Il terreno del futuro: educazione e comunità

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    A un’ora e venti da Roma, vicino Viterbo, c’è la Faggeta del Monte Cimino. Ha un’estensione di quasi 50 ettari ed è un posto meraviglioso. Uno di quei posti in cui è possibile perdersi, per ampiezza, ma soprattutto per piacere. In autunno è incredibile, un tappeto continuo di foglie e un mare di alberi incolonnati in qualsiasi direzione. C’è un ordine impercettibile tra i sentieri e i “fuori pista”, una scalata dolce verso la somma o una discesa verso la valle che appare all’improvviso. Il tempo sembra immobile.

    Ci passi le ore ad osservare le cime degli alberi, i tronchi massicci protesi verso il cielo e quelli caduti per scompigliare l’ordine. Osservando ti accorgi che ogni centimetro di ciò che hai intorno brulica di vita. La moltitudine di insetti, le impronte degli animali, i funghi, le spire di piante rampicanti. Ti fa venire voglia di viaggiare con un biologo sempre a portata di mano. Osservando, appunto, ti rendi conto di quanto è possibile imparare.

    Immagino che Bill Mollison stesse pensando esattamente questa cosa quando cominciò a ragionare su quella che insieme a David Holmgren avrebbero chiamato Permacultura.

    La Permacultura è un processo integrato di progettazione che ha come obiettivo la creazione di un ambiente sostenibile, equilibrato. Nasce dalla volontà di sviluppare un’agricoltura che possa riprodurre gli schemi e le relazioni presenti in natura, producendo abbondanza di cibo, fibre ed energia e sfruttando meno possibile il lavoro umano.

    In permacultura si impara a osservare e progettare in modo da intervenire il meno possibile in futuro. Vuol dire coprire il terreno (pacciamatura) anche se la tradizione dice di arare perché osservando la differenza tra un terreno arato e quello di un bosco ci si accorge che il suolo del bosco è continuamente pieno di vita, quello arato dopo anni diventa secco e sterile. Vuol dire consociare le piante in modo che si aiutino fra loro, integrare animali e piante in maniera da creare un ecosistema bilanciato. Significa non creare scarti perché in natura non ne esistono, significa puntare sulla biodiversità piuttosto che sulla monocultura perché l’ammalarsi di una specie non è la fine del raccolto.

    Entrando sempre più a fondo nell’accogliente mondo della permacultura ci si accorge che è molto più che un sistema agricolo. La permacultura è un metodo progettuale applicabile a tantissimi altri aspetti.

    Bill Mollison proponeva di osservare un terreno per almeno un anno prima di intervenire e cominciare a progettare. Prendersi il tempo per capire come funziona un sistema e progettare in modo che raggiunga un equilibrio dinamico e che produca frutti diversi.

    Sono passati più di 40 anni da quando il professor Mollison e il suo studente Holmgren iniziarono a scrivere di cultura permanente. Ne sono passati quasi 50 da quando fu pubblicato I limiti dello sviluppo, libro cardine della ricerca sul cambiamento climatico e del movimento ambientalista. In tutti questi anni abbiamo imparato a osservare la natura e a copiarne delle invenzioni grandiose.

    George De Mestral analizzando i fiori di bardana al microscopio osservò che sul calice hanno minuscoli uncini che permettevano la loro diffusione incastrandosi ovunque, anche sulla giacca che aveva usato per una passeggiata in campagna. Grazie a questa scoperta inventò il Velcro.

    Questo è uno degli esempi più citati quando si parla di biomimesi, ossia lo studio di processi naturali come fonte di ispirazione per il miglioramento delle attività e tecnologie umane.

    Scoprire e immergersi in questi mondi mi fa bene, lavorare a progetti di economia circolare, progettazione partecipata e innovazione civica mi riempie il cuore di fiducia e l’animo di coraggio. Rendermi conto di quanto sia una piccola percentuale del quotidiano è avvilente. Sapere che nella nazione più ricca al mondo ancora si discute se il cambiamento climatico è reale o no, vedere la pubblicità dell’ennesimo smartphone, dell’ennesima macchina e del nuovo detersivo mi appesantisce.

    Cambiare il sistema politico è difficile, cambiare il sistema economico sembra impossibile. Eppure è, a mio modesto avviso, necessario.

    Sarò breve, anche perché spero possano esserci altre occasioni per approfondire il discorso politico ed economico. Quello su cui voglio brevemente soffermarmi ora è l’educazione.

    Attraverso l’educazione è possibile valorizzare o mortificare una persona.

    Attraverso l’educazione è possibile creare i presupposti per un sistema politico migliore e per un’economia più equa.

    Questo è il nodo centrale. L’educazione è la progettazione del futuro, perché è il sistema attraverso cui passiamo la nostra cultura alla generazione successiva.

    La coscienza critica e una comunità matura si fondano sull’educazione che, deve fondarsi sull’esempio, sulla sperimentazione e sull’esercizio.

    Educare è “condurre fuori”. Fuori da cosa? Dalle pareti asfittiche dell’ignoranza e del pregiudizio. Fuori dal proprio recinto sicuro, fuori dal mondo che conosciamo in modo da conoscere anche ciò che non è subito a portata di mano. Conoscere le varietà che costellano il pianeta, luoghi, piante, animali, frutti, persone, culture. Diverse, non sbagliate. Educarsi ed educare alla comprensione è la base per imparare a progettare la struttura che compone il mondo in cui vogliamo vivere.

    Secondo gli ultimi dati Eurostat l’Italia è terzultima in Europa per spesa in istruzione. Penso sia un problema, ma penso soprattutto che debba essere una priorità. Per le percentuali e i numeri rimando agli articoli di Vita e il Sole24Ore (oltre che al report del Ministero dell’Economia e delle Finanze).

    Si continua a vivere di “toppe”. Per combattere il cambiamento climatico riduciamo gli sprechi, laviamo le scatolette di tonno prima di buttarle e chiudiamo l’acqua del rubinetto quando ci laviamo i denti. Tutte azioni nobili ma che vanno a mettere una toppa su processi sbagliati. Non dobbiamo ridurre lo spreco, dobbiamo progettare dei sistemi produttivi che non creino scarti. Non dobbiamo solo lavare le scatolette di tonno, dovremmo evitare di consumare così tanti tonni.

    Se superassimo questa infinita fase di produzione ossessiva di toppe da mettere sui buchi che abbiamo creato e ci prendessimo gli spazi per coltivare e educare forse non dovremmo spendere tutta questa montagna di tempo e denaro in riparazioni e in soluzioni d’emergenza.

    Le scuole devono essere dei luoghi di crescita, di sperimentazione, di condivisione e confronto. Spazi sicuri in cui insegnare e imparare, sbagliare tutti e evolverci tutti. Investire nell’istruzione per migliorare le metodologie, per ristrutturare gli spazi, per riaprirne tantissimi, per ampliare l’offerta e per dare una qualità altissima ovunque. Anche nella scuola elementare del paesino più sperduto, anche nella scuola media del quartiere più malfamato.

    Investire in educazione significa pacciamare il terreno in modo che rimanga umido e consenta alla vita di fiorire, incentivare la collaborazione tra diverse piante per farle crescere in equilibrio, supportare la diversità perché è una delle chiavi per una dieta sana e per un raccolto ricco.

    In conclusione, imitare la natura è utile, lo abbiamo capito, quindi invece di avere scuole che assomigliano a fabbriche, forse sarebbe meglio farle assomigliare a dei boschi.

    Note