I paesaggi sono fatti culturali

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    Ogni paesaggio suscita due tipi di memorie: una memoria collettiva inserita in uno spazio di natura o nell’ambito di persistenze monumentali; il medesimo spazio contiene e accoglie però anche un insieme infinito di singole immagini e di ricordi individuali.

    Per i viventi queste memorie rappresentano i riflessi della presenza o del passaggio di ciascuno di coloro che avessero avuto l’opportunità di contemplare e di partecipare per qualche tempo alla vita di quel luogo.

    Questi impegneranno la loro attenzione a scoprire o a ritrovare i segni di quanto vi è accaduto e vi si è insediato, abituati come sono a decifrare e interpretare le minime variazioni o l’aspetto significativo dei luoghi dai suoi simboli, dai dettagli più sottili.

    Ciò che vi è accaduto quando essi vi hanno lavorato e agito, o se in quei luoghi hanno compiuto un apprendistato che li ha condotti a forgiare un’esperienza di vita fondamentale, mettiamo, come montanari, agricoltori o cacciatori-raccoglitori.

    paesaggi, Marc Augé, Nuovi Argomenti

    Estratto da Nuovi Argomenti, Lezioni di vero

    Per questo tipo di abitanti è stato possibile muoversi all’interno del medesimo luogo con la facilità di un’abitudine, dato che lì hanno vissuto tutta la loro vita; così che questa condizione di familiarità permette loro di soffermarsi a guardare quel paesaggio come quando si sfoglia un album di ricordi.

    I paesaggi sono fatti culturali, poiché sempre abitati, percepiti e trasformati dall’azione e dalla presenza umana, e dunque doppiamente diversi e significativi in funzione della loro situazione geografica e delle società umane che li hanno plasmati.

    Essi sono perciò frutto di attività e prodotti di invenzione – repliche, alla stregua di opere d’arte, poiché dipendono dallo sguardo che si attarda su di esse o che le sorvola. Come le opere d’arte o come gli stessi individui umani, verso i quali ognuno di noi può provare attrazione, repulsione o indifferenza.

    L’etnologo, da questo punto di vista, fa spesso un’esperienza particolare e quasi contraddittoria: quella del luogo e di ciò che vi eccede e lo oltrepassa; attratto da ciò che ispira o trasgredisce il suo ordine apparente.

    Il luogo è idealmente uno spazio sul quale è relativamente facile leggere la struttura sociale; in numerosi gruppi umani esistono delle regole di residenza che attribuiscono a ciascun individuo una collocazione nello spazio della società in funzione dell’età, del sesso, del suo statuto matrimoniale, dei figli.

    La residenza inserisce l’individuo nello spazio pubblico e nella dimensione storica della filiazione e dell’alleanza, imponendo allo stesso, molto letteralmente, uno spazio e un «punto di vista». Ma queste iscrizioni rigorose, qualunque sia l’ordine schematico che le impone disegnando un paesaggio sociale preciso, suppongono sempre un’altra dimensione (un rovescio, un doppione o un altrove) che ha per scopo di prolungare lo spazio fisico della natura e dei corpi per spiegare e controllare gli incidenti del tempo.

    Questo prolungamento può esso stesso sposare e condividere le linee e i limiti del paesaggio: immaginiamo uno sciamano di un gruppo d’indiani delle pianure che disegna con un ampio gesto l’orizzonte al di là del quale situa i paesi delle divinità, degli avi e dei morti. È verso questo orizzonte che viaggia in sogno, da questo orizzonte vengono le divinità quando hanno voglia di fare visita agli uomini.

    Negli ambiti coperti da foreste questo stesso orizzonte può risultare più vicino e più intimo, come se la vegetazione impedisse all’immaginazione di vagare nello spazio e rendesse più vicina, ossia più interiore, la presenza delle potenze del male e della morte che attorniano gli esseri viventi.

