Se la rigenerazione urbana è un processo sociale

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    Il termine rigenerazione è oggi utilizzato per identificare processi urbani molto diversi tra loro: progettualità dal basso e che agiscono in uno spazio innesto molto specifico, grandi progetti urbani fortemente top-down, interventi di semplice arredo urbano o processi di riappropriazione di spazi pubblici e attivazione sociale.

    Un’ambiguità che da un lato favorisce la definizione di un lessico sulla rigenerazione che parte da pratiche e sperimentazioni locali; dall’altro però porta diverse esperienze ad utilizzare in maniera solamente strategica una etichetta mainstream, capace di attirare attenzione mediatica, risorse economiche e umane.

    Una serie di approfondimenti in collaborazione con la seconda edizione del Master URISE di Iuav Venezia

    In quest’ultimo anno ho avuto l’opportunità di “praticare” e analizzare diversi casi di rigenerazione urbana: alcuni più da vicino, come LAB+ uno dei progetti vincitori dell’ultimo bando Culturabilty “Rigenerare spazi da condividere” di cui sono project manager; altri invece sono stati analizzati nel corso della prima edizione del Master URISE dell’Università Iuav di Venezia.

    Queste esperienze non hanno fatto che rafforzare la convinzione che con il termine rigenerazione urbana si debba intendere un complesso processo sociale capace di produrre effetti socio-spaziali contestuali e duraturi nel tempo: viene prodotta rigenerazione urbana dove sono moltiplicati i diritti di uso di uno spazio per pubblici differenti, potenziandone le accessibilità per diversi pubblici; si produce rigenerazione urbana se lo spazio (pubblico e non) diventa risorsa disponibile, capace di ancorare processi di empowerment e attivazione sociale; perché si possa parlare di rigenerazione urbana è necessario che di produca apprendimento sia nelle istituzioni sia nei molteplici attori sociali che vi hanno preso parte, a garanzia di sostenibilità e durabilità.

    Come si modificano quindi le competenze e professionalità necessarie per attivare e gestire processi complessi di rigenerazione urbana? Come si modifica, di conseguenza, il progetto per la rigenerazione urbana? Quali gli impatti di questi interventi in contesti marginali?

    Nei casi analizzati, sempre più spesso pratiche professionali non ancora codificate e forme di rivendicazione sociale entrano in sinergia, nella maggior parte delle occasioni partire da una conoscenza diretta del luogo e mettendo al centro una dimensione operativa, più che analitica, dell’agire professionale. L’attivazione sociale come il coinvolgimento attivo dei pubblici sono di fatto prerequisiti per l’avvio di un processo di rigenerazione urbana. Mentre si agisce, l’analisi territoriale è indispensabile per comprendere le risorse di un territorio e dei suoi abitanti e, più importante, le loro aspirazioni e potenzialità.

    Nella maggior parte dei casi analizzati, spazi innesto molto diversi tra loro (case di quartiere, spazi di coworking, spazi culturali e molti altri) diventano in maniera inaspettata al centro di un processo di sviluppo di comunità, basato su un processo di co-creazione che può coinvolge attori diversi lungo l’intero processo decisionale e redistribuisce il valore prodotto su più livelli (quartiere, città, territorio). Spazi che in una recente pubblicazione sono stati definiti community hub.

    In un’epoca in cui le forme di investimento pubblico diminuiscono costantemente, chi attiva processi di rigenerazione urbana si trova sempre più a connettere mondi molto distanti che si trovano a negoziare forme e obiettivi degli interventi. Nuove forme di rapporto pubblico-privato vengono a costituirsi de facto, e saper “progettare in ambienti complessi” significa gestire relazioni, poter reperire fonti di finanziamento e saper come valutare e comunicare l’impatto dei propri interventi.

    È a partire da questi ragionamenti che con innovazione sociale si identifica un metodo per poter mettere in atto processi complessi con l’esito di produrre un cambiamento nel tessuto sociale e urbano di una città. Innovazione sociale non è quindi una “bacchetta magica” che si introduce indipendentemente dal contesto, ma un cambiamento sociale e organizzativo capace di produrre effetti nell’agire sia delle istituzioni sia dei cittadini e degli altri attori sociali. Innovazione sociale è di conseguenza uno strumento di rigenerazione urbana che, perché efficace, deve poter essere prodotta a partire dalle risorse che in quei luoghi esistono.

    In questo contesto, il rapporto di mutuo apprendimento tra “basso” e “alto” può da un lato riconoscere l’emergere di nuovi arrangiamenti istituzionali, formali e informali, dall’altro generare processi di upscaling per ampliare progressivamente in senso universalista le richieste e gli impatti socio-spaziali ed economici (Questi ragionamenti saranno approfonditi in una pubblicazione edita da Fondazione Feltrinelli esito della discussione prodotta dal Laboratorio Metropolitano per la conoscenza pubblica su innovazione e inclusione).

    Ci sono momenti in cui le istituzioni possono riposizionarsi come garanti di inclusività, trasparenza e accompagnamento alla sostenibilità (perché non si tratta solo di sostenibilità economica, ma anche appunto di policy) di iniziative di rigenerazione che sarebbero potute al contrario rimanere “singolari”, a beneficio di pochi o sarebbero potute terminare con l’esaurimento della sola iniziativa privata. Questi ragionamenti appaiono ancora più importanti se pensiamo a questi interventi in periferia.

    Pensiamo a come l’immigrazione continua a definire forme specifiche di inserimento interstiziale in contesti sociali in cui disoccupazione, austerità e povertà rendono le società locali spazi sempre più contesi. In alcuni quartieri la specializzazione etnica si sovrappone a fenomeni di esclusione e deprivazione, rafforzando ulteriormente la polarizzazione dello spazio urbano.
    Soprattutto in questi quartieri la prossimità non è sinonimo di riconoscimento e spesso gli abitanti storici considerano la diversità come qualcosa che disturba quello che è familiare, mette in crisi le regole di convivenza spesso date per scontate, distrugge un passato rappresentato come “paradiso perduto” e rafforza un senso di insicurezza. Tra le conseguenze, l’abbandono di spazi abitativi, l’erosione del ruolo degli spazi pubblici, il rafforzamento della conflittualità sociale.

    È in particolare in questi contesti che rigenerare un territorio significa attivare un complesso processo sociale, attento al coinvolgimento delle popolazioni più ai margini e dove gli effetti diventano risorsa da redistribuire più che diritti acquisiti per pochi.
    In questi contesti possono essere sperimentate pratiche capaci di generare diversi “spazi di welfare” e inedite alleanze in grado di rispondere alla richiesta di inclusione sociale. Se questo non viene fatto, si rischia di delegare al privato la risoluzione di problemi sociali complessi e che necessitano di una presa in carico da parte delle istituzioni anche in un’epoca di erosione della spesa pubblica.


    Questo contributo apre una serie di approfondimenti  sul complesso rapporto tra rigenerazione urbana e innovazione sociale. Vuole discuterne gli impatti socio-spaziali. Vuole raccontare pratiche virtuose e allo stesso tempo imparare da ciò che non ha funzionato.  I docenti del Master URISE (Adriano Cancellieri, sociologo urbano, Paolo Venturi e Francesca Battistoni, economista e imprentrice sociale, Laura Colini, architetto e planner e Claudio Calvaresi, innovatore urbano e sociale) ci accompagneranno in queste settimane con le loro analisi e riflessioni. Buona lettura.

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