancora oggi provano inutilmente a fare. La casistica della giurisprudenza dovrebbe insegnare qualcosa a proposito. Mi risulta infatti che la maggior parte delle difese impostate in quel modo in alcuni processi noti, abbiano fatto un buco nell’acqua.

    Nel 2014 fu la volta del primo caso relativo alla “Street art” e questa volta mi trovai a difendere proprio il mio ex-socio di strada. Riuscendo a far capire al giudice cosa aveva spinto Manu Invisible nottetempo a dipingere in un sottopasso ferroviario e analizzando punto per punto ogni aspetto della condotta, il Tribunale di Milano (Giudice dott.ssa Speretta) dichiarò l’insussistenza del reato sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo. Una sentenza che balzò in tutte le cronache perchè si spingeva fino ad affermare che oggettivamente si trattasse di un’opera d’arte (conclusione del giudice e non certo del sottoscritto).

    Per celebrare la vittoria decisi di dipingere con il mio assistito sotto una massicciata ferroviaria, proprio come il luogo in cui l’imputato era stato colto in flagranza. Ma la Procura Generale, pensò bene di non lasciar alcun spazio ad interpretazione a favore della street art e impugnò la sentenza. Arrivò così anche il secondo grado.

    Anche questa volta fu una vittoria, ma il collegio, dubbioso ma molto attento alle mie argomentazioni, si decise ad assolverlo non più nel merito, quanto in nome di una causa di non punibilità entrata in vigore solamente qualche giorno prima, l’art.131 bis Codice Penale.

    Anche in quel caso decidemmo di festeggiare in strada con un altro dipinto a tema. Realizzai un’idea che avevo in mente da tempo, la cd. “Iustreetia”, ovvero una traslazione della statua della giustizia ubicata nel cortile del palazzo di giustizia, trasformata in modo da rappresentare le istanze del mondo della strada.

    La Procura Generale impugnò nuovamente la sentenza, trascinandoci fino in Cassazione a Roma: fu così che nacque nel 2016 la prima sentenza della Suprema Corte in materia street art. Una sentenza che in realtà, al contrario di quanto si raccontò su molti giornali secondo cui la Corte avrebbe affermato che la street art non è reato, non disse nulla di simile. Tantomeno assolveva l’imputato perchè ritenuto un artista (come ho letto invece da giornali poco informati).

    La sentenza della Cassazione invece, annullò il rigetto del ricorso perchè fondato ancora su valutazioni di merito, poiché nel terzo grado di giudizio del nostro ordinamento, non è ammesso un nuovo sindacato nel merito della vicenda, ma soltanto in relazione a motivi tassativi di legittimità.

    Arrivarono anche le condanne esemplari, specie quella di un mio assistito divenuto caso noto per essere il primo writer in Italia a dover scontare la reclusione. Ma questa volta capii che era il momento di cominciare ad agire su un altro livello ancora. La comunità artistica reagì con un certo sdegno all’ingiustizia e sproporzione delle reclusione per un writer e così ho pensato e scritto un disegno di legge.

    Puntai quindi alla derubricazione del reato dall’attuale delitto (ovvero reato punito con reclusione e multa) alla più tenue contravvenzione (ovvero reato punito con arresto a ammenda). Non un tentativo di “istituzionalizzare” l’arte di strada, bensì un progetto per lasciare spazio agli autori di strada di poter agire in strada, consci di conseguenze giuridiche proporzionate al proprio agire.

    La proposta di legge, presentata con l’onorevole Palazzotto, A. Cegna ed il collettivo Wiola alla Camera dei Deputati nel febbraio 2019, se approvata comporterebbe la certa diminuzione dei processi al writing e street art, lasciando spazio a quella forma di accordo tra proprietario dei muri ed imputato in grado di chiudere il procedimento senza strascichi. La nuova norma dell’art.639 avrebbe anche come effetto certo quello dell’alleggerimento del carico giudiziario per la magistratura.

    Una proposta insomma che ho presentato contro il mio stesso interesse di avvocato, poichè se approvata cancellerebbe una fetta consistente di lavoro. Ma come scrivevo sopra, è una questione di coerenza: la mia risponde prima di tutto a quel codice non scritto di regole che ho conosciuto proprio dalla strada. Credo valga per tutto ciò che facciamo, forse ogni cosa assume un significato solo se siamo in grado di osservare con onestà il nostro cammino, dimostrandoci in linea con esso.

    E quest’aspetto invisibile ma concreto, servirebbe di certo se diffuso nel folto gruppo di chi celebra la street art, in tal caso conferendole l’anima di un vero e proprio movimento, cosa che invece esiste per ora soltanto nel mondo dei writing.

    Note