Parole per farci luogo

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    Ai limiti dell’agorà di Atene, nel momento della sua configurazione nel V sec.a.C., furono posti dei cippi con un’iscrizione: Oros eimi tes agoras, ‘Io sono il cippo dell’Agorà’. Una pietra parlante – o meglio una parola diventata pietra – a delimitare lo spazio pubblico, la vera grande invenzione della cultura occidentale, separandolo da quello privato. Parole che, fisicamente, delimitavano il luogo della comunità tutta, entro cui ci si celebrava come cittadini, non come individui separati.

    Così come nella tradizione latina, i luoghi pubblici divenivano tali, come dice Festo, non semplicemente attraverso operazioni di delimitazione strutturale, ma solo nel momento in cui erano certis verbis definita, sanzionati da parola certe.

    La parola era spazio fisico che garantiva il luogo di tutti. La parola come codice del noi che si staccava della dimensione privata per entrare in quella pubblica.

    Queste che seguono sono alcune riflessioni in attesa della due giorni di Parole(o)stili (17/18 febbraio) a Trieste. Un momento a cui prenderò parte con piacere insieme a molte/i, per interrogarci sull’uso sempre più privatistico della parola rispetto alla dimensione pubblica, con una cultura comune sempre più arretrata, con agorai che perdono le parole che le definiscono.

    Parole(o)stili nasce dall’esigenza di confrontarsi sul percorso intrapreso dal nostro vocabolario sotto la pressione dell’internet, dei social, per reagire alla veemenza, alla mala educazione, alle mille ferite che la parola genera quando usata fuori da spazi condivisi, scagliata oltre i recinti che ognuno ormai si crea privatamente, anche negli angusti spazi dei post.

    (una breve nota: l’invito è nato da dialoghi e da presenze costruite anche e soprattutto attraverso i social. Con alcune delle persone – fra organizzazione e sostenitori – Rosy Russo, Gianluigi Riva, Sergio Cagol, Marianna Marcucci, Astrid D’Eredità, Antonia Falcone, Fabio Viola, ci accomunano condivisioni di parole, scritte appunto via etere, oltre a brevissimi incontri occasionali che abbiamo avuto. Il riconoscimento dello spazio comune è nato là, sui social, dove io mi sono ritrovato nelle loro parole, negli spazi che andavamo a definire. Si può quindi partire anche dai social per ricreare lo spazio comune).

    La parola ostile, che segna l’evento, è termine particolare: filologi si sono confrontati spesso sul termine originale, perché, nel linguaggio arcaico latino, hostis sembrava in origine semplicemente identificare un concetto di alterità. Solo successivamente, con lo sviluppo della lingua, pare che si fosse prodotta una gemmazione dallo stessa radice, hospes/ospite, a specificare, nella regola di ingaggio, l’atteggiamento dell’altro. Come se si ci fosse stata una soglia (anche qui, curiosamente, la parola latina per soglia suona simile, osteum, anche se linguisticamente pare non ci sia una correlazione), una linea fisica sulla quale si misurava la natura del dentro e/o fuori.

    La parola che diventa spazio di confronto, la parola come codice primo della vera ‘comunicazione’, ovvero del ‘mettere in comune’.

    Il tema proprio della lingua/comunicazione, è tornato alla ribalta recentemente con il nuovo film ‘Arrival’, quando, difronte agli strani cerchi disegnati da questi poliponi extraterresti, l’umanità non capisce, è disorientata, non trova un terreno comune.
    Le prime parole mormorate dalla protagonista, ‘esperta linguista’, quando si trova dinnanzi a loro sono: ‘We are humans’.

    Definiamoci, prima, come collettività. Solo dopo, polipone bello, ti dico il mio nome. E il film poi continua, con un paziente e lento assommarsi di segni grafici, le nostre parole scritte versus i loro disegni: gesti, fisici, che poi si riveleranno la chiave per una seppur minima reciproca comprensione.

    Torniamo ai social: li accusiamo di essere portatori del male, e allo stesso tempo li elogiamo come vero strumento della libertà di espressione, dimenticando però che le parole sono cippi, sono soglie, sono ambiti, case, luoghi. Non possiamo rimanere imbrigliati in una continua disputa (in particolare generazionale, come la ultima sui parrucconi,) sulle colpe e responsabilità, se, ancor prima delle correttezze grammaticali e degli strumenti da utilizzare, non prendiamo atto che il primo luogo è quello dato dalla declinazione del noi nell’individuazione degli spazi entro cui muoversi, giovani o non giovani.

