Tanto spazio, poco peso. Le aree interne alla prova del futuro

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    Tanto spazio, poco peso. Le aree interne alla prova del futuro

    Se Italo Calvino fosse ancora vivo, certamente dedicherebbe un capitolo delle sue “Lezioni americane” al vuoto e al suo doppio, il pieno. Una cifra costitutiva del terzo millennio. Città troppo piene e aree interne troppo vuote; spazi da riempire con strategie di concentrazione-centralizzazione di infrastrutture, affiancate da fenomeni di dispersione insediativa, uso estrattivo del territorio e consumo di suolo, trainate da logiche di accumulazione finanziaria. Oppure spazi lasciati all’avanzare del bosco e al de-popolamento, dove si chiudono i servizi essenziali e prevalgono logiche di sviluppo turistico all’insegna del “piccolo-borghismo”. Dopo la España Vacía nella penisola iberica e la diagonale du vide in Francia, anche l’Italia ha ora un resoconto dei vuoti del Paese, grazie alla penna di Filippo Tantillo con L’Italia vuota (Laterza). Se la vita fosse un jazz-band, Filippo Tantillo ricoprirebbe il ruolo del polistrumentista. Un po’ Sun Ra e un po’ Fela Kuti, con la capacità di ricorrere a diversi strumenti e linguaggi senza perdere le radici profonde del tema musicale.

    Il libro L’Italia vuota è una sorta di diario di viaggio, una testimonianza da parte di chi ha vissuto le aree interne “da dentro”, come responsabile scientifico della Strategia Nazionale per le Aree Interne. Il libro racconta sette aree interne, riservando a ognuna un colore diverso: Smeraldo. Le valli occitane, Rosso. Il fiume Simeto, Verde. L’Appennino centrale, Argento. La costa ionica della Calabria, Grigio. Le Dolomiti orientali al centro d’Europa, Giallo. I confini mobili del Molise, Cenere. La Sardegna centrale. Non sono i sette colori primari (rosso, arancione, giallo, verde, blu, viola e indaco), ma ci si avvicinano. Soprattutto, restituiscono con nitore, trasporto e visione l’idea che l’unica (e/o più importante) dimensione “nazionale” del Paese è la sua immensa diversità interna. Contro ogni discorso biecamente nazionalistico che blatera di “identità italiana” riconducendola a una tradizione inventata, per poi sorvolare sulla plastica evidenza che l’identità nazionale si mostra omogenea solo in occasione delle competizioni sportive o quando siamo chiusi dentro le gabbie di un discorso identitario a fini politici.

    La nostra diversità territoriale è ciò che ci rende simili. Migliaia di piccoli Comuni, poche grandi città, molte città medie, conurbazioni, coste, colline e montagne, aree interne, aree vaste dove città e campagna si tengono senza soluzione di continuità, sistemi territoriali bio-regionali. Territori diversi ma uniti dalla contrazione, demografica anzitutto, ma anche istituzionale, produttiva e di capacità di aspirare a un futuro collettivo. Territori artificialmente separati dai loro contesti, così come dai flussi e dagli scambi che li collegano a livelli di scala ulteriori. Le città non esisterebbero senza “l’hinterland”, così come la Pianura Padana non esisterebbe senza la funzione protettiva esercitata nel tempo dalle Alpi. Ma anche città medie come poli funzionali di un hinterland esteso, frange metropolitane del periurbano, continuum urbano-rurale: l’Italia di mezzo, come l’hanno chiamata Arturo Lanzani e collaboratori nei loro perspicaci lavori di mappatura del Paese (F. Curci, A. Kërçuku, A. Lanzani, F. Zanfi, “Italia di mezzo: The emerging marginality of intermediate territories between metropolises and inner areas”, Region, 10, 1, 2023, pp. 89-112). La varietà territoriale o policentrismo è il tratto unificante di un Paese unito dalla diversità. Tratto che coincide con la varietà dei bisogni e degli interessi delle persone-nei-luoghi, non solo con la diversità territoriale in senso geografico-morfologico. Senza la consapevolezza del policentrismo così inteso si ha solo spazio falsamente omogeneo, immobile e vuoto, da disciplinare con scelte “per la competitività” che, in realtà, privilegiano i centri.

