Partire e tornare da Medellin a Milano

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    Tra l’aeroporto di Medellin e la città ci sono 40 chilometri e 600 metri di dislivello che percorro tenendo gli occhi appiccicati al finestrino della macchina. Qui era tutta campagna, verrebbe da dire. Non un tempo ma due anni fa, l’anno scorso, proprio ieri. La zona montuosa a est della seconda città della Colombia è da cinquant’anni il luogo che oltre all’aeroporto internazionale ospita le seconde case della borghesia. Case coloniche con il patio e l’appezzamento di terreno intorno, gli alberi da frutto, il maggiordomo, il maneggio, i cani di razza. Case vacanza dal fascino campestre per il tempo ozioso di latifondisti e imprenditori da raggiungersi guidando con attenzione lungo l’ultimo tratto di strada non asfaltata, tutta ciottoli e polvere sul parabrezza. Oggi, invece, centri commerciali, ristoranti, piscine e palestre, golf club e campi da tennis. Complessi residenziali con case di vetro progettate dai più quotati architetti del paese, pannelli solari sul tetto e forno a legna per fare la pizza.

    La città si è espansa in un attimo che non so quantificare: direi meno di cinque anni. Chi può vende l’appartamento al ventesimo piano e compra un lotto di terreno nella nuova Svizzera colombiana, suburbs versione America Latina. Lo fa perché, dice, in città non si può più vivere: troppo traffico, troppi profughi venezuelani al semaforo a chiedere l’elemosina, le famigliole sui marciapiedi, i furti, le prostitute, non c’è più decoro né spazio, c’è una donna che allatta sotto un ponte, prendiamo tutto e andiamo via, 30 chilometri a est. In città io arrivo invece entusiasta e non mi curo dell’aria che è irrespirabile anche per una che viene da Milano.

    Il problema è che Medellin è rinchiusa fra le montagne: la coltre di smog rimane intrappolata, il cielo sembra nuvoloso invece è aria sporca a tappare due milioni e mezzo di persone. Infilo le scarpe e corro a misurare lo stato delle cose, come ogni anno, puntuale. La prima cosa che colpisce una persona la cui idea di verde si è calibrata sui radi parchi milanesi è la natura che cresce rigogliosa e possente ad ogni angolo, noncurante del cemento. Mi faccio largo tra le canne di bambù e le foglie che invadono il marciapiedi e raggiungo il barrio Provenza, centro del quartiere più ricco della città, una viva accozzaglia di locali rumorosi e ristoranti chic, venditori ambulanti e turisti statunitensi, hotel di lusso e madonne nelle teche in mezzo alle piazze. Anche qui tutto pare indicare che negli ultimi ci sia stato un grande afflusso di denaro. Lo si deduce dalla raffinatezza delle nuove aperture, dalla cura del manto stradale, dal pullulare di coworking e volti coperti dalle mele luminose dei macbook. Si sorseggiano bevande al caffè, centrifugati depurativi, si mangiano uova da brunch, si imita New York molto più che Miami, un centro da camminare e vivere dalla colazione all’aperitivo che faccia impallidire i quartieri dei creativi milanesi.

    Eppure l’impressione strisciante che ci sia un prezzo da pagare, da qualche parte, negli angoli bui, l’impressione che la crescita sia stata frettolosa e schizofrenica e che i disperati al semaforo siano di più, e più disperati, mi prende mentre ordino un chai latte con il ghiaccio. Ci sono gli indigeni “desplazados”, ovvero gli sfollati delle zone rurali del paese: non parlano spagnolo, vestono sgargianti, compongono braccialetti da vendere ai bordi delle strade, i loro bambini corrono scalzi tra le macchine. Ci sono i venditori di rose, sigarette al dettaglio, fragole, gioielli, gomme da masticare monodose su cui misuro da anni l’andamento dell’inflazione.

    Dopo una certa ora anche cocaina e marihuana offerte bisbigliando all’orecchio. La prima volta ti prende un colpo, con quella voce vicina che ti raggiunge da dietro, la seconda ti sei già abituato. I clienti migliori sono i gringos, ancor meglio se maschi e trentenni, prede favorite anche dalle ragazze che dopo aver attraversato la città sui tacchi a spillo si schierano agghindate per prostituirsi e guadagnare in un paio d’ore mezzo salario minimo mensile. Tra di loro scorrazza qualche topo, e anche qualche poliziotto, si alza la musica di dieci locali diversi, si respira l’aria frizzante di un luogo senza direzione, spaesato, imbizzarrito.

    Dove va Medellin? A chiederlo all’amministrazione comunale va verso l’innovazione e la giustizia sociale, la sicurezza e le politiche green. Piste ciclabili, parchi e grandi opere. Sembra di sentir parlare Beppe Sala con il suo divieto di fumo alle fermate del tram e la riqualificazione degli scali ferroviari. I modelli sono pressappoco gli stessi, quantomeno a parole, ma Milano è ricca e viene da un settecento di dominio asburgico che ancora le si legge quando la si guarda di profilo, per le vie del centro. Ha un rigore anche nei quartieri della peggiore periferia, le sue strade dritte e piane dettano un modo svelto e composto di attraversarle, il passo da tenere è quello spedito di una locomotiva. Medellin è invece costruita sulle pareti ripide delle montagne. Si sale o si scende a un ritmo dettato dal fiato: i colombiani credono come ogni americano alla meritocrazia, alcuni barano, comprano il suv e arrivano primi.