    In questo di grande ispirazione sono le belle pagine di Marco Martinelli, Farsi luogo, libro che nasce dall’esperienza, insieme alla compagna di vita Ermanna Montanari, del Teatro delle Albe, fra eresia (come scelta) e ortodossia (‘errare’ alla ricerca della retta via).

    Che questo avvenga attraverso il teatro, luogo fondamentale già dall’antica Grecia per interrogarsi sulla vita, dovrebbe essere ovvio: tutti, come individui, dovremmo usare quella palestra come esercizio di parola e riconnessione fisica con la realtà. Ma il ‘farsi luogo’ di Martinelli va oltre, nella sua non-scuola, nelle reinvenzione del coro: “il teatro come antro della polis, nella polis: il luogo, e la comunità, e il coro, noi ce li dobbiamo letteralmente inventare, come gli antichi greci: è un’opera alchemica, una scommessa che dura una vita, una creazione immane, una impresa di tutti. Nell’epoca dei grandi media virtuali immateriali, il teatro è il luogo della materia sacra. Di quella povera carne di cui sopra. Di quella mancanza.”.

    Ecco, è questa alchimia che dobbiamo ritrovare, il coro, il senso di movimento al plurale entro uno spazio dato. Sentirci carne, individuare il campo, ritrovare gli spazi (non necessariamente confini, ma intrecci/neuroni dialoganti); andare oltre la pervadente parola ‘identità’, calata su di noi negli anni ’70 – curioso, no? con Ilda Curti, mentre stiamo sviluppando un dialogo proprio intorno a parole, ci siamo accorti che il termine ‘identità’ è di recente assunzione nel nostro vocabolario (negli ultimi 40 anni), apparso ironicamente per decretare l’inizio della grande crisi del pensiero occidentale, quasi a stringere il campo del nostro essere, invece che aprirlo.

    Capendo fra l’altro, nel caso fosse vero come molti neurologi affermano, se questo nuovo modo di ragionare via internet stia anche fisiologicamente cambiando i processi neuronali del nostro cervello, e quindi le nostre forme del ragionare e mappare: e se così fosse, reagire andando a riammettere codici e parole secondo nuovi formati.

    Io non temo la parolaccia o l’offesa, mentre rifiuto la parola che deliberatamente va oltre lo spazio comune dandolo ormai per dissuefatto. E questo, oltre agli urlatori dei social, vale anche e soprattutto per i media, la cui responsabilità nel settare i vocabolari è enorme: bisogna dire basta alle parole scagliate solo per scioccare, senza che ci si prenda cura delle terre comuni.

    Urlare per rompere, non per costruire: la parola forte, quella della libera espressione, a volte può essere anche serenamente conflittuale (per abbattere e allargare barriere), mentre oggigiorno è solo elemento di disorientamento, senza offrire punti di riferimento. Anche quando volutamente va a pescare nelle parole delle madri e dei padri del passato, decontestualizzandole.

    Allora diamo addosso all’immigrante, alle donne, ai gay, e a tutte quelle figure che temiamo perché di per sé sono invece i punti di partenza necessari per riconfigurarci come società, per andare avanti. Per uscire dai poveri machismi del passato, riconoscerci nella bellezza di essere meticci, e sviluppare ‘grammatiche’ dinamiche rispetto alla complessità di questo mondo: accettando la sfida, senza rifugiarsi in Brexit, trumpismi, salvinismi, (queste sì parole povere, segni di linguaggi primordiali e impoveriti).

    Per essere ‘hostis’ nella semplice accettazione dell’alterità,

    Dobbiamo individuare il campo: questo sarà il mio contributo a Trieste, nella costruzione di un manifesto che ‘manifesti’ parole come mattoni, cippi, senza costringerci ad inseguire troll per andarli a stanare, ma individuando invece in positivo i nuovi termini di riferimento.

    Ripartendo dalle scuole, luogo vero della costruzione e diffusione dei vocabolari, sollecitandoci, anche nella nostra capacità di essere giovani e/o comunque comunità, all’uso del noi, per generare voci libere che sappiano essere allo stesso tempo eretiche ed ortodosse. Altrimenti, come neopoliponi rimbecilliti (vedi, la mala parola può servire), ci guarderemo l’un l’altra sempre più inebetiti.

    Ridando voce ad uno stato e ad una politica sempre più in crisi, afoni, incapaci di rigenerare parole, che balbettano quelle vecchie, non più portatrici dinamiche di nuove grammatiche culturali, come strumenti di rivoluzione sociale ed economica.

    Per poter dire: noi siamo agorà, certis verbis definita. Ripartiamo insieme da qui.

    Note