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Torino più di qualunque altra città ha rappresentato al meglio in Italia, nel Novecento l’idea di capitale industriale in senso classico, sia per la prevalenza della meccanica e in particolare dell’industria automobilistica, vero archetipo della liberazione economica e sociale della metà del secolo scorso, sia per l’organizzazione della sua filiera. E poi dal punto di vista della stratificazione sociale che vedeva Torino compiersi appieno nel modello fordista, tanto che ancora oggi che quasi tutto è cambiato (e svanito) Torino si mostra come una città dall’anima popolare e ancora fortemente operaia.
Tuttavia come ricorda Arnaldo Bagnasco in apertura del saggio scritto a sei mani con Giuseppe Berta e Angelo Pichierri, Chi ha fermato Torino?. Una metafora per l’Italia (Einaudi):
La Fiat ha introdotto nell’economia e nella città piuttosto che la logica del mercato quella dell’organizzazione. A livello locale, più che il libero mercato era una condizione di monopolio a caratterizzare il mercato del lavoro e a regolare i rapporti con i subfornitori.
E forse qui abbiamo un primo indizio della difficoltà di Torino di rigenerarsi in seguito alla lunga e agonica crisi Fiat, una difficoltà comune alle città industrializzate italiane, da Milano a Genova (componenti del cosiddetto triangolo industriale, residuo enfatico dei più propagandistici sussidiari scolastici). La società torinese infatti, come spiega successivamente Bagnasco, assume:
La logica, le procedure, i tempi dell’organizzazione tendono in epoca fordista a permeare la cultura, le relazioni sociali e la società nel suo insieme. Le persone sono portate ad applicare in tutti gli ambiti di vita, i modi di ragionare, di apprendere dall’esperienza, e le tecniche di problem-solving che sperimentano nel loro lavoro.
Questa tendenza ha evidentemente rallentato l’innovazione e il rinnovamento necessario non solo dal punto di vista economico e lavorativo, ma anche sociale delle principali città italiane che oggi nonostante una generale retorica entusiastica non sono certo messe molto bene.
Anche le politiche più aperte appaiono ancora messe fortemente in difficoltà da una tendenza che tende ad espellere gli spazi di cittadinanza con una doppia tendenza che da un lato esclude i settori più deboli e fragili della società e dall’altro deprime fortemente i luoghi svuotandoli da ogni significato esistenziale.
Ma Torino è anche la città delle Olimpiadi invernali del 2006, etichetta ormai logora di una rinascita che tuttavia non fu solo di copertina e che anzi nasceva da lontano.
Dalla metà degli anni Novanta Torino liberata da un’oppressione politico industriale che ha ormai esaurito ogni spinta vitale, genera una nuova visione, disancora il proprio policy making dall’industrialismo e guarda verso l’esperienza dei centri urbani europei:
Se esistono in certe condizioni buone ragioni per decidere di spostarsi, esistono anche buone ragioni, in altre condizioni, per rimanere e crescere in un luogo dove si è impiantati o per arrivarci dall’esterno. Le condizioni favorevoli alla permanenza sono però meno obbliganti di prima, e soprattutto, devono essere più costruite e continuamente riprodotte. Questa è la conclusione comune delle città che si sono messe al vento, della quale bisognava convincersi
A differenza delle altre città europee però Torino sconta la mancanza di una visione nazionale capace di modernizzare le strutture burocratiche del paese delegando e riformando i sistemi centrali in favore di quelli locali. Insieme al ritardo che già la città aveva accumulato dall’uscità dall’epoca industriale si aggiunge così una difficoltà reale e concreta nel rendere efficace e strutturale un nuovo policy making con il rischio e spesso la conseguenza che tutto questo si fermi come in parte è avvenuto al volontarismo dei pochi, alla passione associativa che nasce dal basso senza però avere forza e reali leve con cui incidere nel profondo.
Così che quando arrivano le Olimpiadi, Torino vede il varo del secondo piano strategico a cui farà seguito poi un terzo nel 2015 e la sostanzialità perdita di valore e credibilità di una visione sempre più fragile e contradittoria. Torino inizia così una parabola discendente, accelerata dalla crisi economica del 2008, che è ancora più evidente dal saldo demografico che compare regolarmente negativo dal 2014 (all’opposto di Milano).
Tuttavia come ricorda Arnaldo Bagnasco non bisogna credere che la crisi di Torino sia specifica o limitata alle caratteristiche particolari della città. Se si guarda meglio alla situazione generale da cui come tra l’altro si è già accennato discende parte del mancato sviluppo del capoluogo piemontese è evidente che Torino è rappresentativa di una tensione critica, tanto che alcune possibili soluzioni e risposte potrebbero essere utili alle domande di molte altre città in Italia. Sempre Bagnasco:
Torino è stata una grande fabbrica, ed è diventata una città, in questo ora più simile ad altre. Ogni media capitale regionale ha le sue particolarità ma ciò significa che metabolizza a suo modo tendenze generali del cambiamento sociale, e a queste bisogna fare riferimento
Torino come le altre città italiane medio grandi ha oggi una struttura sociale complessa e difficile da sintetizzare: sempre che non si voglia avvallare la banale formula élite/popolo. Tuttavia il rischio c’è ed è forse proprio considerando, come fanno Bagnasco, Berta e Picchieri, Torino come una metafora per l’Italia che è necessario ragionare attorno ad una nuovo modello possiible di governance che da un lato possa reinterpretare in chiave contemporanea la ricca eredità industriale della città, ma dall’altro liberi il più possibile spazio all’innovazione sociale e culturale che nonostante le difficoltà negli ultimi anni si è diffusa sul territorio.
