Progettare il disordine: per una progettazione urbana aperta e partecipata

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    L’interazione sociale costituisce sicuramente uno dei bisogni più importanti per l’essere umano. Una volta soddisfatti i bisogni fisiologici infatti, conversare, discutere, ridere e più in generale interfacciarsi con un altro individuo, diventano comportamenti essenziali al fine di auspicare al raggiungimento del benessere personale. 

    Come però insegna la storia, per gli esseri umani non sempre è stato possibile interagire agilmente. A tal proposito, senza la necessità di andare eccessivamente a ritroso nel tempo, il Covid-19 costituisce un perfetto esempio di come l’interazione sociale possa essere messa a dura prova. Nonostante oggigiorno siano infatti disponibili un’infinità di applicazioni e programmi (che, sfruttando la connessione ad internet, sono in grado di mettere in contatto persone provenienti da ogni angolo del mondo), le restrizioni, rese necessarie al fine di contenere il dilagarsi del virus, hanno inevitabilmente minato i rapporti interpersonali dal vivo, limitandoli nei casi più severi alla sola sfera virtuale. 

    Appare allora naturale pensare come, prima dell’avvento del Covid-19 e cioè grazie ad una maggiore libertà nell’instaurare rapporti interpersonali, le nostre vite fossero ricche d’interazione. Ma è davvero così? Le città erano in grado di garantire opportunità in termini d’interazione sociale?

    Al fine di ricercare una risposta all’interrogativo sovraesposto, può essere utile affidarsi al volume Progettare il disordine: Idee per la città del XXI secolo. Il sociologo Richard Sennett e l’architetto Pablo Sendra, coautori del libro, mettono infatti in luce una verità agghiacciante: ambienti eccessivamente rigidi, dal punto di vista della progettazione urbana, influiscono negativamente sullo sviluppo delle città, anche e soprattutto dal punto di vista dell’interazione sociale. 

    Nella prima parte del libro, Sennett, richiamando uno dei suoi più celebri lavori “Usi del Disordine” (1970), denuncia come le imposizioni dell’ordine volute dalla società vadano ad intaccare la vita stessa della città, rendendola un terreno tutt’altro che fertile per il manifestarsi spontaneo di rapporti interpersonali. Si fa qui riferimento alle politiche pubbliche che, allo scopo di dare una dimensione più ordinata e funzionale alla città (es. riduzione del numero di panchine per evitare il disturbo della quiete pubblica), hanno in realtà prodotto ambienti asettici, imbalsamati e ben lontani dall’essere luoghi di prosperità. A detta del sociologo, un simile scenario rappresenta, al contrario, la base per una città “fragile”; egli suggerisce sia invece necessario orientare l’intervento pubblico all’instaurarsi di una società “aperta”, in grado cioè di sciogliere la rigidità degli ambienti prescrittivi. Il disordine non deve quindi essere additato come un aspetto negativo tout court, che necessita obbligatoriamente di essere contenuto a tutti i costi; benché quest’ultimo sia sempre stato causa di timore per l’animo umano, se sfruttato correttamente può in realtà diventare il trampolino di lancio per un futuro migliore. È proprio nell’ignoto, nell’incertezza che si celano le idee migliori. 

    Quali sono allora gli interventi di progettazione urbana in grado di favorire forme di disordine che consentano lo svolgimento di attività non pianificate e la creazione di una configurazione urbana aperta, capace cioè di modificarsi in base all’agire degli individui? 

    La seconda parte del volume è per l’appunto dedicata all’individuazione, da parte dell’architetto Pablo Sendra, di potenti strategie progettuali da attuare al fine di creare i presupposti per il disordine. In particolare, egli suggerisce di costruire la progettazione come un processo non lineare, che possa quindi subire variazioni in qualsiasi momento; ad esempio, lasciare volutamente lo spazio pubblico incompleto permette di adattarlo efficacemente a qualsiasi variazione (socio-economica, politica, culturale) del contesto nel quale è inserita l’infrastruttura. Sendra suggerisce una progettazione dinamica, che non si ponga limiti in termini di uso della struttura e che garantisca così infinite soluzioni. 

    Inoltre, una partecipazione attiva dei cittadini, che saranno poi coloro che usufruiranno dello spazio pubblico stesso, è sicuramente utile al fine di creare un luogo attrattivo per la comunità. Infatti, solo mediante la co-progettazione sarà possibile creare ambienti in grado di soddisfare appieno le esigenze della comunità, e di conseguenza spazi in cui l’interazione possa essere mantenuta nel tempo (o meglio, fin quando non muteranno i bisogni dei cittadini). 

    Si tratta sicuramente di una sfida! Progettare per il disordine non è affatto semplice… Basti pensare a tutti gli attori che entrano in gioco in fase d’implementazione di una politica pubblica (enti locali, cittadini, architetti e così via…), i quali sono inevitabilmente desiderosi di controllarne l’andamento. 

    Tuttavia, scegliere di utilizzare un materiale piuttosto che un altro, rendere volutamente visibili alcuni elementi strutturali (come i tubi), ridurre la barriera che separa ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dagli edifici, sono tutte accortezze in grado di produrre momenti d’interazione sociale.                Ogni oggetto posizionato nell’ambiente manda infatti un messaggio ben preciso agli occhi di chi guarda: ad esempio, se si pensa ad una piazza dotata di numerosi posti a sedere, all’interno della quale è disposto un chiosco di street food, è naturale per la nostra mente associare quest’ultima ad un ambiente informale, in cui si possa consumare un pasto o una bevanda in compagnia, leggere un libro, scambiare due chiacchiere… In poche parole, in cui si possa interagire con lo spazio, prima, ed in seconda battuta con gli altri individui presenti, creando quindi interazione in maniera del tutto spontanea. Segue poi un vortice di apprendimento reciproco che concorre al prosperare della città. 

    Note