Tempo fa ho avuto modo di fare una bella chiacchierata con Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro autrici del libro “Milan Gender Atlas – Milano Atlante di genere”. La ricerca si propone di decostruire lo spazio urbano contemporaneo milanese attraverso lenti di osservazione specifiche che consentono di leggere le risposte offerte alle esigenze delle donne e delle minoranze di genere e pianificare contesti più inclusivi e attenti. Questa storia urbana, che evidenzia disuguaglianze di genere, di potere, di rappresentanza, la riprendo un anno dopo in occasione del terzo incontro pubblico del ciclo – La città esclusiva?– organizzato dal Dottorato Urbeur-Studi Urbani del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano Bicocca che si terrà il giorno 25 maggio 2023 alle ore 17 presso l’Università di Milano-Bicocca, in Aula Pagani al terzo piano dell’Edificio U7 Civitas1Il ciclo di quattro incontri affronta il tema dei mutamenti che Milano sta attraversando negli ultimi anni, a partire da alcuni saggi usciti recentemente, focalizzandosi in particolare sulle sue dinamiche di esclusione e inclusione.. Nel frattempo nulla ha reso meno urgente e attuale il tema. I percorsi delle donne restano articolati, frammentati, interrotti, ostacolati, invisibili.
Azzurra Muzzonigro (Roma, 1983) PhD in Urban Studies all’Università degli Studi Roma Tre, architetta, curatrice e ricercatrice urbana indipendente. Insegna Urban Design in varie università fra cui Politecnico di Milano e Domus Academy. Ha conseguito un MSc in Building and Urban Design in Development alla Bartlett UCL. È co-fondatrice dell’associazione di promozione sociale Sex & the City che indaga la città da una prospettiva di genere. Nel giugno 2015 fonda Waiting Posthuman Studio, una piattaforma di ricerca multidisciplinare a cavallo fra arte, architettura, urbanistica e filosofia. È autrice con Florencia Andreola di Milan Gender Atlas / Milano Atlante di genere (LetteraVentidue, 2021), e di Costruire Futuri. Migrazioni, città, immaginazioni (Bompiani, 2018) con Leonardo Caffo.
Florencia Andreola (Argentina, 1984) è ricercatrice indipendente e PhD in Storia dell’Architettura (Università di Bologna). Si interessa di sociologia, politica e delle varie discipline che ibridano la ricerca sull’architettura e la città. È co-fondatrice dell’associazione di promozione sociale Sex & the City che indaga la città da un punto di vista di genere. È autrice con Azzurra Muzzonigro di Milan Gender Atlas / Milano Atlante di genere (LetteraVentidue, 2021). Ha curato Disagiotopia. Malessere, precarietà ed esclusione nell’era del tardo capitalismo (DEditore, 2020) e co-curato Milano. L’architettura dal 1945 a oggi (Hoepli, 2018), Backstage. L’architettura come lavoro concreto (Franco Angeli, 2016) e Guida all’architettura di Milano 1945-2015 (Hoepli, 2015).
Ciao Azzurra, ciao Florencia, ho letto la vostra pubblicazione e mi piacerebbe farvi alcune domande. Il taglio è divulgativo per far conoscere il vostro lavoro anche a chi, come me, non è esperto del tema, introducendo la vostra prospettiva. Cominciamo quindi dalle basi. Cos’è l’urbanistica di genere e come siete arrivate ad occuparvene?
F.A. – L’urbanistica di genere è un concetto che esiste da anni. Di recente è stato pubblicato un libro di Leslie Kern –La città femminista– al quale facciamo riferimento. Lei è una geografa canadese e racconta questi temi dal punto di vista di una geografa; noi proviamo ad applicare questo tipo di sguardo nel contesto in cui siamo e che osserviamo.
A.M. – Per noi è un’urgenza e anche una scoperta. Il bando di Urban Factor* è stata l’occasione per incontrarci, conoscerci e lavorare insieme, innescando un processo di ricerca. Quello che ci ha guidato è stato provare a sovrapporre due campi, da una parte gli studi di genere e tutto ciò che è legato alle questioni di genere in riferimento agli studi sociali, politici, sociologici e antropologici, dall’altro quello dell’urbanistica e della pianificazione, dove senz’altro sono stati fatti degli studi, rimasti però per lo più teorici e con scarso impatto sulla realtà (in Italia soprattutto negli anni ’90).
Qual è la vostra prospettiva?
F.A. – L’Atlante è un tentativo di applicare quello sguardo alla realtà concreta di Milano, è un’osservazione dello spazio urbano a partire da lenti che vengono appunto da più discipline. Interroghiamo lo spazio, ci chiediamo ciascuno di quei concetti come e dove si applica, da chi è animato, quali reti sviluppa, quali infrastrutture e quali pattern.
