Industria 4.0. A cosa serve un makerspace a Taranto?

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    Con l’università di Bari ho avviato una ricerca su Taranto, che si può sintetizzare come segue: mappare creatività, cultura e innovazione locali per immaginare percorsi di sviluppo locale alternativi alla manifattura pesante e proporre misure di accompagnamento e sostegno di queste pratiche.

    cheFare ospita una specie di diario di ricerca che vuole essere tante cose insieme: anzitutto si tratta di una restituzione quasi immediata della mia ricerca sul campo, ma anche un confronto con tutte le persone che incontrerò nel corso dell’esplorazione della città.

    Questo diario rappresenta anche una prima ed embrionale sistematizzazione dei risultati, ma anche un deposito delle impressioni a caldo sulla città. L’obbiettivo è infine quello di avviare un dialogo aperto e corale su Taranto e sulle pratiche locali di innovazione culturale.

    makerspace industria 4.0

    ph. Stephanie Pruitt

    È di qualche settimana fa la notizia che Bari ospiterà un Hub europeo per l’industria 4.0 finalizzato ad accompagnare le imprese (locali e non) verso la trasformazione digitale. Questa notizia mi ha fatto riflettere sulle opportunità che si aprono grazie alla digitalizzazione dell’industria in contesti caratterizzati da manifatture obsolete.

    Un makerspace a Taranto? Lavoro, trasformazione culturale e innovazione al tempo dell’industria 4.0

    In particolare mi vorrei concentrare sugli effetti che l’introduzione della manifattura digitale può avere sul contesto, non tanto sull’organizzazione industriale. Ovvio che il mio pensiero vada al contesto tarantino, ma non dentro l’Ilva. Piuttosto fuori dall’Ilva, nel tessuto produttivo (e professionale) fatto di piccole e piccolissime attività manifatturiere, non solo dell’indotto dell’acciaieria.

    A cosa serve investire sulla fabbricazione digitale nel contesto tarantino ad esempio? Avrebbe senso dotare il territorio di makerspace?

    A partire dall’apertura dei primi makerspace, si è cominciato a interrogarsi sull’impatto della fabbricazione digitale sulla società, analizzandone il ruolo in contesti a economia post-fordista molto matura come, ad esempio, Berlino e Singapore, o, in Italia, Milano o il Piemonte.

    Ad esempio, un recente studio di due sociologi italiani, Cecilia Manzo e Francesco Ramella, dell’università di Firenze, mostra che, in Italia, i makerspace, oltre a essere attivi nei maggiori centri urbani, presentano una forte relazione spaziale con i distretti industriali, essendo molto legati alla piccola produzione manifatturiera.

    La ricerca infatti riporta che, in contesti ad economia post-fordista matura, i makerspace trovano un terreno fertile sia per la possibilità di sperimentare nuovi tipi di collaborazione volte all’innovazione di processo e di prodotto, sia per la disponibilità di manodopera molto specializzata con risorse da investire (tempo, capitale sociale, capitale umano che con la crisi sono più disponibili a causa del rallentamento delle attività economiche tradizionali).

    Tuttavia, resta ancora poco esplorato il caso della penetrazione della manifattura digitale in aree a economia tradizionale e poco avanzate, dove la specializzazione in settori basati su manifattura obsoleta rende difficile il loro adattamento alle nuove condizioni economiche strutturali.

    Nonostante la mancanza di contributi specifici (sia di natura empirica che di natura teorica) che affrontano il tema della diffusione del digitale proprio in contesti caratterizzati da economia obsoleta, è possibile avanzare alcune ipotesi che andranno poi testate attraverso ricerche sul campo: in primo luogo possiamo osservare la fabbricazione digitale come un potente strumento di coesione sociale che consentirebbe l’espansione delle reti locali di relazione sociale.

    In secondo luogo, possiamo chiederci se, e fino a che punto, la fabbricazione digitale può avere un ruolo nella valorizzazione e aggiornamento della cultura manifatturiera, dei saperi artigianali e delle competenze locali anche in questi contesti.

    Legami forti e corti, legami deboli e lunghi

    La fabbricazione digitale potrebbe rappresentare uno strumento importante per la coesione sociale, grazie alla creazione di ambienti condivisi e inclusivi che consentono lo sviluppo di reti di relazione basati su legami lunghi. Infatti, la dinamica relazionale tra locale e globale, e che caratterizza le reti dei makers, costituisce una risorsa particolarmente cruciale per il contesto locale.

