Quadriennale di Roma. Altri tempi altri miti

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    Inaugurata dal Presidente della Repubblica. Preceduta da un tam tam di primati numerici (un numero di curatori che si conta su 3 mani, un centinaio di artisti, centocinquanta opere). Accompagnata da infinite diatribe su come siano stati scelti i curatori. Contestata per il fatto che non ci fossero rimborsi per il trasporto delle opere e per gli artisti (anche se è noto che funzionano così anche la Biennale di Venezia ed i premi dei grandi musei). Criticata perché alla fine, gli artisti romani (ed i loro collezionisti che spesso tutto sembrano governare) non sono stai minimamente favoriti. Inaugurata con un vernissage che è stato l’evento mondano dell’arte più à la page dal tempo di Marconi, a giudicare dalle file senza fine alle porte del Palazzo delle Esposizioni di Roma, dalla impossibilità di camminare tra le sale colonnate dell’edificio e dai visi entusiasti dei visitatori.

    La sedicesima edizione è ritornata così, dopo otto anni, in una giornata di mezzo autunno assolato romano, quando invece di andare a fare Tai Chi e godermi la luce autunnale, mi sono fatta convincere da una cara amica (artista esposta in una delle dieci mostre di questa edizione), ad andare al vernissage ed alla cena di gala.

    Per me che nell’ultimo decennio ho passato poco tempo a Roma, vedere l’opening di due eventi del mondo dell’Arte così attesi nella stessa settimana è stata davvero una full immersion in un contesto che ancora guardo con stupore e vivo con spasso incredulo (due giorni prima, la affollata inaugurazione del nuovo allestimento della Galleria Nazionale di Arte Moderna a cura del nuovo direttore, che ha remixato la collezione e cambiato il nome alla Galleria).

    Naturalmente, è stato impossibile riuscire a vedere le opere durante l’opening: il che mi ha costretto a tornare pochi giorni dopo, di mattina, con una macchina fotografica e molta buona volontà. Ma il vernissage mi ha sicuramente permesso di capire la magnitudine dell’evento in questa città.

    Di per sé, la Quadriennale mi è sempre parsa come una entità molto istituzionale. Quell’istituzionalità che solo chi è di Roma può percepire nel profondo delle viscere: ti fa correre un brivido lungo la schiena e ti fa sempre, immancabilmente, sentire che non sei e non sarai mai nessuno, a meno che tu conosca qualche politico o qualche sindacalista e ti sappia fare scudo di qualche provvedimento legale.

    Oscuri burocrati, invisibili ai non addetti ai lavori, con qualche titolo ridondante (segreteria generale, alta direzione e simili), che sicuramente devono aver fatto qualche concorso e qualche ricorso per essere entrati nell’Istituzione ed operare delle scelte.

    Addetti agli spazi anch’essi entrati a lavorare attraverso qualche selezione pubblica e che fanno pesare ogni singolo grammo del loro piccolo potere territoriale.

    Un senso glaciale di totale impossibilità di relazione. Questa sensazione che vale per gli uffici postali, gli ospedali e gli sportelli pubblici, nelle istituzioni museali ha di solito il profumo di una istituzionalità poco sexy, che ti fa sognare Londra con i baristi hipster dell’ICA: uffici amministrativi tristi e freddi e dipendenti che usano gli zoccoli ortopedici per lavorare.

    E invece, la sedicesima edizione della Quadriennale di Roma ci ha fatto in parte dimenticare questa sensazione. Sarà per gli allestimenti che somigliano a quelli del mondo dell’arte internazionale. Sarà per le opere che in molti casi sono lavori di artisti che avevo già visti spesso altrove, in qualche biennale o mostra internazionale, ma delle quali, qui a Roma, era arrivato solo un eco lontano e un po’ misterioso (in molti casi in altre lingue, che come si sa, spesso siamo poco bravi a decifrare).

    Sarà per gli addetti alle sale, giovani gentili e professionali, che con molta probabilità lavorano sottopagati a partita IVA per l’Azienda Speciale Palaexpò e non sono più dipendenti di una volta, quelli con il tempo indeterminato, molta noia e gli zoccoli ortopedici, perché non possono permettersi di far trasparire alcuna frustrazione.