A.M. – Lo sforzo che facciamo è quello di creare un ponte tra la teoria e la pratica, con l’ambizione di incidere sul piano della realtà, di usare la ricerca come strumento di trasformazione del reale. Senz’altro ci interessa esplorare la dimensione teorica, raccontare cosa sia l’urbanistica di genere, ma in chiave trasformativa, per comprendere come questi concetti possono produrre delle trasformazioni reali e infine informare delle politiche appropriate.
Ad esempio?
A.M – Una cosa molto importante è che lo sguardo di genere ti porta ad interrogare lo spazio dal punto di vista della vita quotidiana dei suoi cittadini. È un tema fondamentale che chiaramente viene da lontano, Lefebvre ad esempio ne ha fatto una questione chiave del suo pensiero. Portandolo su una prospettiva di genere e osservando la vita quotidiana ad esempio di chi si occupa di cura, c’è un dato che dice che il 75% del lavoro di cura non retribuito nel mondo è svolto da donne. Se noi sviluppiamo dei sistemi che favoriscono e alleggeriscono la gestione quotidiana della cura costruiamo una città più inclusiva non soltanto per le donne ma per tutti.
Capisco. Rispetto a questo, cosa si può fare? E cosa state facendo voi?
F.A. – Anzitutto cerchiamo sempre di usare un linguaggio poco accademico. Il libro è leggibile da chiunque; è un libro colto inevitabilmente perché abbiamo studiato per scrivere, però una cosa a cui teniamo è di non rendere inaccessibili i discorsi che stiamo facendo perché l’obiettivo non è quello di attestarci all’interno di determinati ambienti quanto piuttosto quello di diffondere il più possibile questo tipo di ragionamenti. Nei fatti ci sta capitando di parlarne nelle situazioni più disparate, ed è interessante vedere quanto possano essere trasversali le questioni affrontate. Questi temi non riguardano soltanto chi progetta la città o chi ne definisce le politiche, ma anche i cittadini. Nel momento in cui diventiamo maggiormente consapevoli del fatto che viviamo quotidianamente una città che per certi versi è ostile ai nostri bisogni, forse possiamo cominciare a esigere di più in termini di ascolto e di risposte specifiche.
Inoltre stiamo mantenendo un dialogo multiplo con tanti soggetti diversi, tra cui naturalmente le amministrazioni pubbliche con cui ci confrontiamo con grande costanza, non solo a Milano. Siamo andate a presentare il libro a Roma, a Bologna, a Torino, a Firenze etc. e quasi sempre in queste situazioni c’è parte dell’amministrazione pubblica come diretto interlocutore a cui rivolgiamo la proposta di acquisire uno sguardo diverso sulla città. Non facendolo infatti si dimentica un grande pezzo della popolazione.
L’idea è anzitutto fare un’operazione di traduzione di linguaggio: da una parte ci sono le grandi mobilitazioni di piazza, la militanza, le esperienze dal basso, che sono molto utili per far emergere le crepe, dall’altra le amministrazioni pubbliche che necessitano di comprendere le questioni e sviluppare gli strumenti amministrativi da mettere in campo per dare risposte concrete. Sono mondi che faticano a parlarsi, uno degli obiettivi principali dell’Atlante è proprio creare una piattaforma di dialogo.
A.M. – Su questo anche la pubblica amministrazione può spingere un po’ più in là l’immaginario e trovare delle formule amministrative per ascoltare e includere queste voci che si auto organizzano all’esterno della macchina amministrativa. La tendenza invece è sostituire questi soggetti con delle risposte top down che cancellano quella storia, ma così facendo si perde una possibilità, una risorsa concreta.
Come funziona nel resto d’Europa? Ci sono realtà particolarmente avanzate da questo punto di vista?
A.M. – Dal punto di vista dell’urbanistica di genere la città più avanzata in Europa è Vienna che ha iniziato a ragionare su questi temi agli inizi degli anni ’90. La figura fondamentale è Eva Kail, che è stata capo dell’ufficio pianificazione per oltre vent’anni e che ha iniziato a osservare la città e gli usi che ne venivano fatti. Ad esempio hanno iniziato a chiedersi per quale ragione le ragazze smettessero di frequentare i parchi una volta adolescenti. Da lì si è iniziato a capire l’importanza dei servizi igienici nello spazio pubblico, o la necessità di prevedere attrezzature che rispondano alle aspettative di tutte le persone. E poi a cascata tutta una serie di osservazioni: nella vita quotidiana le donne, o meglio chi si occupa dei lavori di cura e quindi principalmente le donne, tendono a utilizzare molto di più una mobilità dolce, che sia a piedi o i mezzi pubblici, proprio perché devono far fronte a una serie di carichi e responsabilità legate alla cura. Questo tipo di uso della città richiede una risposta specifica. Oggi Vienna è una città che ha oltre 60 progetti pilota di spazi pubblici pensati con un’ottica di genere, ha realizzato interventi urbanistici secondo i principi di gender mainstreaming, la prospettiva di genere è entrata con forza dentro la macchina amministrativa e informa tutte le politiche.