    Un giorno sono per strada, fermo un autobus scassato sventolando la mano al vento. Salgo rovistandomi le tasche in cerca di qualche moneta e la consegno al conducente che con una mano guida, con l’altra prende i soldi e cerca il resto, con la terza mangerebbe il pranzo al sacco e alzerebbe il volume della musica. Direzione Barrio San Javier, Comuna 13. Fino a una ventina d’anni fa era il quartiere più pericoloso della città, dominato dalle FARC prima e dai paramilitari poi nel modo violento e omertoso che viene dagli spazi ermetici. Oggi è un quartiere dove la povertà si è fatta folclore e ha capito come vendersi. Le pareti delle case fatiscenti sono state ornate da murales colorati a cui i turisti scattano foto compulsivamente mentre un ragazzino del posto li guida raccontando del conflitto armato colombiano e del lascito di Pablo Escobar.

    Dopo lo show di un rapper salito sull’autobus ad esibirsi per racimolare qualche soldo arrivo ai piedi del quartiere e salgo sulla funivia, mezzo pubblico che gli abitanti prendono come io scendo sotto piazzale Loreto, distrattamente e con la musica nelle orecchie. Mi appiccico di nuovo al finestrino, osservando assorta, e quando scendo dalla cabina mi si apre sotto gli occhi la città rossa: una distesa fitta di mattoni, lamiera e cunicoli che ricorda uno struggente presepe postmoderno. Di Milano non saprei dire il colore. Forse è il grigio, forse un pallido rosa. L’ho vista dall’alto, sì e no, due volte e probabilmente è il motivo per cui non me ne sono ancora andata. Ho l’illusione che girando l’angolo ci possa sempre essere una strada sconosciuta e meravigliosa di cui non ho mai avuto un’anteprima.

    Sul mio pomeriggio nella Comuna 13 si infrange un temporale improvviso e subito il mondo si divide tra chi si dimena e chi se ne frega. Io mi schiero con chi se ne frega e continuo a salire le strade ripide su cui l’acqua scorre come a formare piccoli torrenti di montagna, inalo l’odore di fritto che viene dalle tavole calde, scompongo l’intrico di voci e grida tra le case, seguo con gli occhi cani randagi che scorrazzano bagnati. Della pioggia mi disinteresso anche a Milano. La trovo anzi un suo bellissimo tratto, debole com’è, elegante e tristissima, quasi mai potente, sempre solo una leggera spolverata che lava i palazzi dalla patina grigia che li ricopre.

    Quando raggiungo il punto più alto della montagna due ragazzine in divisa scolastica mi chiedono di scattare loro una foto, posano vanitose. Una di loro conserva uno sguardo torvo e guardingo che trovo bellissimo, mi mette a fuoco mentre metto a fuoco lei. Simili sguardi li ho visti solo a Corvetto – quartiere della periferia sud di Milano – nei bambini che giocano a guardie e ladri salendo sulle moto parcheggiate vicino a divani sfondati e abbandonati in mezzo alla strada.

    Anche lo sguardo duro delle donne della Comuna 13 ha un suo corrispettivo nelle marginalità milanesi. E’ quello delle donne dal capo coperto dall’hijab che trascinano carrelli colmi di cibo del discount. Non ammiccano, camminano senza spiragli di confidenza. Credo che il mio corpo sia un conglomerato di alterità da cui diffidare. Troppo alto, troppo bianco, vestito troppo sobriamente, non ha nulla che possa dare un’idea di familiarità.

    A Medellin questo mi risulta ancora più evidente perché la segregazione delle classi è violenta ed è fatta anche di corpi, di strade, di quartieri accessibili o proibiti. Si è troppo ricchi per passare inosservati dove la città palpita e ha qualcosa di interessante da mostrare. Lo si è anche se a Milano non si è ricchi affatto. Dove Medellin relega i ricchi ci si sente però ugualmente fuori luogo: per la noia, per le telecamere di sorveglianza ad ogni angolo, per i macchinoni che si prendono arrogantemente le strade, per gli algidi appartamenti di lusso tutti uguali, arredati come da rivista, puliti da donne giovani che hanno figli cresciuti dalle loro madri, che a loro volta le affidarono alle nonne quando pulivano gli algidi appartamenti di chi oggi è andato a vivere nella Svizzera colombiana a 30 chilometri dalla città. Ci penso e mi assale la nostalgia del mio giallo cortile milanese, degli androni dei palazzi da cui da decenni mancano i portieri perché costano troppo.

    Ho nostalgia anche dell’indifferenza che la città riserva ai suoi abitanti, di come la attraverso in bici cantando quando sono felice e nessuno se ne cura, di come bevo la birra seduta a una panchina senza che un bambino mi chieda del denaro e io debba decidere se sia meglio darglielo o meno. La verità è che è solo nostalgia di un posto in cui è più facile pensare solo a sé, fingere che la città sia uno spazio di tutti, senza esclusioni e gerarchie. Il giorno del ritorno arrivo all’aeroporto Josè Maria Cordova e un militare mi informa che è chiuso per lavori. Chiedo in che senso e mi guarda male. Torno in città e salgo su un pullman notturno per Bogotà che si sfascia dopo un paio d’ore in un paesino dell’entroterra.

    Mentre aspettiamo il mezzo sostitutivo osservo la calma e l’arrendevolezza con cui i miei compagni di viaggio affrontano l’imprevisto, aspettando che qualcosa accada senza impazienza, senza rabbia, abituati. Ripenso a Milano, a quella volta in cui il tramviere alla guida del tram numero uno girò su via Vitruvio invece che proseguire su via Settembrini. Un errore di distrazione che gli costò le urla inferocite di milanesi sempre di fretta. Scesero tutti con il passo spedito di una locomotiva sulla città piana e diritta che abitano frettolosamente. 

    Note