Roma ha dichiarato guerra alla cultura dichiarando guerra a sé stessa

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    L’altra mattina hanno tagliato il tiglio di piazza dei Sanniti, davanti al Nuovo Cinema Palazzo. In un impeto di crudeltà, hanno sradicato anche la pianta di fico che si era spontaneamente abbarbicata sulla facciata dell’edificio.

    Due mesi fa avevano portato via nel cuore della notte le fioriere che delimitavano un piccolo spazio di fronte all’ingresso, una sorta di arena esterna che faceva da ponte tra il centro sociale e la piazza antistante. Piccoli ma significativi gesti eseguiti con grande solerzia dal Servizio Giardini, lo stesso che negli anni è stato prima lottizzato da Alemanno, poi scoperchiato da Mafia Capitale, e infine decurtato sotto Marino e i Cinque Stelle, capitozzato come i pini storici di Roma che ogni tanto, orfani di rami e foglie, si ammalano, marciscono e vengono giù.

    Un accanimento, quello contro le arborescenze del Cinema Palazzo, che somiglia a uno sgombero al rallentatore, la testa mozzata del cavallo nel letto dello spazio sociale, la rappresentazione plastica di quel processo di cancellazione di luoghi e comunità che sta devastando Roma.

    Questa città ha un problema. Anzi, ne ha molti. Ma chi la governa sembra aver ridotto la ridda inestricabile di annose questioni che rendono la vita dei romani una roulette russa quotidiana, in cui persino la normale amministrazione riesce a tingersi di sfumature tragicomiche, a un discorso fatto di regolamenti e codicilli. Senza guardare in faccia a nessuno – ignorando praticamente ogni voce che, spinta dal buon senso, li ha invitati in questi anni a valorizzare ciò che c’era, fregiandosi del merito non tanto di aver costruito, ma di aver almeno impedito la distruzione di esperienze artistiche, culturali, sociali e mutualistiche all’avanguardia – la giunta capitolina targata Raggi ha sistematicamente sgomberato, sfrattato e multato quasi ogni angolo in cui a Roma si pratica cultura in maniera indipendente.

    L’accanimento che c’è stato contro gli spazi culturali a Roma ha dell’incredibile

    E però sarebbe ingiusto attribuire la desertificazione culturale di Roma unicamente a Virginia Raggi e ai pentastellati, non perché ci sia necessità di spezzare lance in loro favore – anzi, in una lunga lista di fallimenti amministrativi riescono a spiccare unici e incontrastati sul gradino più alto del podio – ma perché purtroppo chi li ha preceduti non è stato ugualmente in grado di salvaguardare le punte di diamante di un tessuto sociale e culturale che tiene in vita la città da moltissimo tempo.

    L’accanimento che c’è stato contro gli spazi culturali, poi, ha dell’incredibile. Pensiamo al Teatro Valle Occupato e agli innumerevoli eventi a cui ha dato vita nei suoi quattro anni, diventando un punto di riferimento artistico a livello europeo.

    Pensiamo allo stesso Nuovo Cinema Palazzo, all’attivo due attori Palma d’Oro e centinaia di spettacoli sperimentali, rassegne e festival di ogni genere. Pensiamo all’Angelo Mai, al Metropoliz sede del Museo dell’Altro e dell’Altrove e ai tantissimi spazi sociali che si fanno promotori di concerti a prezzi popolari, mostre, installazioni, laboratori teatrali, residenze artistiche, circoli di lettura, corsi di scrittura, e chi più ne ha più ne metta. Cosa ne è stato di questo fermento culturale? Sgomberato o sotto sgombero, ancora e ancora.

    In tutti questi casi, come per le fioriere del Palazzo, non c’è stato bisogno di chiamare camionette e idranti, di utilizzare la forza bruta. Sono bastate le multe, i richiami, i vigili, i sigilli: il Teatro dell’Orologio chiuso dopo trentasette anni per «motivi di sicurezza», il Rialto multato per 183 mila euro dalla Guardia di Finanza perché secondo loro «non faceva cultura».

    La stessa accusa che, guarda caso, è toccata in sorte in questi giorni a Casetta Rossa. La sua vicenda è, da questo punto di vista, emblematica della tendenza in atto. Occupato nel 2002, nel 2012 lo spazio è stato assegnato da un bando, che ha concesso in affidamento alla cooperativa che oggi lo gestisce il piccolo immobile e il grande parco che lo circonda. Fin da subito, è apparso chiaro agli attivisti e alle attiviste che corrispondere integralmente agli oneri del bando sarebbe stato impossibile per qualsiasi realtà no-profit e militante, piccola e priva di capitale da investire. Solo la gestione del parco – integralmente delegata a Casetta Rossa dal Servizio Giardini di cui sopra – comporta una spesa che si aggira sugli 80 mila euro annui. Eppure, armata di buona volontà, Casetta è riuscita a coprire le spese di manutenzione ordinaria dando vita a una trattoria sociale con all’attivo dodici lavoratori, tra cui tre rifugiati politici.

    Questo fino a venerdì scorso, quando una Pec della direzione tecnica del Municipio VIII ha intimato a Casetta di sospendere il servizio di somministrazione. Come spesso succede in questi casi, le effrazioni ai regolamenti contestate ai gestori sono minime: una distanza dal garage di 350 metri anziché 300, una porta che non dovrebbe dare né sulla strada né sul parco – eppure Casetta è, appunto, una casetta in mezzo a un parco, e lo è sempre stata, come il Teatro dell’Orologio è sempre stato il teatro di un edificio storico del centro, privo di uscite di sicurezza. Ma soprattuto, ad aggiungere la beffa al danno, la constatazione in burocratese che determinate agevolazioni sarebbero illegittime, dal momento che nel suddetto spazio «non risultano attività culturali».