Sullo stesso solco ha iniziato a lavorare anche la città di Barcellona, a partire dal lavoro della sindaca Ada Colau, dal 2015. Anche se è un’esperienza più recente, stanno portando avanti l’agenda delle politiche di genere in maniera molto decisa. Per esempio, hanno istituito una direzione di gender mainstreaming che risponde direttamente alla sindaca. È una direzione trasversale attraverso la quale devono passare tutti gli assessorati e che per altro è da questi finanziata. Questo esempio fa ben capire che non si tratta di un ambito a sé stante ma di un elemento che qualsiasi politica pubblica deve affrontare. Noi stesse, avendo a che fare con Milano, stiamo cercando di avere un’interlocuzione con tutti gli assessorati. Non si tratta di creare un assessorato di genere ma sensibilizzare tutti gli assessorati, perché ciascuno possa fare qualcosa nell’ambito delle proprie competenze per andare incontro a questa visione.
E in Italia c’è consapevolezza di questo tema? C’è un dibattito?
F.A. – Un vero e proprio dibattito non c’è neanche a Milano. Inizia ad esserci da poco maggiore consapevolezza e la voglia di parlarne. La premessa è che questo lavoro non ci è stato commissionato, lo abbiamo proposto noi e l’amministrazione pubblica l’ha trovato interessante. Nei fatti ora a Milano non c’è questo tipo di logica, se ne sta parlando, poi vedremo se la città si vorrà fare pioniera di questa nuova modalità di intervento sulla città. Diciamo “pioniera” perché in Italia non c’è nessuna città che pensa in maniera strutturata in quest’ottica, nessuna città che ha effettivamente applicato il gender mainstreaming o la pianificazione di genere. Di recente si inizia perlomeno a discuterne, oltre a Milano anche la città di Bologna sembra dare segnali che fanno ben sperare. Certamente speriamo si riescano a produrre trasformazioni concrete.
A.M. – A complemento di questo c’è da dire che lo sguardo che proviamo a portare non è tanto quello della parità di genere, rispetto al quale invece il dibattito è molto più esteso; cerchiamo di guardare nello specifico alla città, di applicare quello sguardo alla pianificazione urbana. Un elemento complementare rispetto a quello della parità di genere.
Voi avete strutturato il libro in cinque temi preceduti da una premessa che affronta il tema dell’occupazione, perché proprio l’occupazione è una grande premessa introduttiva?
F.A. – La condizione del lavoro cambia tutti gli equilibri di una città, a partire dalla vita quotidiana delle donne. Lavorare o non lavorare mette la vita delle donne in una condizione di autonomia o non autonomia, di possibilità o meno di sviluppo delle proprie aspettative e di realizzazione di sé. Nel momento in cui una donna lavora per esempio ha più strumenti pratici per uscire da una situazione di violenza. Rispetto all’occupazione femminile Milano è completamente fuori da qualsiasi tipo di parametro rispetto al resto d’Italia, è una città in cui le donne lavorano, per cui dire questo prima di ogni altra cosa aiuta a capire perché Milano ha una condizione peculiare rispetto ad altre città. Ci riferiamo alla rottura degli schemi tradizionali ancora diffusi nel resto del paese, che vedono le donne a casa ed economicamente non autonome. Dai dati viene fuori però che c’è una disparità abbastanza evidente tra donne migranti e donne italiane. Anche questo per noi era importante da dire. Inoltre, sì, le donne lavorano, però è importante capire anche che cosa fanno, quanto guadagnano, e la risposta dipende tantissimo dall’estrazione sociale, dalla provenienza, dalle possibilità. Inoltre le donne rientrano nella sfera statistica delle “occupate” però poi molte lavorano quattro ore al giorno perché il resto del tempo devono occuparsi della famiglia. Quindi è una questione piuttosto complessa. Sicuramente le donne lavorano a Milano più che altrove intanto perché devono, perché uno stipendio non è sufficiente per sopravvivere, e poi perché ci sono dei servizi a supporto più che nel resto del paese.