    Nell’Africa dell’ovest, si sente dire a volte che il villaggio degli stregoni bellicosi sia un «doppione» del villaggio geograficamente situato; è come il rivestimento interno in seta di una giacca o di un cappotto.

    Allo stesso modo la società costituita da questi stregoni è concepita come il doppione o la copia della società regolata, considerato che ogni stirpe comporta per esempio, in teoria, almeno uno stregone.

    Questa prossimità è più di una prossimità: si capisce solo nella prospettiva non dualista per la quale il sonno e la veglia, il mentale e il fisico, il visibile e l’invisibile si confondono – essendo il «lungimirante» precisamente colui che ha la capacità di «vedere il doppio» e di sfuggire alla miopia di coloro che ricorrono a lui per vedere e capire.

    Ma anche il più miope tra i nativi, nel sud della Costa d’Avorio, sa per esempio, che il grande Eriodendro che si staglia al centro del villaggio è l’albero intorno al quale durante la notte si riunisce «in doppiezza» la società degli stregoni.

    La notte è temibile perché è come il doppione del giorno, così come il sogno è il doppione della veglia. Nella concezione locale è la notte la metafora del doppione del sogno piuttosto che l’inverso.

    L’ordine simbolico qui è molto visibile; si applica simultaneamente al paesaggio, alla sua fauna e alla sua vegetazione, agli esseri che ne fanno parte e ai tempi delle nascite e delle morti, in una visione immanente e circolare del mondo, dove la vita rinvia alla morte come lo stesso all’altro o l’esterno all’interno, e inversamente.

    L’immanenza segna anche il rapporto tra gli uomini e Dio, le divinità, poiché questi ultimi alla fin fine sono tutti antenati sacri, uomini antichi, avi spesso preoccupati di riappropriarsi, per esempio, del possesso di un corpo vivente.

    L’arte in questa prospettiva – ciò che gli Occidentali chiamano l’arte – qui è un costrutto eminentemente funzionale; non rappresenta, incarna. Le divinità-oggetto che sorvegliano il paesaggio nelle regioni del golfo del Benin, nell’Africa dell’ovest, alla porta delle case, sulla piazza del villaggio, all’incrocio delle strade, sono entità che non devono essere dimenticate, ma nutrite e abbeverate rispettando i loro gusti e i loro divieti.

    Ma questo stretto legame tra paesaggio, società e cultura non è monopolio esclusivo delle visioni etnografiche, immanentistiche e pagane. Nella visione cristiana dei villaggi europei più tradizionali, il campanile della chiesa domina le case dei viventi e la dimora dei morti radunati nel cimitero che circonda la chiesa: è l’immagine di una comunità indifferenziata come il gregge intorno al pastore.

    Questa proiezione di un ordine che presiede e organizza il senso dello spazio, che traduce anche la necessaria relazione di senso tra gli uomini e i luoghi, e poi tra il singolo e la comunità dei viventi, trascende le differenze tra le culture, o piuttosto esprime le persistenze arcaiche presenti in ognuna di esse.

    Non è difficile stilare una tabella delle tipologie di paesaggio che sui diversi continenti esprimono al contempo un substrato fisico vincolante, degli adattamenti tecnici e sociali e una organizzazione simbolica che permetta di pensare alle relazioni tra questi elementi.

    I paesaggi non sono mai puramente naturali e la loro stessa diversità è un fatto di cultura.

    Sono vissuti come tali, e non bisogna stupirsi né del traumatismo causato nel corso del periodo coloniale dagli sconvolgimenti prodotti sulla fisionomia dello spazio (per esempio il raggruppamento dei villaggi e la crescita dei nuovi centri abitati lungo gli assi stradali), né dalle resistenze di alcuni, in Europa, specie oggi, all’idea di vedere stagliarsi un minareto accanto al campanile della chiesa che non frequentano più. Il paesaggio è anche un persistente ricordo d’infanzia.

    Esiste dunque una doppia diversità di paesaggi, che si proietta nello spazio e nel tempo. Una diversità geografica e climatica evidente per tutti e, al di là di questa, una diversità fatta di sguardi particolari, esperienze e storie individuali.