    Casetta Rossa e il Nuovo Cinema Palazzo non sono casi isolati: anche Scup è minacciato di sgombero. Dopo essere stato concesso nel 2018 in comodato d’uso gratuito per cinque anni, l’immobile che ospita Scup è stato messo in vendita nell’ambito del processo di rigenerazione urbana che coinvolge l’area, dal nome altisonante di Reinventing Cities. Il progetto, già sopravvissuto a due sgomberi, si trova così ad essere nuovamente a rischio, malgrado il suo ruolo di punto di riferimento culturale, sportivo e mutualistico nel quartiere e nella città.

    Nel bando che il Comune ha emanato per riqualificare la zona di tutto questo non c’è traccia, così come non c’è menzione dell’opera imponente di ristrutturazione portata avanti dagli attivisti e dalle attiviste dello spazio, che hanno sottratto alla decadenza i capannoni abbandonati di via della Stazione Tuscolana e li hanno restituiti alla popolazione grazie a un lavoro costante di rigenerazione sociale. Anzi, il Comune ha volutamente scelto di ignorare e non preservare quanto di buono già esiste, e di fare tabula rasa per consegnare a costruttori e investitori un terreno presunto vergine, su cui sarà certo più facile fare profitti.

    Nel frattempo l’assessore Luca Montuori, sordo alle reiterate richieste di partecipazione che salgono dal territorio, se ne va in giro per la città a spacciare per manna dal cielo il bando Reinventiamo Roma che, oltre alla Stazione Tuscolana, coinvolge altre cinque zone della capitale. E una di queste è proprio la San Lorenzo del Cinema Palazzo, dove l’assessore Montuori lo scorso venerdì 9 ottobre ha interloquito con il quartiere per presentare il percorso di rigenerazione urbana e dove, solo qualche giorno dopo, è stato sradicato il tiglio simbolo della comunità che lo abita.

    A Roma fare cultura e aggregazione sociale senza scopo di lucro è diventato impossibile

    Ma un simile atteggiamento, all’apparenza contraddittorio, ha forse una sua coerenza: quella dei generali in guerra che spargono il sale sulle rovine. Sì, perché Roma in questi anni ha dichiarato guerra alla cultura in nome della legalità e della rigenerazione urbana ad uso e consumo dei grandi capitali, una guerra fatta di carte bollate, righelli, certificazioni, porte portelloni e cancelletti da aggiungere togliere o rifare, di metri quadri e metri lineari, bandi, sanzioni, fioriere e scontrini fiscali, che semplicemente si rifiuta di vedere la cultura e di riconoscerla, chiamandola con il suo nome. Una città dove l’Estate Romana di Nicolini è stata sostituita, ultimo oltraggio, da un oggetto mediatico non identificato come Romarama.

    La verità è che a Roma fare cultura e aggregazione sociale senza scopo di lucro è diventato impossibile, e chi ha provato a giocare secondo le regole ha presto scoperto che il banco è truccato. Non esistono, infatti, strade percorribili che siano contemporaneamente economicamente sostenibili per chi le pratica, socialmente accessibili per chi le frequenta e integralmente legali. Sono i famosi vertici di un triangolo in cui puoi scegliere soltanto due opzioni alla volta: o un’attività è sostenibile e accessibile, e allora è illegale; o è sostenibile e legale, e allora è inaccessibile; o è accessibile e legale, e allora è economicamente insostenibile.

    Il percorso di molte realtà che sono nate come occupazioni e sono diventate nel tempo legittime assegnatarie degli spazi sta lì a dimostrarlo: le regole non le hanno né protette né garantite né salvate. E allo stesso modo chi è rimasto nell’illegalità, denunciando l’inadeguatezza dei percorsi attualmente disponibili per la regolarizzazione e rifiutando la logica del bando (che ha spesso cancellato percorsi pluridecennali sulla base di virgole ed errori formali), è costantemente minacciato di sgombero da politicanti questurini che si sentono piccoli papa re, forti del tam tam securitario e dell’inasprimento delle leggi degli ultimi anni.

    Roma ha dichiarato guerra alla cultura e alla socialità, alle comunità che animano i territori: per certi versi, ha dichiarato guerra a sé stessa. È uno dei suoi tanti problemi. Ma per iniziare a risolverlo è necessario rifiutare una volta per tutte la logica dell’emergenza, che ci impone ogni volta di mettere una toppa a colori all’ennesimo cavillo burocratico per salvare questo o quello spazio, questa o quella esperienza, in un circuito infinito dove lo zelo degli uffici tecnici non trova più l’argine di una visione politica.

    La domanda, allora, è la seguente: esiste ancora la possibilità di fare cultura in questa città, di dare vita a pratiche mutualistiche, di creare socialità al di fuori della logiche della speculazione e del profitto senza finire schiacciati in una morsa, sopravvivendo con l’acqua alla gola tra un’emergenza e l’altra? Attualmente no. E se vorremo cambiare questa risposta sarà necessario un grosso sforzo, tanta creatività e immaginazione, per dare forma a un nuovo quadro normativo e riscrivere le regole della gestione in comune.


    Immagine di copertina: ph. Matteo Nardone

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