Ogni settimana in collaborazione con la casa editrice nottetempo, cheFare pubblica una serie di interventi di filosofi, antropologi sul mondo naturale. Dopo mesi di reclusione forse è il caso di provare a capire che mondo abitiamo e soprattutto imparare a conoscerlo meglio. Pubblichiamo oggi un estratto dal saggio Sulla pista animale di Baptiste Morizot.
“Dove andiamo domani?” “Andiamo nella natura”. Per il nostro gruppo di amici, la risposta è stata a lungo ovvia, assodata e senza complicazioni, mai messa in discussione. Poi è arrivato l’antropologo Philippe Descola che, con il suo Oltre natura e cultura, ci ha insegnato come l’idea di natura fosse una strana credenza degli occidentali, un feticcio di questa civiltà che ha, per l’appunto, un rapporto problematico, conflittuale e distruttivo con il mondo vivente che chiama “natura”. […]
Con Descola, ci rendiamo conto che parlare di “natura”, utilizzare questa parola, attivare il feticcio, è già stranamente una forma di violenza nei confronti di quei territori viventi su cui si fonda la nostra sussistenza, di quelle migliaia di forme di vita che abitano la Terra con noi, e a cui vorremmo dare un ruolo diverso da quello di risorse, di esseri nocivi, o indifferenti, o di graziosi esemplari da osservare con il binocolo.
Non è banale che Descola definisca il naturalismo come la cosmologia “meno gradevole”. Sia per un individuo che per una civiltà, è quantomeno logorante, a lungo termine, vivere nella cosmologia meno gradevole. […]
Successivamente, la formula che si è imposta nel nostro gruppo di amici, dovuta alla stravaganza delle nostre pratiche, è stata: “nel bush” . Domani, andiamo nel bush. Là dove, per l’appunto, non ci sono sentieri segnati. Là dove, quando ce ne sono, non determinano i nostri spostamenti. Perché noi andiamo a seguire le tracce (siamo tracciatori della domenica).[…]
La terza formula per escogitare un’alternativa a “nella natura” mi è apparsa una mattina leggendo una poesia. È poco utilizzata, nonostante il potente fascino che racchiude. “All’aria aperta”. […]
Essere “all’aria aperta” significa anche essere sulla terra, ritornata terrena, o terrestre come dice Bruno Latour. […]
Tuttavia, essere all’aria aperta richiede un certo impegno: la vita esclusivamente urbana, disconnessa dai circuiti che convogliano la biomassa verso di noi, di- sconnessa dagli elementi e dalle altre forme di vita, rende decisamente difficile l’accesso all’aria aperta […]
L’ultima parola, in cui ci siamo imbattuti per caso, ha finito per riassumere tutto questo. È una parola del francese antico che proviene dai coureurs des bois del Québec. È quello che dicevano quando ripartivano per andare all’aria aperta, dopo ogni ritorno in città per portare avanti i loro affari: “Domani riparto, vado a inforestarmi”.
Inforestarsi è una doppia cattura restituita dal pronominale: andiamo nella foresta tanto quanto essa si trasferisce in noi. […] È il tracciamento in un senso filosoficamente arricchito che ci ha messo sulla strada del progetto di “inforestarsi”, che ci ha mutato lo sguardo e la vita.
Il tracciamento associato ad altre pratiche, come la raccolta spontanea, esige una sensibilità sottile alle relazioni ecologiche che ci intrecciano insieme nei territori viventi. Questo tracciamento “ecosensibile” inaugura un altro rapporto con il mondo vivente, che diventa allo stesso tempo più avventuroso e più accogliente: avventuroso perché accadono tantissime cose, tutto è in rapporto, tutto è più ricco di stranezze, ogni relazione merita di essere esplorata, anche quella nell’angolo pù nascosto del giardino; e più ospitale perché non si tratta più di una natura muta e inerte in un cosmo senza senso, ma di esseri viventi come noi, guidati da logiche vitali riconoscibili ma sempre enigmatiche, in cui resta comunque una parte di mistero che non è esauribile dall’indagine. […]
In un certo senso prima ci annoiavamo spesso “fuori”, in paesaggi inanimati, alla ricerca di sforzi fisici e di viste pittoresche. Ora tutto è popolato, ogni cosa chiama e bisogna coabitare nella grande geopolitica condivisa. Provare, come tracciatori amatoriali, a diventare diplomatici nei confronti di quelle forme di vita che abitano tra noi, ma per conto loro. […]
Per “inforestarsi” non si può fare a meno di acrobazie dell’intelligenza e dell’immaginazione, e di una suspense indefinita, sottile, per provare a tradurre quello che fanno, cosa comunicano e come vivono gli altri esseri viventi.
In una celebre pagina l’antropologo Claude Lévi- Strauss sostiene che l’impossibilità di comunicare con le altre specie con cui condividiamo la Terra è una situazione tragica e una maledizione. […]
Tra i grandi animali c’è una comunanza di interessi relativi al movimento e una maniera analoga di spostarsi, una stessa ricerca del cammino aperto, del passaggio ottimale, del ruscello per dissetarsi o godere soltanto della gioia dell’acqua viva, del sole per riscaldare la pelle dopo la comba fredda, del punto di vista sovrastante la vallata che permette un minimo di orientamento e di osservare chi arriva, di quell’ombra per rinfrescarsi a mezzogiorno, di quella deviazione per evitare il picco.
Un sentiero di lupo corre sempre sul cammino meno difficoltoso. Ecco perché un essere umano seguirà spontaneamente un sentiero animale (di una certa consistenza), ed ecco perché, in esso e grazie a esso, esiste qualcosa come un’indistinzione momentanea tra quell’uomo e quell’animale che dimostra, nell’esperienza vitale e vissuta del camminare, la loro prossimità.
Lo vedono con lo stesso sguardo, sono mammiferi che aprono il cammino con gli stessi obiettivi e lo stesso modo di pensare e decidere. Malgrado le differenze, malgrado l’inaccessibile estraneità delle altre forme di vita, c’è in alcuni punti qualcosa come una comunione di problematiche vitali. È ciò che si manifesta nel tracciamento inforestato quando, per esempio, ritroviamo una traccia perduta perché abbiamo indovinato che nelle ore calde l’animale è andato verso quel ruscello che canta in lontananza, o quando sappiamo in anticipo che il lupo, abitato dal desiderio sovrano di far conoscere a tutti il suo territorio, ha lasciato su quel passo una marcatura, che ritroviamo in effetti esattamente in quel luogo.
Di sfuggita e senza volerlo, facciamo l’esperienza del tempo del mito: un tempo in cui gli animali umani e non umani non sono più distinguibili in modo evidente.