    La Strategia Nazionale per le Aree Interne ha avuto l’immenso merito di costruire un nuovo attore degno di rispetto e considerazione nell’arena pubblica: territori lontani dai servizi di cittadinanza e dall’economia fondamentale dei luoghi. Aree con tanto spazio (quasi il 60% del territorio! Più del 50% dei Comuni! Il 22/23% della popolazione, cioè circa 13 milioni di persone!) ma con poco peso: l’Italia “vuota” appunto, senza più  istituzioni intermedie, lontanissime dalle strategie delle Regioni (a parte poche eccezioni), mangiate dal disegno dei collegi elettorali e dal peso delle città, trattate con sufficienza dalle burocrazie centrali (specie quelle “romane”) che le guardano dall’alto in basso: “Mo’ diamo tutti ’sti soldi a quattro zotici!” è la frase tipica dei dirigenti delle grandi burocrazie centrali rivolta alla Strategia Nazionale per le Aree Interne.

    Il racconto di Tantillo, il suo diario di viaggio, è in chiaro-scuro. Nelle aree interne si concentrano e interagiscono diversi tipi di diseguaglianze: economiche (reddito e ricchezza), nell’accesso alle infrastrutture fondamentali della cittadinanza (trasporti, istruzione, servizi per la vita quotidiana), ma anche diseguaglianze di riconoscimento. Sono aree che hanno conosciuto processi di marginalizzazione e declino e che rappresentano un formidabile serbatoio di rabbia e risentimento, che si traduce spesso nel sostegno politico a forze populiste o nell’astensionismo. Si vota “con i piedi” (si emigra), ci si astiene o si vota chi promette la palingenesi anti-casta o il nativismo identitario. Aree dove i valori, le priorità, le regole pratiche e gli stili di vita di chi abita in quei luoghi non sono più riconosciuti dai modi “ordinari” di funzionamento delle istituzioni e, quindi, dalle classi dirigenti che governano i centri di potere, dal disegno delle politiche pubbliche e dalle regole che governano la distribuzione delle risorse. Non mancano, però, i chiari: il racconto-diario di Tantillo accende anche una luce di speranza. In queste aree si nascondo innovatori radicali, anche se spesso privi di potere. Cittadini, Sindaci, rappresentanti di associazioni, giovani innovatrici sociali. Ma anche risorse e beni comuni che costituiscono potenziali piattaforme abilitanti per nuovi modi di vivere e lavorare, così come di relazionarsi con quello che Bruno Latour in “Tracciare la rotta” ha definito il “terrestre”. Luoghi, dunque, prima che spazi.

    Il libro di Tantillo è, forse inconsapevolmente un diario “latouriano”. Tantillo ci offre in nuce una mappatura sul modello dei Cahiers de doléances dei vocabolari di motivi che emergono nelle aree interne, come caso di quelle che il già citato Bruno Latour chiama “zone critiche” o siti delle controversie. Scrive Bruno Latour che fino o a prima della crisi climatica – e fino a quando il progetto della globalizzazione è stato sostenibile – ci si poteva riferire allo spazio come qualcosa al cui interno collocarsi anche solo tramite latitudine e longitudine. Le appartenenze locali erano derubricate a residui del passato, irrazionali o limitanti e, in quanto tali, da superare. Con la crisi climatica e con l’infrangersi del progetto globale assistiamo al ritorno del “terrestre”, dove i luoghi e i loro correlati tornano ad assumere importanza. L’attenzione si sposta così verso le persone-nei-luoghi, in direzione del policentrismo dei milieux locali, e chiama in causa l’intreccio tra dimensioni categoriali (classe, genere, etnia) e territoriali. Qui lo spazio non è l’intervallo tra le cose e le persone, il “contenitore che racchiude e separa” (A. Corboz, Avete detto spazio?, in Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 227-233). Lo spazio dei luoghi rappresenta invece un campo “qualitativo”, “le cui proprietà sono definite sia dai suoi limiti sia dagli oggetti che in esso sono contenuti” (ivi, p. 230). Lo spazio assoluto rimanda alla concezione newtoniana formulata nei Principia mathematica: è assoluto in quanto esiste indipendentemente dai corpi materiali (esiste in sé, non è un sistema di relazioni fra corpi). Si tratta di uno spazio sostanziale, dotato di realtà, un contenitore vuoto, indifferente alla materia in esso contenuta e all’osservatore che in esso analizza i movimenti della materia. I luoghi narrati da Tantillo sono invece “associazioni” tra agenti e cicli naturali variamente combinati con attività umane, generatori di flussi, come quelli dei servizi ecosistemici, che si chiudono solo in parte nel sistema locale. Ne consegue che il “ritaglio” delle aree, le strategie di sviluppo, le interdipendenze tra le diverse misure, sono co-essenziali alle comunità di agency quali risultano dalle pratiche territoriali: gravitazioni su centri di servizi, mercati, reti, filiere produttive, legami funzionali, servizi ecosistemici, flussi di beni, servizi e persone. In molti casi ciò deve fare i conti con auto-rappresentazioni basate su identità storico-culturali reinterpretate e talvolta reinventate, ma non per questo meno importanti dal punto di vista dell’azione locale.

