Abitare la prossimità: la città dei 15 minuti non è la città dei borghi

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    Possiamo guardare a metropoli di molti milioni e vederle come un groviglio di nuove forme di comunità? Sì, possiamo. E i sindaci di alcune città, prime tra tutte Barcellona e Parigi, lo hanno fatto, proponendosi di trasformare questa visione in progetti concreti. Questa capacità di rompere gli schemi con cui di solito osservavamo una metropoli, non nasce dal nulla: ha la sua base in una ormai lunga storia di innovazioni sociali trasformative nella città che in mille modi, e trattando di diversi temi, hanno mostrato che nelle città, più che altrove, possono emergere nuove forme di comunità legate a cose da fare assieme e a luoghi in cui farle.

    Generando così una nuova idea di prossimità: una prossimità aperta e dinamica, in cui si genera una rete densa di legami locali, su cui si basa molto di ciò che rappresenta la quotidianità delle persone, e che è collegata alle reti lunghe, cittadine, regionali e globali che fanno di tutto questo una città. Quest’ultimo punto va sottolineato: la città dei 15 minuti non è la città dei borghi, come a volte si dice: è la città della prossimità e dell’intreccio virtuoso tra una densa maglia di reti corte locali, e di reti lunghe, cittadine e globali. Prima di procedere su quest’ultimo punto, che ci pare cruciale, è forse necessario ricapitolare brevemente cosa sia la città dei 15 minuti e perché, di questi tempi, se ne parli molto (in realtà, i minuti potrebbero anche essere meno, e forse sarebbe più corretto chiamarla la città della prossimità, ma qui anche noi usiamo quest’espressione, perché è diventata la più diffusa).

    “La ‘città dei 15 minuti’ è una città che si offre come una piattaforma in cui tutto ciò che serve e tutto ciò che si deve fare quotidianamente sta a pochi minuti a piedi da dove si abita. Essa diventa quindi, a tutti gli effetti, un territorio da abitare: un abitare che si estende dalla residenza al quartiere e alle diverse attività e servizi che in esso si possono trovare. E, per questo, propone una visione dell’abitare contemporaneo basato su una nuova idea di prossimità e dei valori che essa può portare con sé”. Questa definizione è anche quella da cui siamo partiti per organizzare “Abitare la prossimità”, un evento online che si terrà il prossimo 18 Novembre.

    L’idea, di per sé, non è nuova: il fatto di ripensare le città a partire dalla prossimità delle funzioni e degli incontri della vita quotidiana è in circolazione da tempo, motivata da ragioni ecologiche, sociali ed economiche. Ma, oggi, la catastrofe del Covid19, ne ha reso più evidente non solo l’importanza, ma anche la praticabilità. Ci ha mostrato infatti come, cambiando abitudini che sembravano immodificabili, molte persone abbiano ripreso a lavorare a casa o vicino a casa, a passeggiare e passare il tempo libero nel proprio quartiere, a frequentare i negozi di vicinato. Abbiano cioè messo in pratica, per come potevano, nuove idee di socialità e di prossimità, mostrando in concreto come la resilienza sociale e la rigenerazione urbana vadano costruite a partire da una nuova idea di socialità e di prossimità. Il che è proprio ciò che caratterizza la città dei 15 minuti.

    A noi pare che il valore di questa espressione sia prima di tutto quello di offrire una visione di città capace di comprendere e dare un orizzonte comune a migliaia di sperimentazioni che si sono fatte in questi anni. E, con questo, dare ad esse più forza e più possibilità di diffondersi. Non solo: se fatta propria con convinzione dalle amministrazioni pubbliche può anche dare loro un’inedita possibilità di coordinare a livello locale diversi settori d’intervento.

    Di tutto questo si discuterà nell’evento del 18 novembre, di cui si è detto. E lo si farà confrontando le esperienze di alcune città (Barcellona, Copenaghen, Parigi e Milano), con un fuoco speciale su come quest’idea possa in concreto essere messa in pratica.

    La città dei 15 minuti non è la città dei borghi, come a volte si dice: è la città della prossimità e dell’intreccio virtuoso tra una densa maglia di reti corte locali, e di reti lunghe, cittadine e globali.

    Qui però vorremmo sfruttare l’opportunità data da questo articolo per discutere un tema che sta a monte: che città immaginiamo quando pensiamo alla città dei 15 minuti? In questi mesi è infatti circolata un’idea che propone la città dai 15 minuti come la città dei borghi. Qui vorremmo dire perché, a nostro parere, questa facile connessione sia controproducente, sul piano pratico e sbagliata, su quello teorico.

