‘Fare città: noi sogniamo il silenzio,’ la guerra di Adriano Olivetti

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    Noi sogniamo il silenzio. Gli urbanisti hanno studiato e hanno riferito sul precinct, una vasta zona urbana bene isolata e senza arterie di scorrimento, diventata tranquilla, armoniosa. Ma taluni amministratori amano proclamarsi urbanisti, sebbene quando i loro figli si ammalano non li curino essi stessi, ma si affidino a chirurghi di chiara fama i quali ottengono spesso autentici miracoli: ma per molti gli urbanisti di chiara fama, i veri urbanisti, sono i nemici della città, uomini pericolosi che occorre ostacolare.


    Da Noi sogniamo il silenzio, Edizioni di Comunità, 2015 (prefazione di Vittorio Gregotti). Si tratta di parte discorso dell’ottobre 1956 pronunciato a Torino in occasione del VI Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e pubblicato integralmente con il titolo di Urbanistica e libertà locali in Città dell’uomo (Edizioni di Comunità, 2015)


    E non resta all’infelice città che ricorrere quando è ormai troppo tardi a clamorose e decorative lotte contro i rumori, a costosissimi sventramenti, all’uso indiscriminato, incontrollato e caotico dell’elemento verticale, i quali rimangono i sintomi più appariscenti di una concezione e di una strategia urbanistica errata.

    Noi italiani amiamo l’intelligenza e la cultura. Ma cultura e intelligenza avrebbero suggerito almeno l’imitazione. Avremmo potuto imitare Londra e Parigi, il loro grandioso piano di decentramento industriale in pieno corso di attuazione. Noi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, importato da oltreoceano un mostro grandioso, affascinante: il grattacielo, per consacrare una civiltà in transito, quella delle nostre metropoli del Nord.

    «La metropoli» ha scritto Frank Lloyd Wright nel suo aureo volumetto When Democracy Builds «si è tanto allontanata dalla scala umana che non è più un luogo dove si viva bene, si lavori bene e si possa andare tranquillamente al mercato. E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria metropolitana.

    Che fare? Qual è la responsabilità dell’urbanistica?

    L’ annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli imprevista. Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare era ugualmente imprevista. Può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia pigia urbano. Ma ora è soltanto istinto animale del gregge che lo tiene pigiato, dimentico dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individuo pensante.

    Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo manicomio commerciale, in compenso dei disagi della ristrettezza, della demoralizzante perdita di libertà, dell’avvilente degradazione di un più vasto senso dello spazio? Cosa riceve oltre lo stolto orgoglio di sacrificarsi al suo tempo, di pagare più tasse e di vedere un numero sempre maggiore di vigili ai crocicchi? […] Gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà e che vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’alienazione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente dalla natura.

    Nella millenaria civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Dio, perché la terra, l’acqua, l’aria esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma essa riguarda anche l’anima perché come un battesimo purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza continua del Dio vivente. Per questo, il mondo moderno avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche, vivendo nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motori e il disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco a una vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. […]

    Che fare? Qual è la responsabilità dell’urbanistica in questo quadro che è chiaro, che appare dalle cronache di ogni giorno sempre più tragico, anche al temperamento più ottimista? Noi dobbiamo risolutamente penetrare nella segreta dinamica della terza rivoluzione industriale e procedere con coraggio verso piani coraggiosi.

    Stiamo assistendo in Italia ad ampi fenomeni economici e tecnici positivi, i cui effetti nel campo materiale, culturale, spirituale potrebbero essere sterili, ovvero portare innanzi un nuovo tipo di civiltà nella misura in cui saremo capaci di comprendere i fenomeni più profondi e più sensibili che seguendo un disegno imperscrutabile condizionano l’umana grandezza e l’umana miseria.

    Un pericolo mortale ci sovrasta perché il mondo moderno, là dove la meccanizzazione ha preso il comando, può travolgere l’uomo vero, nel suo integrale valore. «Il numero di coloro che protestano, che mantengono la loro indipendenza morale e intellettuale contro coloro che vorrebbero subordinare e assoggettare il pensiero e ridurre l’anima, perché è dell’anima che si tratta, è fortunatamente in rapida ascesa». L’allarme è più vivo nel campo degli scrittori e degli artisti che precedono il cammino, inconsapevolmente più lento, dei politici.

    Richard Neutra, che combatte la nostra stessa battaglia e nel suo lavoro sociale ci ha dato uno dei più mirabili esempi di compiuta comunità, Channel Heights, scrive: «L’umanità si dirige precariamente verso l’eventuale sopravvivenza a bordo di una zattera ancora improvvisata, che spesso fa acqua: la pianificazione e la progettistica.

    Quali i dispositivi, le linee, i mezzi di una nuova politica?

    Al centro del problema che ora ci attende al varco, una volta presa la nostra vigorosa decisione contro le tentazioni della predestinazione o del caso sembra profilarsi la domanda: “Possiamo ben separare la domenica dai sei giorni feriali?”. Possiamo avere due tipi di condotta, due specie di progettazione, cioè una, in proporzioni nane, per gli usi del sabato e dedicata alla bellezza, agli ideali, alla bontà e alla verità; l’altra di vaste proporzioni e di stampo grossolano, per la supposta utilità pratica, impastata di bruttura, squallore e barbarie di nuovo conio, avallata dal consenso generale?