    Sarà, infine, per la modalità di selezione di curatori ed artisti: un bando quasi pubblico per i progetti curatoriali (modalità, qui, ancora piuttosto tutto inedita). Fondazione Quadriennale e Palaexpò hanno infatti stilato una lista di 69 curatori ai quali è stato chiesto di presentare un progetto e tra i quali sono stati scelti i progetti vincitori: dieci mostre per undici curatori. C’è naturalmente chi si è chiesto a più voci su quale base sia stata stilata la prima lista.

    E qui già risorge il sentimento di cui sopra: l’ufficio postale e l’ospedale è sempre dietro l’angolo. Scorrendo velocemente la cronaca dei media italiani specializzati dell’ultimo anno, mi viene da pensare che deve essere per questo che a Roma ha vinto un sindaco Cinque Stelle e mi chiedo se davvero ci voglia la crociata dei giusti contro i poteri cattivoni perché le istituzioni si lancino in un bando integralmente pubblico ed una modalità trasparente di gestione della cultura (e questo vale anche per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia).

    Difficile dire se questa mostra rappresenti l’Italia dal 2000, come è indicato dal disclaimer della Fondazione Quadriennale e del Palaexpò (coproduttori dell’evento). Certo è che un addetto ai lavori si cimenta in primo luogo nella critica istituzionale (e quindi un po’ autoreferenziale) della Quadriennale: dieci mostre pensate e curate da undici persone le cui differenze generazionali, culturali, politiche ed anche la cui collocazione geografica sono immediatamente espresse nel linguaggio espositivo che mettono in atto.

    Chi viene dagli anni Novanta e dalle istituzioni tradisce aspirazioni monumentali e istituzionali (grandi formati, grandi nomi). Chi viene dalla teoria costruisce un orizzonte di senso attraverso un formato curatoriale che ha scelte stilistiche molto nette e visibili. Chi è abituato a lavorare all’estero in contesti istituzionali mira a un focus concettuale ben definito ed un numero di artisti ben calibrato con lo spazio. Chi è freelance e/o conosce l’arte fuori dall’Italia, sovraccarica le sale ma anche cerca di trovare stratagemmi spazio/temporali per scardinare la fissità del formato della mostra.

    C’è poi chi incredibilmente sembra ripercorrere scelte artistiche già classicamente percorse nella seconda metà del Novecento senza farsi una domanda ed infine chi ha riproposto un booth da fiera (anche piuttosto brutto), seppur nominalmente usando linguaggi non tradizionali.

    Certo è che guardare dieci mostre così compresse non sempre ci fa sentire come l’arte racconta il mondo, ma sicuramente ci dice come il sistema dell’arte si rigenera dentro sé stesso e mantiene il suo status di bolla autoreferenziale.

    E gli artisti in tutto ciò? All’interno di una scatola così compatta, i loro lavori emergono e sono recepiti probabilmente a discrezione dell’umore e delle attitudini culturali di chi attraversa la mostra. E questo vale sicuramente anche per me. Difficile trovare una narrazione univoca che ci suggerisca come guardano il mondo gli artisti delle ultime generazioni (e non, visto che in mostra troviamo anche Gianfranco Baruchello, classe 1924, ed Emilio Villa, classe 1914). Ma certamente emergono: la consapevolezza che ogni linguaggio è potenzialmente buono e la necessità di una relazione esplicita con il reale (non sempre epica, non sempre politica, spesso al contrario un po’ adolescenziale: ma perché poi dovrei pensare di avere davanti solo eroi laici ed engagé?).

    Ed è qui che forse il gioco si fa più complesso: se la relazione esplicita con il reale viene poi veicolata con scelte formali non codificate nel linguaggio dell’arte che si insegna nelle Accademie, perché alla fine artisti e curatori continuano a dialogare con il pubblico e con il mondo attraverso un interfaccia – lo spazio museale – che non è in grado di valorizzare linguaggi non accademici?

