Dolomiti Contemporanee individua, misura e seleziona una serie di spazi inutilizzati (siti industriali, fabbriche abbandonate, complessi d’archeologia industriale dismessi) ai piedi delle Dolomiti o piantati tra le loro pareti e li riattiva attraverso processi incentrati su arte e cultura.
Gianluca d’Incà Levis risponde alle 15 domande di cheFare per la rubrica I nuovi modi di fare cultura.
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Perché Dolomiti Contemporanee si chiama così?
Le Dolomiti sono un fossile, un’estenuata congerie di luoghi comuni? Il Contemporaneo è una tignosa pratica aploide o partenogenesi? Abbiamo immaginato (dunque realizzato) un meccanismo che si provasse a sovrapporre questi due Spazi (del Senso?), a confutare le due evidenze, nell’Idea e nell’Azione.
Quando è nata?
Nel 2011
Dove?
Nelle Dolomiti bellunesi.
Perché?
Nel 2009 le Dolomiti diventano Unesco. Timore e tremore. Opportunità o smottamento? Abbiamo avviato un test. Sa l’uomo costruire i propri Paesaggi, o li contempla? Può qualcosa, in tutto ciò, il Contemporaneo? O decora le Gallerie, mentre fuori imperversa la marmotta?
Che fate?
Riattiviamo siti cimiterizzati. Ex fabbriche, villaggi, territori (come il cratere del Vajont). Andiamo a vivere in questi feretri o cenotafi (ex Villaggio Eni di Borca), ci piantiamo una Residenza e li trasformiamo in centri sperimentali di produzione, artistica e culturale. Li reinneschiamo. Primo sito riattivato, l’ex polo chimico Montedison di Sass Muss (Sospirolo), morto da trent’anni. Dal 2012 anche nelle Dolomiti friulane.
La cosa più importante che avete fatto
Abbiamo studiato i classici della letteratura e della scienza universale. Non abbiamo studiato le tecniche della rigenerazione, né gli slang delle industrie creative. Abbiamo affrontato il Patrimonio (perduto) secondo modalità alpinistiche. DC è un progetto di arrampicata culturale.
Perché è la più importante?
Perché grazie a una corretta formazione del pensiero abbiamo potuto agire bene, evitando di avvicinarci ai i siti in modo schematico e uni-verso, secondo le teorie o prassi cosiddette, che funzionano poco o nulla, o funzionano a budget (noi no). Se pensi che la cultura sia azione proiettiva, la cosa più importante è riuscire in una pratica senza perpetrare o definire un modello. Niente precalcolo d’analisi. Direi piuttosto metabolizzare i classici: la concretezza della letteratura. Fare non è promulgare. Liberare una via non è ripeterla. E, per altra metafora, nel metodo, disarcionare è di certo più utile che cavalcare (vedi poi la nostra definizione di Cultura).
Qual è l’elemento più innovativo del vostro studiare i classici?
Se studi bene le cose buone, e capisci quel che studi, e sei motivato, poi opererai bene. La formazione è il vero piccone. Metabolizzare i classici, ecco come. Costruisciti una coscienza culturale, potrai (forse) poi agire il Mondo.
Cosa c’entra la cultura con Dolomiti Contemporanee?
Diciamo che, nel caso nostro, ‘cultura’ non è, ad esempio, organizzazione o gestione di una risorsa. E’, al limite, la sua trasvalutazione. I siti di cui ci occupiamo sono morti. Noi invece li scotiamo e li diamo per vivi. Una pratica temporanea, trasformativa. Per far ciò, dobbiamo abbattere moltissimi pregiudizi e ostacoli. Quindi, per noi, la cultura è un’opzione rivoluzionaria, che taglia alcune regole e teste. Secondo la maggior parte delle regole e apparati e leggi convenzionali, rigenerare questi siti defunti è impossibile, anche tecnicamente. Dobbiamo dunque derogare all’ottusità della regola, per riuscirci. La cultura è muovere lo spazio, non gestire patrimonio. E nemmeno fare le mostre dentro a una scatola.
DC è un vettore/processo culturale che riprocessa risorse, paesaggi. La visione è trasformativa, la principale tecnica, il contemporaneo.
Quali sono le sue ricadute sociali?
Se i siti rivivono, il territorio riguadagna centri attivi in vece di sepolture premature. Lavoro, sviluppo, identità, cultura.
Con Dolomiti Contemporanee si mangia?
Premessa:
Non c’è nulla da mangiare, c’è da aver fame. Se sei sazio, è finita, anzi, non è nemmeno iniziata. Detto questo: No (per la premessa) Sì (per la longevità e il metodo della pratica).
Come fate a stare in piedi?
Abbiamo una rete di oltre 500 partner. Alcuni (pochi, pubblici) ci danno contributi economici. Tutti gli altri, che sono il territorio, erogano per noi servizi. Così risparmiamo centinaia di migliaia di euro all’anno, e siamo il territorio (l’abbiamo convinto).
Qual è l’ostacolo più grande che volete superare?
La cecità dell’uomo, gli assetti contemplativi e gestionali che mortificano la vita sulla terra (e il patrimonio), il deficit di concretezza letteraria, la forza di gravità.
Fate parte di un network più grande di voi?
No, sì.
Il network DC l’abbiamo messo su noi, quindi prima non c’era. E però i partner già stavano al mondo. Si può dire che la rete esisteva in latenza. Bastava risvegliare in loro un’istanza di condivisione della risorsa: ora loro ne co-progettano responsabilmente, insieme a noi (che siamo la trazione), la rivalutazione, culturale e funzionale.
I partner non sono altro che il territorio e il territorio non è introverso: noi attiviamo stazioni produttive che ospitano il resto del mondo.
Cosa avete intenzione di fare per creare un futuro migliore?
Leggere, fare, scrivere. In realtà, si tratta sempre e solo di scrivere. DC è un editore, dello Spazio in generale, più che della Montagna. Agiamo la realtà. Scriviamo con la pratica.
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Nell’immagine di copertina Gianluca d’Incà Levis in una fotografia di Elisa Bertaglia