    I cinque sensi dell’essere umano contribuiscono a questa doppia diversità, e l’amplificano. I suoni, gli odori, i sapori, la fisiologia dei vegetali, la struttura delle rocce, i colori della terra e del cielo distinguono radicalmente un paesaggio da un altro e ne fanno un centro d’irradiazione delle sensazioni e delle emozioni.

    In senso inverso, la musica o una semplice canzone, sono in grado di evocare un paesaggio o di rievocare «visioni» nascoste nel più profondo di noi stessi. La geografia, il clima, il tempo che passa e l’esperienza di ognuno moltiplicano così all’infinito il tesoro dei paesaggi possibili. Queste corrispondenze hanno fornito alla letteratura una delle materie più suggestive, ma qualsiasi mortale può provarle e testimoniarle a modo proprio.

    Ecco perché esiste una dimensione psicologica, intellettuale e, oserei dire, paesaggistica anche per ciò che noi chiamiamo, oggi, la crisi. Quest’ultima è in effetti legata a un cambiamento di scala di cui constatiamo gli effetti senza riuscire a controllarne le cause.

    L’accelerazione dei trasporti, la circolazione quasi istantanea delle immagini e dei messaggi, ci fanno percepire ogni giorno di più la dimensione ristretta del pianeta. Le foto e le riprese dai satelliti di osservazione orbitale ci rivelano un nuovo paesaggio: quello della terra vista da lontano – come la scopriranno presto dei turisti abbastanza agiati da offrirsi una breve escursione a un centinaio di chilometri dal pianeta, in assenza di gravità.

    Possiamo immaginarci così di sbarcare sulla terra come Colombo approdò sulle rive del Nuovo Mondo. Assistiamo perciò al prelievo simbolico dell’intero pianeta come paesaggio.

    Questa messa a fuoco a distanza si opera anche, in modo meno spettacolare, in qualsiasi viaggio aereo; le corsie stradali veloci e le strade ferrate percorse dai treni a grande velocità cambiano anche la nostra percezione del mondo e creano la visione di altri paesaggi: le linee sopraelevate delle grandi reti, non attraversano più gli agglomerati umani e si liberano in corsa degli ostacoli che impediscono ordinariamente di portare la vista lontano, cancellando muri, alberi, scarpate; in questo senso, disfano la magia domestica che limitava l’esperienza dei paesaggi dell’infanzia.

    Nei nostri ricordi più antichi, il mondo era due volte più grande; coloro che ci circondavano anche, e il potere di evocazione del cinema in sala dipende forse in parte dal fatto che ci restituisce ancora una parte di questa sproporzione, una parte delle corrispondenze spaziali dell’infanzia.

    Al contrario, i nuovi mezzi di trasporto, e più ancora i nostri primi passi fuori dall’attrazione gravitazionale terrestre, ci allontanano per sempre non solamente dai paesaggi perduti dei primi ricordi, ma anche da quelli di cui l’umanità in transizione risente ancora il fascino e la pregnanza: tutti i paesaggi in cui la sistemazione della natura, il paziente lavoro dell’uomo, l’architettura, i monumenti, formavano gli elementi portanti di una cultura.

    Oggi si viene a creare una frattura fragrante tra il paesaggio che è già planetario e la società che non lo è ancora; le culture, combattute tra dimensioni diverse o contraddittorie, e l’arte che non sa più ciò di cui rendere conto poiché è, in un certo senso, superata in velocità dallo spazio. È come se noi avessimo perduto, tutti insieme, una seconda infanzia e dovessimo affrontare, umanità divenuta infine adulta, la nostra improvvisa solitudine.

    La moltiplicazione dei non-luoghi (cioè degli spazi intorno ai quali non è decifrabile immediatamente alcuna relazione sociale) crea tuttavia paradossalmente delle nuove familiarità eterologhe. Ci si sente meno perduti, all’altro capo del mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i commerci di lusso, le marche controllano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come gli aeroporti.