    Gli studi pioneristici di Mark Granovetter, che ha analizzato le interazioni e il capitale sociale all’interno della sfera economica, sono fondamentali per capire il tipo e la forza dei legami sociali all’interno dell’economia, soprattutto. Nello specifico sono due i concetti che dobbiamo menzionare.

    Anzitutto, l’idea di local bridging cioè quei legami deboli che consentono la connessione tra due comunità separate (spazialmente o socialmente).

    Il “ponte” allarga l’orizzonte di tutta la comunità e rappresenta una risorsa molto ricca, in termini di informazioni, conoscenza, stimoli e così via.

    Il secondo concetto è quello di embeddedness, cioè il grado di radicamento degli attori nel contesto sociale, economico e istituzionale locale, che, ad esempio nel caso della Silicon Valley, consente un’alta mobilità e flessibilità dei professionisti che è alla base del successo dell’area.

    I contesti più tradizionali sono caratterizzati dalla presenza di legami molto forti, ma spesso molto “corti”, che rendono le reti troppo chiuse e inadatte a sviluppare imprenditorialità e progetti professionali.

    Il rischio di avere delle reti basate esclusivamente su legami locali è quello di chiudersi sulla comunità, perdere informazioni e stimoli esterni e non riuscire a trovare un mercato adatto.

    Al contrario i maker tendono ad essere inseriti in reti molto lunghe, che, al contrario di quelle locali, spesso sono caratterizzate da legami deboli, ma in grado di rappresentare uno strumento utile per lo scambio di informazioni e conoscenza, l’innovazione e l’apertura su mercati estesi.

    L’innesto della fabbricazione digitale, organizzata in makerspace, in un contesto di manifattura tradizionale, caratterizzato prevalentemente da legami corti, ha potenzialmente l’effetto di trasformare la configurazione delle reti, inserendo legami molto lunghi, attraverso i makers, che fungono da nodi essenziali nella rete.

    Se la necessità di costruire legami lunghi da parte di soggetti inseriti principalmente in reti costruite su legami corti può rappresentare un ostacolo al successo del makerspace stesso, è possibile che, una volta superata la difficoltà iniziale, le reti che ne derivano rappresenterebbero una risorsa estremamente importante per tutta la comunità locale.

    Il makerspace può essere il catalizzatore che innesta reti locali su flussi globali e, attraverso pratiche che coinvolgono attori diversi su scale diverse, distribuisce gli effetti positivi soprattutto a livello locale (sia dal punto di vista economico, ma anche di coesione sociale).

    Risulta quindi interessante interrogarsi circa gli elementi che rendono la città forte nel locale, ma connessa globalmente. Una volta innestato il makerspace in flussi globali abilitanti, la potenza dei legami forti locali sarà un fattore di competitività e i legami globali che si creeranno potranno rappresentare dei “ponti” non solo per i maker ma anche, e soprattutto, per tutto il tessuto sociale locale.

    Il lavoro come competenza

    Il secondo ambito che voglio mettere a fuoco è il potenziale della fabbricazione digitale nella valorizzazione del know-how locale in termini di manodopera, competenze e abilità manuali locali; saperi che rischiano di scomparire nelle regioni a economia avanzata e che invece potrebbero rivestire una rinnovata importanza nell’ambito della manifattura digitale.

    Da un lato, le competenze manuali e artigianali sono messe in crisi con l’avvento della robotizzazione nelle grandi manifatture; dall’altro, l’economia post-fordista, basata principalmente sull’immateriale sembra minacciare il manuale, soprattutto quello a basso valore aggiunto; le regioni a economia meno avanzata sono ancora fortemente legate alle competenze manuali specializzate o semi-specializzate.

    Con l’avvento della fabbricazione digitale invece il confine tra produzione digitale e manuale sembra sfumato, tanto che è stato coniato il termine “artigiani digitali” per sottolineare la doppia appartenenza dei maker a due mondi che fino a qualche anno fa erano estremamente lontani.

