Un museo per cosa? Quali i confini?

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    Un senso di estraneità e di sospensione mi pervade spesso quando, animata da curiosità sincera, presenzio a conferenze dedicate ad arte, musei, o declinazioni di temi specifici in quest’ambito.

    Ho sentito precocemente come esercizi intriganti, gradevoli da ascoltare, ma del tutto sterili alcuni sforzi accademici. Per capirci: un ricercatore studia per anni la corrispondenza fra un artista e un gallerista straniero, con attenzione e passione, e rigore filologico. Credo che il frutto di quel lavoro dovrebbe in qualche modo essere accessibile e rilevante per tutti e non intendo alludere alla sua distribuzione, al linguaggio usato, a esecrabili tendenze elitarie…ma al suo senso, alla ricaduta.

    Insomma non dovremmo affatto assistere alla conclusione di un intervento con in mano solo un “e quindi?”.

    La medesima necessità di senso, guardando sopra, oltre, o di fianco – ecco non saprei – i grandi temi discussi con professionalità, passione, e anche tentativi di innovazione sento al cospetto dell’istituzione museo: l’allestimento, i paratesti, i palinsesti, la mediazione culturale.

    D’accordo: colleziona, conserva, ordina, compie ricerche, comunica, espone, in ogni complessa sfumatura che ogni interpretazione fattiva di queste parole ha, il Museo.  Ma…prima di questo? e i suoi confini?

    Intendiamo il museo come uno strumento per fare didattica in pillole sulla disciplina che quella specifica istituzione rappresenta o sull’esito dell’utilizzo di tale disciplina?

    O tramite l’esito di quella disciplina, e a prescindere dalla conoscenza di quella che è sempre e solo strumento, si punta oltre? Mi spiego meglio.

    Nella prima opzione il museo ha il senso di rendere nota, attraverso i pezzi che espone, la disciplina che rappresenta e la sua messa in esercizio. E’ così? Non è peregrina la domanda.

    Un museo che espone una collezione storico-artistica ci torna utile nell’argomentazione.

    Il passaggio di un visitatore in un museo storico-artistico lo renderà, via via, più edotto come in un percorso formativo diacronico e destrutturato come storico dell’arte? Saprà qualcosa di metodi attributivi, di linguaggi tecnici, di tecniche artistiche, di iconologia, di conferme documentali?

    Dovremmo essere in presenza di migliaia di esperti sull’Impressionismo, direi.

    E se invece passiamo ad un museo della scienza? il medesimo visitatore sarà più preparato sul tema? Pian piano diventerà un astrofisico, o, piuttosto…sarà avvicinato a temi legati allo sviluppo della scienza e della tecnologia, oggi condizionanti per l’etica dell’umano e dell’ambiente?

    Se invece pensiamo ad un museo archeologico, nella stragrande maggioranza dei casi questa intenzione, sulla quale stiamo facendo un percorso speculativo, è con grande evidenza disattesa: i musei che hanno collezioni di archeologia, classica in particolare per via della potenza della Grande Bellezza, ma non solo, non intendono evidentemente divulgare cosa significhi fare uno scavo stratigrafico, riassemblare sequenze a datare materiali, o restituire il peso che negli ultimi anni sulla disciplina hanno avuto la termoluminescenza, il C14 o l’anatomopatologia (e quale sia la ricaduta di tali operazioni) ma esporre bellezza o reperti che parlano unicamente a chi della disciplina sia già edotto (e proprio su quel periodo).

    È’ sufficiente verificare la domanda più frequente quando dici “sono archeologo” (è senza ombra di dubbio: “hai trovato “qualcosa”?”) per capire che rispetto alla concezione ottocentesca, nella divulgazione della disciplina, non si siano fatti propriamente passi da gigante.

    Nella seconda opzione invece il museo ha il mandato di far ragionare il visitatore su alcuni elementi (necessariamente in presenza fisica?), quelli in collezione, far comprendere quale racconto da quelli si possa produrre e comunicare, dalla loro stessa esistenza, dalla loro assenza, dalle loro fattezze, dal loro costituire un insieme o una serie o meno, per via della loro provenienza o permanenza.

    Il visitatore non dovrebbe forse uscire avendo imparato a guardare, a leggere, ad ascoltare, a costruire nessi di significato e, magari, a metterli legittimamente in discussione?

    Non dovrebbe ogni museo essere la testimonianza di una cultura materiale e intellettuale che, di per se stessa, è una lettura, una selezione, un’interpretazione, una speculazione, per quanto onesta?

    Il visitatore non dovrebbe, nutrito di questa esperienza, avere ragione della complessità del mondo, della vastità del sapere, della ricchezza delle sfaccettature delle espressioni (anche di chi colleziona, espone, ricerca) abbandonando come fondanti le categorie del bello (o peggio prezioso in termini di valore economico), giusto, prima e dopo, per acquisire quelle che fanno cercare perché, contaminazioni, riflessi, vuoti, aspirazioni, antagonismi, centri o presunti tali e periferie o presunte tali, relazioni di potere, modelli, innovazione, rotture?

    Quest’ultima variante, che professionalmente e umanamente apprezzo di più, rende ogni museo omologo nell’intento, pur dotato di mezzi diversi e fuochi diversi.

    La vita del cittadino ne uscirebbe cambiata, la lezione riguarderebbe la sua cittadinanza, il suo essere un individuo intellettualmente attrezzato, capace di produrre un pensiero critico e un’opinione, di scovare e interpretare punti di vista.

    Perché un museo parla dell’uomo, degli uomini e quindi di vita come un grande romanzo. L’azione inevitabilmente non neutra di un museo, che lo rende un’istituzione di peso civile e politico, è questa. Insomma vorrei che uscendo dal British Museum tutti pensassero (almeno): “Che ci fanno qui i marmi del Partenone?” .  Un Hitchens in regalo per ogni domanda che vi sovvenga.

    Note