    Anche le scritte o gli annunci in inglese contribuiscono ovunque all’uniformazione simbolica del pianeta, così come i mausolei dell’architettura dell’international style che si stagliano nelle grandi metropoli, sembrano or- mai farsi l’eco da un continente all’altro.

    I paesaggi prevalenti del mondo attuale, del mondo segnato dall’accelerazione del tempo, con il crescente restringimento del pianeta e l’individualizzazione delle esperienze e dei percorsi, sono essenzialmente dei paesaggi urbani o in via di urbanizzazione.

    Parallelamente la città cambia fisionomia, salta al di sopra delle vecchie mura e si espande ben al di là del suo cuore storico, allunga i suoi tentacoli lungo i fiumi, le coste e le vie di comunicazione per legarsi ogni giorno più strettamente alle altre realtà urbane vicine.

    Percepiamo ogni giorno i segni di un cambiamento di scala estremamente rapido, al quale ci abituano le immagini della televisione e dei computer, della pubblicità, dei nuovi media.

    Queste ultime impregneranno ancora di più l’infanzia delle generazioni a venire. E così i ricordi delle nostre infanzie rischianodi perdersi del tutto nella prospettiva del non-storico.

    La tecnologia ha anticipato le società e la politica, e sembra già affermare la nostra nuova identità di terrestri. Un’intuizione dello stesso ordine ci spinge ad accelerare le procedure e i dispositivi intellettuali ed estetici da applicare all’intero pianeta.

    Iscriviamo al patrimonio dell’umanità i monumenti più indispensabili, incorniciamo i paesaggi più degni di nota, trasformiamo intere regioni non ancora compromesse in parchi naturali.

    È un po’ come se preparassimo la prossima visita per dei turisti extraterrestri che, troppo frettolosi per soffermarsi su minuzie e particolari faticosi, preferirebbero fare un tour rapido e generale del pianeta, allo stesso modo di certi turisti americani o cinesi che assolvono oggi frettolosamente ai viaggi organizzati attraverso le principali capitali d’Europa.

    Il decentramento delle funzioni delle città, le cui forze vitali si spostano sempre più massicciamente «extra muros», lontano dalle abitazioni, dove il cuore dell’intimità umana è ormai allacciato all’esterno dalla televisione e da internet, fino alla vita stessa dell’individuo, sempre più incessantemente deportato al di fuori dalle sue protesi elettroniche, sono condizioni che contribuiscono potentemente a questa nuova dimensione della conquista dello spazio, che tuttavia, paradossalmente, sembra piuttosto uno spodestamento, una perdita del luogo, una forma globale di spaesamento.

    Poiché la cultura umana, ben oltre l’avvento di questo nuovo paesaggio planetario, è ancora determinata dalla stretta intimità tra una società, le sue opere e il suo paesaggio.

    Nell’incertezza di questo cammino, individui e gruppi umani hanno difficoltà a comprendere e immaginare, considerato che la loro vita è ogni giorno più difficile e precaria, dove sarà il loro posto nel mondo planetario post-culturale che sorge così prepotentemente davanti a loro.

    Se i paesaggi contemporanei hanno bisogno di cure ecologiche, è certamente anche per salvare il senso della relazione sociale nel suo luogo. La pesante vernice globale non deve coprire e annientare la delicata tinta locale, con il rischio di cancellare per sempre la coerenza dell’individuo sensibile e la struttura del sociale. Oggi siamo appena all’inizio di una nuova era della storia umana, la cui posta in gioco può sembrarci, al contempo, mai stata così vicina o così spaventosamente lontana: fare della terra un solo luogo comune e dell’insieme dei terrestri finalmente una società umana.


    Traduzione dal francese di Enrica Costantino. A cura di Mauro Francesco Minervino

     

    Immagine di copertina: ph. Gauravdeep Singh Bansal da Unsplash

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