Il giornalismo non è più nel business dei mass-media. Internet non ha ucciso la carta, la radio o un altro medium: “quello che ha ucciso”, scrive Jarvis, “è l’idea di massa”
Una notizia rassicurante per chi è interessato al futuro del giornalismo: ci sono molti futuri possibili. È il presupposto da cui muove l’ultimo libro dell’esperto di media statunitense Jeff Jarvis, dal titolo Geeks Bearing Gifts: Imagining New Futures for News, pubblicato da poco negli Stati Uniti per la CUNY University Press.
Un primo merito del volume di Jarvis, professore associato e direttore del Tow-Knight Center for Entrepreneurial Journalism alla City University di New York (CUNY), è di non avventurarsi in previsioni sempre meno attendibili su, ad esempio, quando finirà la carta o sulle meravigliose sorti e progressive dell’ultima app che salverà il giornalismo. Il suo è invece un forte invito alla sperimentazione e all’innovazione. Il futuro delle notizie, scrive l’analista dei media tra le voci più stimate del panorama americano, va costruito insieme ai diversi protagonisti dell’attuale ecosistema mediale, abilitati dall’universo digitale a segnare in modo sempre più significativo, come nel caso di Google e Facebook, la ristrutturazione del sistema dell’informazione.
Il campo giornalistico in cui i professionisti dell’informazione dovranno provare a ridefinire il loro ruolo e le loro pratiche è ormai popolato dai “regali tecnologici dei geek”. Sono doni che non si possono rifiutare e che permettono nuove relazioni, nuove forme e nuovi modelli di business per le notizie.
Jarvis si muove su questi tre assi, che corrispondono alle parti in cui è suddiviso il volume, per presentare la sua visione dei futuri possibili per l’informazione. La sua prospettiva si coglie pienamente a partire dall’ampia definizione che dà del giornalismo, presentato come un’attività finalizzata in primo luogo ad “aiutare una comunità a organizzare meglio la propria conoscenza in modo tale che possa organizzare meglio se stessa”. Nascosti dietro questo punto di vista ci sono i riferimenti teorici su cui si basa la posizione di Jarvis. In alcuni casi si tratta di visioni dirompenti rispetto al passato.
Il richiamo alla comunità sottolinea ad esempio il fatto che il giornalismo non è più nel business dei mass-media. Internet non ha ucciso la carta, la radio o un altro medium: “quello che ha ucciso”, scrive Jarvis, “è l’idea di massa”, una visione su cui le imprese giornalistiche hanno costruito un sistema monopolistico di produzione, distribuzione e consumo delle notizie.
Al posto di masse indifferenziate, la rete ha fatto emergere cittadini e comunità che vanno servite dai giornalisti. Ma soddisfare i bisogni specifici delle persone significa che le competenze maggiori bisogna averle nel campo delle relazioni, più che nella produzione di testi.
Altro peccato mortale: se il giornalismo deve rispondere alle esigenze delle comunità non solo rinuncia a dettare l’agenda, ma il suo business principale non è più quello dei contenuti. O meglio, i contenuti sono solo una delle possibilità di portare valore aggiunto al flusso continuo di informazioni dell’ecosistema. Il ruolo sociale del giornalista può però essere molto più variegato: può operare ad esempio come fornitore di servizi, organizzatore di eventi, educatore, incubatore di iniziative. Tutte funzioni che evidentemente incidono sulle nuove forme possibili per le notizie.
Al posto dell’articolo, unità atomica della pratica giornalistica, la notizia può prendere le sembianze di dati, di servizi per connettere le persone, di piattaforme per favorire la condivisione, la conversazione, la selezione, la cura e la qualità dell’informazione. Un’esplosione di possibilità che intacca un altro totem della tradizione: la convinzione che la principale funzione giornalistica sia quella di raccontare storie.
Se si è disposti ad abbandonare questi presupposti, molto radicati, allora secondo Jarvis si aprono scenari inediti, anche per la sostenibilità economica del giornalismo. Nell’ultima parte del libro lo studioso americano offre numerosi esempi in questo senso derivanti soprattutto dalla sua esperienza di ideatore e direttore, alla CUNY, del primo programma al mondo di giornalismo imprenditoriale. In questo contesto gli studenti si confrontano con problemi di natura imprenditoriale e sperimentano progetti concreti.
Le proposte di Jarvis a prima vista sembrano dirigersi decisamente nella direzione di una discontinuità radicale con il passato. In parte è così, anche se a uno sguardo più attento, il volume dell’analista americano si può leggere come un appello al recupero delle funzioni sociali profonde dell’informazione professionale. La sua definizione di giornalismo come principio organizzatore delle comunità risuona infatti efficacemente con quella di alcuni tra gli studiosi più profondi del sistema dell’informazione che, ancora prima di Internet, sottolineavano come il compito principale della funzione giornalistica fosse quello di “attribuire un senso, una direzione, un percorso all’esigenza di condivisione degli individui, al loro bisogno di entrare in relazione, di costruire appartenenze” (si veda C. Sorrentino, E. Bianda, Studiare giornalismo, Carocci, 2013, p. 26).
Se quindi è vero che gli operatori dell’informazione hanno davanti a sé diversi futuri possibili, è anche vero che questi andranno costruiti sui fondamentali del giornalismo, preservando i tratti identitari profondi della professione. Da questo punto di vista il libro di Jarvis è un ottimo esempio di come raggiungere nuovi equilibri e sperimentare innovazioni per recuperare, selezionare e valorizzare il meglio del giornalismo, liberandosi allo stesso tempo delle scorie su cui ancora troppo tempo si spende quando si discute del suo futuro.