Al centro del dissenso: la Biennale 1977

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    Che strana ed affascinante parola, “dissenso”. Sempre usata, e abusata, sul filo del fraintendimento, della mistificazione, dell’opportunismo. Termine quanto mai attuale, in una stagione in cui prevale il “consenso” pregiudiziale e acritico. Il filosofo Byung Chul-Han aveva già sollevato, e da tempo, il problema. Ogni attrito tende a scomparire, resta la levigatezza: le dita scivolano morbide sullo schermo del cellulare, una suadente patina deve impregnare di sé ogni contatto umano, lo “status” è sempre positivo, sui social siamo tutti amici, il pollicione è sempre un “like”, tutto piace e diverte nella società performativa del benessere.

    Chi dissente è un seccatore, qualcuno che rallenta la corsa verso la felicità, un rompiscatole che sta lì a cavillare. La cosa buffa, per chi si occupa – come me – di teatro è che il “dissenso” è parola che risuona frequentemente anche in palcoscenico, che determina poetiche ed estetiche della scena: ma che gioca, spesso, in un curioso movimento a spirale, con i destinatari del dissenso stesso. Per dirla meglio: si parla tanto di dissentire in una platea di consenzienti. I dissenzienti sono d’accordo, tra gli applausi del pubblico.

    Il simbolo dell’edizione 1977: la stella spaccata

     

    Giustissima, allora, l’intuizione della Biennale di organizzare, in questa estate 2023, una sintetica ma efficacissima mostra sulla “Biennale del Dissenso culturale” del 1977. In realtà, la mostra allestita a Ca’ Giustinian è dedicata agli anni di presidenza di Carlo Ripa di Meana dell’ente lagunare: anni “d’oro” verrebbe da dire – dal 1974 al 77 appunto – che diedero nuova spinta alla Biennale, ancora in affanno dopo le proteste del 1968. Ma focalizzarsi sul festival del 1977 significa (ri)trovare una tensione mai del tutto sciolta. Erano, come è noto, anni davvero cupi: gli anni di piombo, periodo di lotte armate e follie omicide. Basta ripercorrere velocemente le cronache per vedere emergere, da quel passato non troppo lontano, nomi e situazioni che hanno gravemente segnato la storia recente italiana. La non-sfiducia di Andreotti e Berlinguer, con la sua idea di “austerità”; l’Occupazione della Sapienza e gli “indiani metropolitani”; il comizio di Luciano Lama e il primo scontro tra il PCI e il “Movimento”; la “sommossa” di Bologna e la dura reazione del governo, con la morte di Francesco Lorusso; e poi le uccisioni del poliziotto Settimio Passamonti a San Lorenzo e, neanche un mese dopo, della giovanissima Giorgiana Masi, uccisa con un colpo alla schiena a Trastevere durante una manifestazione. E gli omicidi delle BR, il sequestro di Pietro Costa, l’agguato a Indro Montanelli e Emilio Rossi, direttore del Tg1, sempre a firma BR; la storica presa di posizione di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir: «tutte le volte che la polizia di uno stato spara su un giovane militante, io sto dalla parte del giovane militante». Ma del 77 è anche la nascita di Radio Aut di Peppino Impastato, la tv a colori e infine il grande convegno di Bologna: il “convegno contro la repressione”, momento più alto, o forse canto del cigno finale, della stagione del Movimentismo.

    Un ritratto di Carlo Ripa di Meana

     

    Ma quel caldissimo 1977 si caratterizzava anche con lo scontro politico, nemmeno troppo celato, tra il consolidato PCI e un PSI che cominciava a sgomitare guidato da un giovanissimo Bettino Craxi: insomma, si disputava tra una posizione più filorussa “ortodossa”, e l’apertura contestataria socialista, che vedeva nel moloch moscovita una dittatura capace di schiantare ogni fermento creativo difforme alla linea di partito. Alla luce di oggi, è facile dire chi avesse ragione, ma all’epoca la questione fu davvero esplosiva.

    In quel clima, insomma, fare teatro, fare cultura non deve essere stato facile. Ad agosto del 77, a Massenzio, inizia quella incredibile esperienza che sarà l’Estate Romana di Renato Nicolini. Nella piccola Santarcangelo si celebra il teatro di strada. E intanto, a Venezia, era arrivato, appunto, il socialista Carlo Ripa di Meana, nominato (con il proprio voto!) nel marzo del 74, mettendo in scacco l’egemonia del PCI all’interno delle istituzioni culturali e rilanciando con grande militanza la manifestazione. Dapprima con un omaggio alla cultura cilena oppressa dalla dittatura (con uno storico concerto degli Inti Illimani); poi con un arioso affondo su un teatro (anche senza spettacolo) fatto di ricerca e di pratiche creative grazie alla direzione di Luca Ronconi (che portò in laguna Peter Brook, Grotowski, il Living, Eugenio Barba, e molti altri). E ancora con la vivacissima edizione 1976, anche questa ricca di ospiti di respiro internazionale.