    È controproducente per diverse ragioni. La prima e più ovvia è che ricopre la proposta di uno strato di polvere del passato. Un passato per cui qualcuno può forse avere nostalgia, ma che, per molti altri, è invece ripulsivo, in quanto fa pensare ad una città di luoghi ripiegati su sé stessi, chiusi agli altri e al mondo. Luoghi in cui potrebbero diffondersi idee e pratiche comunitarie regressive (il che, per altro, è proprio quello che sta avvenendo – ma su questo torneremo poi).

    Questa associazione dell’idea di prossimità con quella dei borghi è anche inconsistente: i borghi del passato erano il frutto di un complesso di fattori che erano allora operanti e, in quella forma, non rinasceranno mai (non solo in città ma anche nelle aree interne in cui ancora se ne trovano i resti). Nasceranno invece, ed in effetti sono già nate, delle inedite forme sociali, basate su nuove pratiche e, per quello che qui ci interessa discutere, su nuove idee di prossimità. Una prossimità che emerge costruendosi su ciò che oggi, nel bene e nel male, è diventato possibile. Cioè su iper-luoghi e su comunità ibride (qui ne parleremo per la città, ma siamo convinti che lo stesso possa essere detto per le aree non urbane).

    Le comunità ibride sono forme sociali contemporanee, costruite intorno a progetti, la cui esistenza è largamente dipendente dagli strumenti digitali di cui dispongono e che ne supportano le capacità e possibilità organizzative (in effetti, dopo 15 anni di lavoro sul design per l’innovazione sociale possiamo dire che oggi ogni esperienza innovativa, per esistere, utilizza qualche strumento digitale, da un semplice gruppo di WhatsApp, a sofisticate piattaforme dedicate). Ne deriva che le nuove comunità sono tutte ibride perché tutte vivono in un ambiente ibrido, materiale e digitale.

    A sua volta, questo ambiente digitale è fatto di iper-luoghi. Cioè luoghi amplificati dalle tecnologie che vi si impiegano. Luoghi i cui confini operativi non sono quelli della prossimità fisica, ma sono luoghi a geometria variabile, i cui bordi dipendono da dove le tecnologie di cui si dispone permettono di arrivare.

    Certamente, però, queste inedite condizioni possono produrre dei mostri. E questo, purtroppo è ciò che sta succedendo (persone che vivono nelle loro bolle comunicative, perdendo di vista la realtà delle cose, nonché quelli che, in tutta evidenza, dovrebbero essere i loro concreti interessi – vedi i milioni di poveri che hanno votato per il miliardario Trump). Al tempo stesso, abbiamo visto che, in questi stessi ambienti ibridi sono emerse le innovazioni sociali trasformative di cui si diceva e che, in concreto, ci hanno mostrato la possibilità di nuove comunità, di nuovi luoghi e di nuove idee di prossimità.

    In questo quadro, ci sembra che proporre il tema della città dei 15 minuti (o della prossimità, diremmo noi), abbia molto senso. E questo non solo per le fondamentali ragioni ambientali (di cui qui non abbiamo parlato), ma anche perché esso propone una visione di città (e di società) in cui il bisogno di socialità e di identità si possa esprimere in modo aperto e progressivo (invece di essere canalizzato in visoni regressive, chiuse e identitarie, come sta succedendo).

    Ma affinché sia davvero così occorre discutere anche di come la città dei 15 minuti non sia solo il luogo delle reti brevi della vita quotidiana, ma sia anche, e fiorisca, come una città. Cioè come il luogo in cui le reti brevi delle piccole distanze a piedi si connettano con quelle lunghe, lavorative, culturali o di studio che siano.

    È possibile farlo? Come fare in modo che la visione della città della prossimità non escluda la ricchezza, la vivacità e la libertà della dimensione urbana? Si può forse ricordare che Wharol e gran parte degli artisti newyorkesi del suo tempo stavano in un posto che si chiamava Greenwich Village (e che per molti versi era davvero una sorta di villaggio, anche se stava nel centro di Manhattan). Beninteso, con queste domande ultime non stiamo dicendo che esempio del passato come questo possono essere riproposti.

    Stiamo solo contestando l’idea che una quotidianità di brevi distanze e frequentazioni comunitarie di vicinato debba essere un luogo chiuso e grigio. In effetti, forse la domanda più giusta dovrebbe essere questa: ha più possibilità di essere vivace e dinamica una città di individui soli e in competizione o una fatta di comunità aperte e collaborative che abitano gli iper-luoghi della contemporaneità? Da parte nostra siamo convinti che la città dei 15 minuti, la città della prossimità, possa essere l’espressione contemporanea di un localismo cosmopolita, di cui per molti anni abbiamo parlato e che ora forse potremmo cominciare a realizzare.

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