    La performance di Marinella Senatore che ripropone – all’interno della sezione De Rerum Rurale curata da Matteo Lucchetti – momenti di diverse esperienze della sua School of Narrative Dance, nel salone centrale del Palazzo delle Esposizioni, tra le colonne i capitelli ed il pubblico, sembra ahimè un saggio di fine anno e non l’esperienza vera, detonante e intensa che invece è nella vita reale, quando in 5 mesi l’artista prende una comunità, la rigira come un pedalino e la fa liberare attraverso l’uso del corpo, della voce, della creazione collettiva. La partecipazione funziona nella vita, non nel museo.

    E lo stesso si può dire del lavoro di Adelina Husnei-Bey White Paper: The Law, 2015, parte della stessa sezione curata da Lucchetti che per la tematica sulla quale ragiona è secondo me una delle più interessanti insieme a quelle dei curatori Simone Frangi e Luigi Fassi. White Paper è il risultato di un processo di ricerca svolto dall’artista durante una residenza in Olanda, durante la quale mette a punto, insieme a un gruppo di giuristi, migranti, occupanti, professori ed attivisti, una convenzione pubblica scritta sotto forma di legge che ragiona su una società equa, giusta ed accessibile. Ma ha senso mostrare in un museo, agli spettatori che passano, dei poster, con le correzioni autografe, contenenti il testo della legge?

    La forma di presentare gli audiovisivi è un’altra questione interessante. La necessità di relazionarsi con il reale porta spesso gli artisti a scegliere il linguaggio dell’audiovisivo come medium finale per la concretizzazione dell’idea in estetica. Pur non essendo film makers, in molti casi il video permette di condensare, in maniera anche non narrativa e lineare, le idee. Continua a meravigliarmi la scelta di installare dentro un black box, o peggio su un flat screen dentro il white cube, anche audiovisivi la cui estetica narrativa non preveda che lo spettatore si trovi immerso in uno spazio per qualche minuto per cogliere il senso dell’opera.

    Detto in poche parole: un documentario di 60 minuti lo guarderei più volentieri in una sala cinema con sedili comodi e sistema audio potente (parafrasando Lev Manovich che scrive sulla Documenta 11 del 2002 e critica, quattordici anni fa, gli stessi limiti dell’installazione del video negli spazi museali). Non in uno spazio di carton gesso con pochi sedili scomodi ed il suono che si confonde con l’ambiente (o interferisce con il suono di altre installazioni). Nel 2016 sembrerebbe una scelta non solo possibile, ma anche rispettosa del lavoro degli artisti.

    Eppure, solo Carlo Gabriele Triboli e Federico Lodoli nel loro Frammento 53 – all’interno della sezione Oresteade Italiana curata da Simone Frangi – decidono di sottrarsi agli speakers senza bassi ed alle panche senza schienale e di presentare il loro documentario nella sala cinema del Palazzo delle Esposizioni. Dove il flusso di suono ed immagini riesce ad immergere lo spettatore ed a darci l’idea del perché un lavoro sulla violenza e la sua insita relazione con la storia dell’umanità sia una ricerca perfettamente inquadrato nel concetto di Oresteade Italiana.

    I pochi esempi fin qui usati, e che citano comunque lavori che hanno secondo me un valore all’interno di questo vasto panorama, mi spingono a chiedermi quale sia lo spazio dell’Arte quando noi stessi chiediamo agli artisti di volare, misurarsi con il reale, immaginare forme sovversive di pensarlo o riproporlo, agire nella vita come sociologi, filosofi, storici, ricercatori, per poi dare forma seguendo vie immaginative, all’esperienza.

    Possibile che non si riesca ad essere poi coerenti e non si trovino delle soluzioni altrettanto visionarie nella maniera di condividere con il pubblico i processi di ricerca degli artisti? Abbiamo bisogno di insegnare anche agli addetti ai lavori ad essere visionari? O agli artisti radicali? O si tratta invece di una questione istituzionale, di impossibilità di misurarsi con questi moloch che emergono dai secoli passati e non sono sempre pronti ad accogliere modalità inaspettate di creare?

    Note