    Il discorso sulle competenze nel lavoro si inserisce in un amplissimo dibattito che fin dalle sue origini riflette sulla relazione tra il lavoro dell’uomo e quello della macchina. Il dibattito è estremamente articolato, e trova le origini fin nella filosofia antica; nella sua declinazione moderna attinge al pensiero di Andrè Gorz e di Harry Braverman: a partire dagli anni ’60 si è a lungo (e con intensità alterne) dibattuto se le macchine possano essere in grado di svolgere qualsiasi lavoro, e se questo porti l’umanità verso uno scenario da fine del lavoro (che, a seconda del punto di vista, rappresenterebbe un sogno o un incubo).

    Non è questa la sede appropriata per rendere conto del dibattito nella sua interezza, ma ne riprendo alcuni spunti collegandolo all’emergere della fabbricazione digitale che ne estremizza i toni, ipotizzando l’evenienza che la macchina sostituisca anche il lavoro dell’artigiano. In questa sede mi limito a osservare il dibattito intorno al tema delle competenze e delle abilità manuali e mi soffermo su due questioni principali.

    La prima è quella della effettiva necessità di competenze artigianali nella fabbricazione digitale e la seconda, strettamente legata alla prima, riguarda il grado di competenza. Ci si chiede cioè non solo se ci sia bisogno di competenze artigianali, ma se la fabbricazione digitale renda superflue molte competenze (perché è la macchina che “sa” fare tutto); al contrario, si potrebbe affermare che la stessa fabbricazione digitale renda necessario un apprendimento e quindi un aumento delle competenze, sia perché è necessario far funzionare le macchine, sia per progettare il prodotto, sia, infine, per organizzare la produzione.

    Nel dibattito alcuni sostengono che il lavoro manuale sia a rischio di estinzione, in quanto sostituibile da molte tecnologie nel prossimo futuro: ad esempio i ricercatori dell’università di Oxford, Carl B. Frey e Michael A. Osborne, stimano una riduzione di quasi la metà dei posti di lavoro negli Stati Uniti dovuta all’automazione della produzione.

    All’estremo opposto del dibattito Richard Sennett, ne L’uomo artigiano sostiene l’importanza cruciale del “lavoro artigiano” nell’economia post-fordista (sebbene non entri nel cuore della fabbricazione digitale). Più nel dettaglio della manifattura digitale, Stefano Micelli sostiene che il saper fare che ha da sempre caratterizzato la manifattura italiana, rappresenta una delle più importanti risorse dell’economia italiana e che costituisce un elemento fondamentale per la ripresa della crisi, anche e soprattutto, nei contesti più innovativi.

    I lavori di Ratto e Ree, dell’Università di Toronto e del Sheridan College (Canada) rispettivamente, attraverso analisi empiriche, provano a testare la necessità (o, al contrario, la ridondanza) delle competenze artigiane e manuali nei makerspace.

    I ricercatori osservano a lungo una serie di workshop, laboratori e percorsi formativi all’interno di fab-lab e makerspace e notano che durante i momenti formativi c’è una fortissima attenzione all’apprendimento e insegnamento di competenze manuali/artigiane oltre a quelle digitali.

    La conclusione a cui giungono i ricercatori canadesi è che la competenza manuale rimane un fattore cruciale, anche nel processo di fabbricazione digitale. Questo dipende in larga misura dalla persistenza di momenti di improvvisazione e sperimentazione (tipici del lavoro artigiano manuale) sia in fase di progettazione dell’oggetto, sia, soprattutto, in fase post-produzione, quando l’oggetto è stato stampato.

    Ad esempio, con la stampante 3d, il lavoro di modifica e di raffinatura può anche rappresentare la fase più importante in termini di tempo, di risorse, e di utilizzo di competenza. Dagli studi di Ratto e Ree emerge anche che i partecipanti ai laboratori utilizzano molte risorse personali nella progettazione del prodotto, prima o dopo il disegno con un software (materiale, colore, dimensioni, assemblaggio… sono tutti elementi che devono essere progettati e che richiedono una certa dose di competenza).