    Da sinistra: Carlo Ripa di Meana con il direttore del Settore Arti visive Vittorio Gregotti, il direttore del Settore Teatro Luca Ronconi, e il direttore del Settore Cinema Giacomo Gambetti nel 1975

     

    Ma nel clima di subbuglio generale, l’edizione 1977 diventa paradigmatica. Il claim del festival è “Il dissenso culturale”, l’immagine è una stella rotta. E non tutti, ovviamente, sono d’accordo, anzi. Si creano molti scontenti: perché qui si trattava di dar voce a quanti (i dissidenti misconosciuti, gli artefici di quella che i regimi bollavano come “Arte degenerata”) lottavano contro lo strapotere di Brežnev, non solo in Unione Sovietica ma in tutti gli stati “satellite”.
    A Venezia sono esposti i documenti d’epoca. È oltremodo interessante vedere cosa scrivevano i quotidiani.

    Il giornale di partito, L’Unità, il 12 novembre 1977 attacca con un articolo di Gianfranco Berardi: «Un “pasticcio” per il dissenso», intervistando Adriano Serioni, membro del Cda della Biennale in quota PCI. Risponde lo stesso giorno L’Avanti, organo del PSI, con un articolo a firma Vittorio Giacci: «A pochi giorni dall’apertura della “Biennale del Dissenso”, le preoccupazioni e i problemi sorti fin dall’inizio sono ancora gli ostacoli e le interferenze che quotidianamente vengono frapposti per impedire lo svolgimento regolare della manifestazione. Se era immaginabile l’atteggiamento dell’Unione Sovietica, anche se non nei toni così violenti con cui si è espresso, è invece motivo di amara sorpresa scoprire che anche in Italia si sono verificati sbarramenti che vanno dall’argomento del “non intervento” ad una sorta di acquiescente osservanza della rigida posizione dell’URSS, da una serie di “ma”, “se”, di “distinguo” ad atti di palese e occulta ostilità».

    Susan Sontag

     

    Tra le tante prese di posizione anche quella di Alberto Ronchey sul Corriere della Sera del 15 novembre: «… per i dissidenti interni del mondo sovietico non c’è diritto al passaporto. Cinquanta inviti restano senza risposta, una lettera raccomandata per Sacharov è stata respinta perché “il destinatario è sconosciuto”. Ma questo era previsto. Nessuno supponeva che i governi dell’Est avrebbero favorito manifestazioni dedicate ai loro dissidenti, riconoscendoli come legittimi oppositori» (tornò indietro anche l’invito al regista Paradjanov, che era in carcere da 4 anni, perché “partito”, nda). Mentre Forattini firma la celebre vignetta con Brežnev dal corpo di Leone, Luca Ronconi dà le dimissioni, e con lui anche Vittorio Gregotti per le arti visive e il direttore della Mostra Giacomo Gambetti. Ma per la “Biennale del Dissenso culturale” arrivano a Venezia Jan Kott, Susan Sontag, Alberto Moravia, Dario Fo, Norberto Bobbio, Jean Daniel e, dicono le cronache del tempo anche «centinaia di studiosi, poeti, filosofi, pittori da ogni parte del mondo: Cecoslovacchi in esilio, russi, polacchi, ungheresi, bulgari: tutta gente che ha rischiato e scontato la galera per amore e gusto della libertà». Si rilancia, allora, quella parola “dissenso”, un invito a riflettere sulla posizione di chi si oppone, con coraggio e ostinazione, all’oscurantismo di ogni regime. Bisognerebbe vedere che fine hanno fatto quei dissidenti: di Sacharov lo sappiamo, di Paradjanov anche. Ma gli altri? Tutti gli altri e le altre? E oggi, qui, nell’Italia del 2023, cosa significa dissentire?

    Il 14 novembre 1977 la Biennale si inaugura comunque, con tre mostre, ma brilla il commento di un operaio di Marghera, intervistato da “Il Giorno”: «Speriamo che i russi non se arabia, perché queli, se i se inrabia, li xe cativi». Allora come oggi…

     

    Immagine di copertina: Gli Inti Illimani in concerto nel 1974

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