Gentrification: fermate il manovratore!

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    Diceva in televisione qualche anno fa il noto economista Luigi Zingales che «l’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono al livello, però ha un futuro enorme nel turismo». Si tratta di un noto mantra che è stato spesso utilizzato per smantellare investimenti in ricerca e sviluppo in settori industriali chiave, regalando competenze e ipotesi di sviluppo a paesi limitrofi e concorrenti. Non più tardi di qualche anno fa molti miopi attori politici italiani cedevano in sede europea quote di progetti scientifico-tecnologici in cambio di quote-latte, ad esempio, mentre è noto quel famoso ingegnere che riuscì a dilapidare un gigantesco bagaglio di competenze e know-how tecnologico in quel di Ivrea.

    Tutto questo per dire che la via italiana alla deindustrializzazione e al disinvestimento non è semplicemente legata alla difficoltà oggettiva di competere contro la produzione cinese o brasiliana (e i loro costi) ma che è anche frutto di un trentennio di politiche mancate, di politiche ahinoi effettuate e di mantra come quelli agitati da Zingales. La narrazione sul Bel Paese dalle infinite risorse paesaggistiche e culturali ha spesso agito da rinforzo a una seconda narrazione, quella del “brain-drain all’amatriciana” e secondo la quale, stante la prima narrazione, tanto vale riprendere la via dell’emigrazione e trovare fortuna là dove essa è “più” garantita. L’altrove meritocratico è un altrove urbano e combacia in maniera pressoché perfetta con le città in cui vi sono larghe comunità di italiani all’estero.

    È in questa prospettiva che leggo l’intervento “Libera Gentrification in libero Stato” di Luca Tricarico il quale, citando Smith, Harvey e la Treccani, dichiara di non voler accettare la critica sociale implicita (e molto spesso esplicita) tra gli studiosi di gentrification e secondo la quale le giovani leve del nuovo capitalismo dell’economia della cultura, giornalisticamente unificate nel concetto di “millennials”, sono responsabili dello stato di ricchezza iniqua e diseguale che caratterizza la metropoli contemporanea.

    Riassumo il nocciolo della questione in alcune righe: la grande crescita dell’economia del terziario nelle società occidentali e in quelle più “avanzate” è ancora più vorticosa nelle città, particolarmente le cosiddette “città globali”. A Londra, New York, Tokyo, Los Angeles o Sidney i mondi del cosiddetto FIRE (finance, insurance e real estate) attraggono investimenti e attività che, a loro volta, come un gorgo, si portano con sé economie parallele e ad esse integrate che richiedono forte competenze culturali certificate da titoli di studio globali e da patenti, spesso auto-attribuite, di creatività e capacità innovativa. Le nuove economie della cultura, che sono quelle dei media, della moda e del design, ma anche quelle più tradizionali dei mondi professionali, prosperano e si diffondono in questo tipo di città caratterizzandole per la loro funzione di “ascensore sociale globale”.

    Chiunque, a livello planetario, voglia fare il salto di passo e accreditarsi come professionista, imprenditore e attore culturale, creativo o innovatore, si sposta in queste città dove acquisisce ulteriori titoli di studio, esperienze professionali e patenti di cosmopolitismo che potrà utilizzare POI, quando cercherà di tornare nel paese che ha precedentemente abbandonato (perché corrotto, bloccato, immorale, rozzo e incivile) per aprire la propria attività e aiutare noi poveri reietti (che siamo rimasti) ad evolvere un po’. Molti, in realtà, non avranno alcuna voglia di tornare, perché assaggiata la dolce bevanda del merito se ne diventa spesso dipendenti (e lungi da me criticarli per ciò), ma il tipo di discorso che si sente tra le comunità di expats che vivono nelle città globali è spesso proprio questo.

    Fino a qui, nessun problema. I corrotti e incivili che rimangono al paese alzano ogni tanto gli occhi al cielo e poi vanno dalla mamma a farsi preparare un piatto di melanzane alla parmigiana per lenire lo stigma cui sono assoggettati.