    Le sette aree costituiscono, poi, altrettanti esempi dell’importanza di valorizzare l’autonomia morale delle persone-nei-luoghi. L’Italia vuota testimonia come la diversità dei luoghi, e delle persone-nei-luoghi, non sia riconosciuta dal modo ordinario di funzionare delle istituzioni, dalle regole, priorità e “parole d’ordine” che guidano le politiche territoriali. Ciò può avvenire vuoi per un deficit di riconoscimento non necessariamente consapevole ma semplicemente frutto del cambiamento culturale, vuoi per un’azione intenzionale di misconoscimento che implica l’intenzione di escludere, vuoi per un atteggiamento paternalistico basato su politiche di compensazione che negano la capacità di agency dei luoghi (mi permetto di rimandare a F. Barbera, A. Zabatino, “Potere di riconoscimento, diseguaglianze territoriali e politiche pubbliche”, La Rivista delle Politiche Sociali, 2, 2022, pp. 17-32). Tracce di questo mancato riconoscimento si possono ascoltare nelle testimonianze dei vecchi e dei nuovi montanari esclusi dai sussidi che vanno alle grandi stazioni sciistiche, come nelle proteste dei Sindaci allo stremo nei numerosissimi piccoli Comuni di montagna e delle aree interne che vedono chiusi i servizi essenziali o nelle rimostranze dei produttori lattiero-caseari di montagna sottoposti alle medesime regole dei grandi caseifici di pianura. È per queste vie che il deficit di riconoscimento entra nella vita quotidiana delle persone, sospinto da regole, misure e politiche cieche ai luoghi che non contemplano bisogni, vincoli e priorità (materiali e simboliche) delle persone, imprese e istituzioni dei territori marginalizzati. Sordità alle esigenze specifiche (normative, fiscali, contrattuali, di sicurezza) delle micro-imprese delle aree interne e montane; dominanza di tecnologie che per prezzo, dimensioni ed esigenze di manutenzione escludono i bisogni della piccola agricoltura famigliare di montagna; o ancora rigidità delle regole che chiudono servizi pubblici (scuola, presidi sanitari, trasporti) in base a soglie demografiche disegnate sui parametri dei centri urbani e indifferenti alla contrazione delle aree del margine.

    Il ceto politico e la classe dirigente in generale – inclusi i dirigenti delle burocrazie ministeriali – guardano spesso dall’alto in basso questi territori e ostacolano le innovazioni istituzionali, come quella promossa dalla Strategia Nazionale per le Aree Interne di cui l’autore è stato uno dei protagonisti. I centri e le loro strutture amministrative organizzate a “silos” sono lontanissimi dai bisogni delle persone nei luoghi marginalizzati. Problemi, questi, che tengono insieme le aree interne e le periferie urbane, le città medie e le campagne produttive, le coste e le aree collinari, all’insegna della contrazione della capacità collettiva di futuro che attanaglia il policentrismo territoriale italiano. L’Italia vuota parla così al suo doppio, l’Italia piena, per un’alleanza incentrata sui luoghi di vita e di lavoro delle persone.

     

    Immagine di copertina di Gabriella Clare Marino da Unsplash

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