Restano in ogni caso sul tavolo le difficoltà di un rinnovamento che ancora fatica a gestire dinamiche ormai affermate ,e come scrive Giuseppe Berta:
Chiunque esplori la Torino odierna non faticherà ad accorgersi che la mappa dei poteri è diventata opaca, poco decifrabile perché non più codificata da gerarchie precise
Un’opacità che per certi versi caratterizza più che uno status quo una forma di imbrigliamento data dalla difficoltà di riconoscersi un ruolo e un’identità. La crisi certamente pesante vissuta da Torino come ricorda sempre Berta non deve distogliere però lo sguardo dal fatto che la città appartiene a quel centro economico e finanziario del nord ovest e che è proprio in questo ambito che deve spingere di più: ad esempio nel dialogo con Milano come in parte effettivamente molte storiche organizzazioni cittadine e il meglio del suo capitalismo leggero già fanno. Il cambio di passo però deve nascere da una rinnovata capacità interna alla cooperazione e alla responsabilità, ingredienti essenziali che sappiano insieme valorizzare e favorire le organizzazioni dal basso e più in generale dare spazio ad una virtuosa dinamica bottom up:
La città paga per intero la path dependency che discende dalla sua storia moderna. Essa è stata segnata dalla scelta di Emanuele Filiberto che ne fece la capitale del ducato di Savoia, togliendola a Chambéry. Il suo destino mutò grazie alla corte, che vi si insediò con la burocrazia statale e l’esercito
Prosegue sempre Berta
Ora non si può più rinviare una stagione repubblicana, in cui l’esercizio della leadership si fondi su un paziente lavoro di tessitura, sulla disponibilità a mediare e a negoziare fra soggetti inclini a correre qualche rischio poiché non esistono più posizioni – né tantomeno egemonie – da rispettare a priori
E più in generale questa è anche la strada migliore per garantire un’opportunità concreta agli strati sociali più fragili della società riformando una serie di servizi e di beni sociali ormai di primissima necessità.
Ma come fa proprio per queste sue peculiarità, Torino ad essere definita dagli autori di Chi ha fermato Torino? una metafora dell’Italia? La risposta più semplice e diretta è che Torino è già stata una capitale e che ha al suo interno le risorse e le caratteristiche tipiche di una capitale europea e come tale ha tutte le potenzialità per fare buona politica intesa anche come politica economica. In particolar modo avvantaggiandosi delle dinamiche offerte dall’Europa che tendiazialmente agiscono e avvallano pratiche di condivisione e di coesione sociale. Chiarisce meglio Angelo Pichierri
Con servizi pubblici essenziali come quelli relativi al trasporto, all’acqua, all’energia, ai rifiuti, siamo su un terreno cruciale per la definizione della governance cittadina
La partita è proprio sui beni essenziali perché i Comuni che tendono a restare parte fondamentale dell’azionariato vivono la contraddizione di pretendere maggiori dividendi – fondamentali per il bilancio comunale -, ma anche efficacia e diffusione del servizio.
Una situazione che evidentemente rende difficile governare in chiave strumentale le grandi aziende di servizi tanto più se non si riuscirà in futuro a integrare politiche e visioni che superino gli stretti confini cittadini, volgendo lo sguardo finalmente verso le più ampie aree territoriali circostanti dentro alle quali è possibile cooperare più efficacemente.
Ed è proprio su questo punto che si concentra il libro mostrando da un lato la possibilità di sviluppare visione e governo da parte di Torino e delle altre città italiane, ma attenzione solo a patto di riuscire a trovare un livello di collaborazione con il territorio in cui sono immerse che possa trasformare in pratica quello che al momento rischia di essere solo uno sguardo sulle città.
Sciogliere dunque la contraddizione che vede le città come avamposti di territori desolati o peggio ancora da prosciugare, ma assumersi nel contempo la responsabilità del governo del territorio restituendo in termini di intermediazione, servizi essenziali e non in ultimo favorendo azioni culturali. Perché è proprio quel territorio diffuso il vero genius loci attraverso cui sviluppare e dare forma alla forza economica delle metropoli, ma anche garantendo una potenziale ricchezza sociale diffusa. In tal senso Pichierri porta ad esempio il lavoro innovativo che connette una filantropia fornitrice di servizi di cura, come di formazione culturale e sociale con il mondo delle Fondazioni di origine bancaria:
Le Fob non sono certo un fenomeno torinese: Torino ne ospita un paio tre le maggiori del Paese, che esercitano un ruolo di importanza crescente nell’ambito della governance urbana in crisi. Queste fondazioni sono un fenomeno politicamente e organizzativamente interessante. Le Fondazioni si sono inoltre mostrate capaci di “stare in rete”, evitando qualche possibile spreco da concorrenza; di esercitare un’efficace attività lobbistica; di generare altre organizzazioni.
Una capacità tessitrice che va dal mondo delle Fondazioni fino all’Università, una sorta di effervescenza carsica a tratto inclusivo e pluralistico (e non potrebbe essere altrimenti) che mostra gli stilemi di un possibile futuro modello Torino.
Secondo gli autori in parte gli ingredienti sembrano esserci tutti, manca ancora una non banale capacità di coordinamento e di assunzione del rischio. Questa azione va potenziata e resa visibile anche nella prassi, ma la metafora regge tutta: se Torino riparte anche il resto d’Italia potrebbe trarne vantaggio, per apertura, inclusione e capacità attrattiva.