    Il problema è invece per i rozzi, incivili e corrotti abitanti delle città globali di cui sopra, che vedono arrivare centinaia di migliaia di giovani istruiti e creativi (come nella canzone di Colapesce, “I barbari”), anno dopo anno, per cercare casa, stanza, lavoretti, ristoranti, caffè, parchi, biciclette, concerti e mille altre amenità sottraendole di fatto a chi era già lì.

    L’impatto immobiliare, in particolare, sulle città globali è impressionante e costringe i “nativi” a spostarsi in periferie sempre più periferiche e costose, mentre i millennials creativi dividono stanze in centro pagandole come suite di lusso nelle città cosiddette “ordinarie”. I quartieri si arricchiscono e rivivono, nel senso che i proprietari di casa assurgono a casta di rentiers postmoderni slegati completamente dai classici processi di produzione di valore, mentre il mondo degli affittuari si divide tra i non-creativi e non-millennial (una categoria residuale gigantesca che include anziani, adulti, immigrati, disoccupati, persone non istruite, etc…) e i creativi e millennial. Entrambe queste due categorie sono schiacciate dalla violenza del capitalismo globale, ma le prime subiscono lo stigma dell’età, della generazione, della classe, della provenienza geografica, razziale ed etnica, mentre le seconde, spesso vivendo di stenti e privazioni, “se la suonano e se la cantano” parlando di merito, di coraggio, di imprenditoria o altro.

    In giorni come questi, dopo il referendum consultivo che spinge l’UK fuori dall’UE, e dopo la furiosa richiesta di cambiamento che alcune aree non-centrali di alcune città italiane hanno espresso con il voto amministrativo, in questi giorni dicevo, suona particolarmente arrogante la richiesta di “libera gentrification in libero stato”. Siamo davvero sicuri che la mano invisibile del mercato globale garantisca risultati migliori? Possiamo realmente non mettere in relazione l’aumento della forbice tra salari con il tipo di economia di cui si nutrono le città in cui viviamo o sogniamo di vivere? E poi, è davvero un sogno quello di provare a galleggiare al centro del mondo, anziché lottare perché la periferia si tolga dalle secche in cui questo sistema la confina?

    Nessuno mette in discussione che vivere nel nordest di Londra, di Parigi, o in alcune parti di Brooklyn sia esaltante. Lo è. La questione però è un’altra: quali sono le condizioni strutturali che consentono ad alcuni di vivere in maniera così arricchente il rinnovamento di Bushwick, Belleville o Hackney mentre altri devono prendere mezzi pubblici de-finanziati (quando esistono) e farsi ore di pendolarismo per guadagnarsi da vivere con salari da fame? Tricarico conclude con questa richiesta esplicita: “Promuovere una sana competizione tra territori (senza per forza avere manie “neoliberaliste”), lavorare per superare la decadenza e rilanciare lo sviluppo, aiutare le persone a spostarsi in libertà, contribuendo al dinamico cambiamento nella composizione sociale dei quartieri”. Sembrano gli slogan di quel meraviglioso movimento politico che fu “Fare per fermare il Declino”.

    Ancora ci ricordiamo la fine che fece, tra master inventati e progetti politici risibili. La ragione di quel fallimento è, a mio modo di vedere, nel suo successo. La “sana competizione tra territori” è già qui, da decenni. Le città si rubano idee e fondi (pochi) con l’insano progetto di attirare i giovani che sono esaltati da Tricarico. Lo Stato viene smantellato giorno dopo giorno mentre ci riempiamo la bocca di smartness e altri balocchi.

    I risultati di tutto questo sono desolanti. I posti di lavoro generati sono troppo pochi e quando ci sono, come a Londra o New York, sono il contraltare delle disuguaglianze nei redditi e nelle occupazioni. La “libera gentrification in libero Stato” è già qui e genera corpi eccedenti, utili solo a riempire i centri commerciali delle cinture metropolitane. Eppure c’è chi chiede di lasciare ancora più libero il manovratore. Personalmente, al contrario, chiedo di fermarlo e continuo a stupirmi del fatto che in così pochi lo stiamo chiedendo. Eppure cresciamo, con forme, modi diversi e spesso bizzarri come testimoniato dalla cronaca politica di questi giorni.

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