    In una comunità religiosa d’altri tempi, solo uno spregevole cinico avrebbe potuto formulare siffatta idea biforcuta dell’utilità contrapposta alla rettitudine. Subito sarebbe stato bollato di invasamento demoniaco; la sua utilità sarebbe stata riconosciuta come l’utilità dell’inferno (…)

    A onta del progresso tecnologico, o forse proprio a causa della sua irregolarità, il nostro ambiente di fattura umana ha manifestato una sinistra tendenza a sfuggire sempre più al nostro controllo. Più l’uomo si è allontanato dall’equilibrata integrazione con la natura, più il suo ambiente fisico si è fatto nocivo.

    Usura e rovina del sistema nervoso si sono moltiplicate nell’ambiente metropolitano: ce lo frammentano statistiche spaventevoli. Dalla carrozzella per bambini alla metropoli, il nostro ambiente di fabbricazione umana, zeppo di ritrovati tecnici, è divenuto lo stampo del nostro destino e una fonte di tensione nervosa inesauribile».

    Il paese può e deve essere indirizzato rapidamente verso soluzioni nuove, che ancora dieci anni orsono potevano sembrare utopistiche. Esse consistono in un rapido decentramento, che metta a disposizione della nostra vita sociale vasti territori agricoli, quasi ovunque disponibili, giacché stiamo assistendo ogni giorno all’esodo dai nostri monti e dalle nostre pianure.

    Quali i dispositivi, le linee, i mezzi di una nuova politica? Primo: l’utilizzazione ai fini del decentramento del grandioso programma di quartieri organici unificati. Secondo: coordinamento coerente del piano edilizio con un chiaro programma di decentramento industriale.

    All’uopo occorre che, armonicamente composte con le linee di comunicazione e a breve distanza dai nuovi quartieri organici, siano create le nuove zone industriali, secondo l’esempio ormai collaudato delle nuove città inglesi. Terzo: un massiccio sostanziale ingrandimento degli spazi destinati ai servizi sociali e culturali, sia nella progettazione urbanistica, sia nei bilanci dello Stato, delle province, dei comuni, delle industrie, dei privati.

    La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in cui è esaltato e protetto tutto ciò che serve alla cultura, e in una parola all’elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi. La marcia inesorabile verso il massimo profitto, salvo poche eccezioni, è ancora la regola più evidente della nostra economia.

    Ancor troppo denaro, lungi dall’esser indirizzato a necessità umane che gridano urgenza, è deviato verso investimenti che non arricchiscono la comunità nazionale. I moderni centri sociali, le scuole specializzate di arte applicata, le biblioteche di ogni grado, gli auditori, le scuole di musica, i luoghi di istruzione artistica e via dicendo sono ancora in tutto il paese visibilmente inadeguati nel numero e nella qualità.

    Lo scambio continuo fra la pratica e l’ideale sia dunque la regola

    Eppure rispondono a bisogni sempre più vivi nel nostro popolo, «bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica, bensì con la vita morale. Eppure sono terrestri come quegli altri sebbene non posseggano una relazione diretta, che sia accessibile alla nostra intelligenza, con il destino eterno dell’uomo. Sono tuttavia come i bisogni fisici, necessità della vita terrena.

    Cioè, se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa». Sono queste ultime, ancora, parole di Simone Weil, della quale va ricordato ancora un fervente messaggio da rimettere ai timidi e ai pessimisti affinché non ignorino che ogni sforzo, anche modesto, non sarà vano, purché nella giusta direzione: dare al nostro popolo i mezzi culturali affinché si esprimano le migliori intelligenze, i più nobili cuori. […]

    I nostri politici conoscono assai bene queste preziose sentenze; ma esse in pratica stentano ancora a penetrare nel mondo del denaro al quale ubbidiscono ancor ciecamente i tesorieri, gli amministratori, i saggi difensori dei bilanci e del loro pur necessario equilibrio. Essi nei loro calcoli ormai facilitati da cervelli elettronici non danno eccessivo valore a quei fermenti spirituali e culturali che potrebbero avviare il paese verso la sua vera rinascita. […]

    Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia. Si limita ad agire secondo il precetto che dice di non tralasciare, operando giorno per giorno in minuta fatica, la fede in altre più grandi e perfette realizzazioni, ma impone pure di non trascurare, per la fede in queste, l’obbligazione al quotidiano lavoro.

    Lo scambio continuo fra la pratica e l’ideale sia dunque la regola per la nostra condotta anche in questa fase. Studiando e sperimentando nel vivo corpo sociale, incontreremo sempre nuove difficoltà ma impareremo anche a valerci di nuovi strumenti e a perfezionarne l’uso.


    Prosegue la collaborazione tra Edizioni di Comunità e cheFare che ha l’obiettivo di divulgare il pensiero di Adriano Olivetti anche nel mondo dell’innovazione culturale italiana che molto deve alla pratica e alle teorie da lui elaborate

    Note