Dei temi che affrontate nel libro, ce n’è uno che vi ha colpite, sorprese o costretto a discutere di più di altri?
F.A. – Il capitolo dedicato alle sex worker è molto interessante e allo stesso tempo difficile da affrontare perché i dati a supporto sono non sempre affidabili. Al momento il dibattito sembra essere estremamente polarizzato, chi sostiene che si tratti in ogni caso di sfruttamento e chi sostiene che almeno in parte possa essere un lavoro scelto liberamente, in un quadro di autodeterminazione di sé. Noi siamo convinte che la verità stia un po’ nel mezzo. Durante i nostri studi abbiamo assistito alla trasformazione profonda di questo mondo a causa delle nuove piattaforme internet e della pandemia che ha comportato uno spostamento dalla pratica in strada alla pratica al chiuso, oltre ad un cambiamento del paradigma della prostituzione. In generale è un tema molto poco affrontato, che tuttavia riguarda principalmente le donne e le soggettività non binarie, e in quanto tale incrocia il nostro interesse.
Qual è la relazione tra le questioni di genere che affrontate e la classe economica di appartenenza?
A.M. – Ci sono una serie di difficoltà, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, che noi tutte ci troviamo ad affrontare. Quello che cambia è la possibilità di risposta individuale. La questione di genere diventa in questo modo fortemente collegata alla classe economica di appartenenza. Più appartieni a una classe povera più il tema impatta su di te in maniera forte.
C’è un portato culturale tale per cui si riproducono degli schemi ancestrali che vedono comunque le donne in una posizione di dipendenza anche nei contesti agiati. Allo stesso modo la percezione di sicurezza non varia troppo a seconda della situazione di provenienza ma del luogo che si attraversa. Detto ciò, la possibilità di affrontare e risolvere alcune situazioni dipende dalle possibilità economiche.
Facciamo degli esempi. Nei fatti ci sono quartieri che sono più pericolosi, o se non altro percepiti come tali, e sono quelli in cui spesso vivono le persone meno abbienti. Se sei molto benestante, inoltre, a casa ci puoi tornare con il taxi. Diverso è prendere l’autobus alle 3 di notte: la paura potrebbe essere la stessa, le risposte cambiano.
L’Italia è un paese che si regge sulle possibilità personali, che non sono soltanto economiche. Se prendiamo il tema dei figli vediamo che le prime forme di welfare arrivano dalla famiglia d’origine; per chi non ha questa rete di supporto diventa quindi una questione economica, oltre che femminile. Perché sono loro che si occupano dei figli. Il lavoro della donna è molto spesso più rinunciabile rispetto a quello dell’uomo perché guadagnano di meno, lavorano meno ore. Non c’è su questo una tutela pubblica.
C’è un tema che ritenete più urgente di altri sul quale intervenire? Se poteste suggerire una cosa da cui cominciare, quale sarebbe?
F.A. – Intanto un congedo di paternità come in Spagna, obbligatorio e di lunga durata.
A.M. – A cascata direi anche la questione dei nidi, la risposta pubblica è insufficiente, non sappiamo se effettivamente il PNRR possa dare il via a una politica decisa su questo argomento. E ancora le forme del lavoro, pensiamo alle partite iva. Questo ha a che fare con la città di riflesso, se si parifica il ruolo della gestione genitoriale dei figli, tante cose conseguentemente cambiano, ad esempio il lavoro, come si diceva prima.
Cambia qualcosa se sono le donne a prendere decisioni politiche e di governo?
A.M. – Non è automatico che le donne decidano in favore delle donne; una donna ai vertici non significa automaticamente cambiamento, può succedere che non venga modificato nulla della struttura di potere (e lo vediamo chiaramente in questo momento storico in Italia). In altri casi è più probabile che una donna abbia presente le cose di cui stiamo parlando perché le ha vissute in prima persona e quindi ha uno sguardo più attento che poi traduce nella pratica, ma non è automatico.
F.A. – Non è un automatismo anche perché quando le donne arrivano al potere molto spesso vengono ascoltate comunque meno degli uomini e loro stesse si autolimitano perché introiettano il fatto di dover rispondere a un ruolo molto specifico, in maniera non necessariamente consapevole. Il modello della posizione di potere è fortemente strutturato e non è banalissimo per una donna metterlo in discussione e praticarlo in modo diverso.
C’è altro che volete aggiungere?
A.M. – Ci sarebbero tante altre cose di cui parlare, c’è il tema della sanità, del ruolo essenziale dei consultori che tuttavia sono sempre meno e meno laici, il tema dello spazio pubblico e della toponomastica, del linguaggio. Insomma gli argomenti sono appunto parecchi e c’è tanto da fare.
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