    La conclusione a cui giungono i due ricercatori è che, anche per stampare un oggetto con una stampante 3d, è richiesta una dose significativa di “skillful human autorship”, dal momento che “le stampanti 3d non fanno cose; le persone fanno cose”. Susan Luckman è una ricercatrice australiana che ha raccolto, nel suo libro Craft and the creative economy, storie ed esperienze di artigiani che utilizzano le nuove tecnologie per la fabbricazione digitale in tutta l’Australia, giungendo alle stesse conclusioni: le competenze manuali (delle mani) degli artigiani risultano essenziali per la creazione dell’oggetto in ogni fase, dalla progettazione alla scelta del materiale, dal taglio laser (o dalla stampa 3d) alla rifinitura.

    Seguendo l’impostazione di Sennett possiamo aggiungere che, oltre alle competenze tecniche e manuali, anche tutta una serie di altri saperi locali (la creatività, la sensibilità, la visione del mondo) rivestono un’importanza cruciale in tutti i settori creativi e anche nella manifattura digitale.

    Il secondo crinale su cui si muove il dibattito, che è strettamente correlato a quanto detto in precedenza, si snoda su due posizioni contrapposte. La prima di chi sostiene che la manifattura digitale incoraggi il consumatore (passivo) a mettersi in gioco in un processo produttivo e, di conseguenza, ad apprendere nuove competenze.

    Questa posizione tende a esaltare la manifattura digitale asserendo, per utilizzare la terminologia anglosassone, un reskilling del maker, che prima era solo un consumatore passivo. In questo solco, Gauntlett, ne La società dei makers, celebra la pratica del “creare cose” poichè è la pratica stessa che consente di imparare a farle.

    La seconda posizione è invece sostenuta da chi vede nel diffondersi della fabbricazione digitale un impoverimento delle competenze artigiane che, sebbene ancora necessarie, si riducono, e, soprattutto, si de-specializzano. E questo proprio perché ogni consumatore diventa anche produttore. Le tecniche e i metodi per creare tendono a divenire sempre più semplici e facili, così che chiunque, senza nessuna competenza specifica, sia in grado di produrre.

    Nicola Wood è una designer che si occupa di alta formazione e, insieme ad alcuni colleghi dell’Università di Sheffield Hallam, ha studiato i metodi per l’apprendimento e l’insegnamento a designer delle tecniche manuali di lavorazione. Dopo aver partecipato (sia attivamente che passivamente) a numerosi corsi, workshop e laboratori in cui ai designer si insegna l’uso delle macchine per la fabbricazione digitale, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che nella fabbricazione digitale non solo sono richieste molte abilità manuali di cui spesso i designer sono carenti.

    La ricerca ha chiarito una volta di più che le competenze artigiane non sono “in via di estinzione”. Inoltre, è stato osservato che, proprio grazie alla fabbricazione digitale, designer e individui senza una formazione artigiana possono, se sono motivati, apprendere quelle competenze e mantenere in vita abilità e saperi (“saper fare”) che altrimenti rischierebbero di perdersi.

    Abbiamo visto che, per lo meno in linea teorica, l’inserimento della fabbricazione digitale in contesti tradizionali ha un potenziale molto importante per lo sviluppo locale: creerebbe coesione sociale, allungherebbe i legami e produrrebbe connessioni tra comunità anche molto distanti tra di loro, inoltre avrebbe anche la capacità di mantenere vivi i saperi locali tradizionali ed è anche in grado di attualizzarli e ricreare competenze.

    Se queste sono linee teoriche di un dibattito, è ora necessario che la ricerca empirica si muova sul terreno delle pratiche, per analizzare meccanismi e processi che rendono possibile il verificarsi di queste ipotesi di lavoro. Di casi ce ne sono ancora pochi, ma forse quelli che esistono (ad esempio La scuola Open Source a Bari, o l’urban fablab a Napoli) possono rappresentare dei laboratori da esplorare nel dettaglio evidenziandone anche gli aspetti critici.

    Infine, sarebbe anche auspicabile che la politica si muovesse nella direzione che queste ipotesi tracciano, con azioni sperimentali e anche coraggiose, soprattutto dando fiducia alle esperienze pioneristiche di questo tipo, senza per questo limitarsi a celebrare alcune pratiche. Il sostegno ai fablab non dovrebbe riguardare solo i contesti a economia avanzata, ma anche, e soprattutto, dovrebbe servire a creare reti, valorizzare risorse e stimolare lo sviluppo locale in tutti i contesti.


    Immagine di copertina di Pete Wright

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