Spiritualità come vantaggio competitivo

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    Siamo nel 2008, è il 15 gennaio e quasi nessuno sospetta ancora che quell’annus terribilis darà inizio alla nuova grande crisi. S&P Dow Jones Indices, in collaborazione con la società d’investimento statunitense Dharma Investments Ltd., lancia il Dow Jones Dharma Index, una famiglia di cinque indici di borsa (Stati Uniti, Regno Unito, India, Giappone e un indice globale) per la quotazione di società il cui operato risulti conforme ai criteri etici delle cosiddette “religioni dharmiche”, cioè in primo luogo induismo e buddhismo, target prioritari dell’operazione, ma potenzialmente anche jainismo e sikhismo.

    La definizione degli standard ha richiesto due anni di ricerche che coinvolgono non solo autorità religiose e spirituali, ma anche accademici delle istituzioni universitarie mondiali più prestigiose, tra cui la Harvard Divinity School, la Columbia University, la SOAS di Londra, l’Oxford Center for Hindu Studies, l’Oxford Center for Buddhist Studies, e l’Università di Yokohama.

    Il progetto – che prende a modello il Dow Jones Sharia Index, famiglia di indici di ispirazione islamica introdotta nel 1999 – prevede parametri etici di selezione delle società quotate piuttosto esigenti. Come ricorda Nitesh Gor, fondatore di Dharma Investments, nel suo libro dal titolo alquanto evocativo di The Dharma of Capitalism: A Guide to Mindful Decision Making in the Business of life, da un primo campione di 15.000 candidati la selezione si restringe a una rosa di poco più di 3.000 società quotate, con una capitalizzazione che nella sola India sfiora il miliardo di dollari.

    Alcuni criteri, ovvi sul piano della tradizione religiosa, comportano l’esclusione di interi settori come la produzione di armamenti o di alcolici e tabacco, l’allevamento di animali da macello, il gioco d’azzardo e l’intrattenimento per adulti. Ma restano fuori anche le multinazionali del farmaco, le società che praticano test sugli animali e quelle che producono o usano OGM. Tra i criteri di esclusione ha un peso dirimente anche l’impatto ambientale, dal consumo energetico alle emissioni e alla gestione di scorie e rifiuti. La valutazione si spinge poi a considerare il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, nonché la condotta sindacale e le condizioni di lavoro, inclusi i livelli di retribuzione. Davvero non poco per un indice di borsa.

    Nell’arco di soli tre anni, il Dow Jones Dharma Index delude ogni aspettativa e viene ritirato.

    Da un certo punto di vista, l’attuale ondata della mindfulness negli affari e della cosiddetta “corporate spirituality”, che ha portato tappetini per lo yoga e corsi di meditazione tra le scrivanie degli uffici di tutto il mondo, e non solo nelle multinazionali più attente all’immagine, si può considerare una risposta alle criticità del paradigma costituito da “business ethics” e CSR, che aveva già raggiunto il suo apice negli anni Novanta. I tanti casi acclarati di “social washing” hanno infatti ampiamente minato la credibilità di dichiarazioni di principio che poi, al primo scandalo o alla prima opportunità di delocalizzare, si sono rivelate nient’altro che astute operazioni di branding. In questo senso, si cerca di rimediare alla disaffezione e allo scetticismo degli impiegati, che vedono i codici etici sbandierati e poi rinnegati, con una nuova forma di coinvolgimento, che cerca di annettere la sfera più intima dell’individuo alla dimensione identitaria dell’impresa.

    Ma da un altro punto di vista la ragione è di ordine strettamente economico. Almeno sulla carta, infatti, la potenziale redditività di un simile investimento in quella che potremmo chiamare la “formazione spirituale del personale” sembra rilevante. È dimostrato che una pratica meditativa anche minima ma costante contribuisce a sviluppare doti di concentrazione, motivazione e creatività, aumenta la resilienza e riduce la conflittualità. Tutti valori desiderabili in un dipendente, con un’evidente ricaduta economica positiva piuttosto immediata. Un altro aspetto che va ora sempre più emergendo nella letteratura manageriale legata al tema della mindfulness sul lavoro riguarda il carattere esperienziale della pratica meditativa. L’esperienza spirituale di individui e gruppi di lavoro, cioè, è unica, irripetibile, letteralmente irriproducibile, il che sul piano economico della scarsità costituisce un fattore di creazione di valore paragonabile a quello dell’aura pre-tecnologica di un’opera d’arte. Ecco perché in ambito manageriale è ormai un luogo comune parlare di spiritualità come di un “vantaggio competitivo”.

    Com’è noto, però, uno dei fattori che hanno agevolato la diffusione delle pratiche di mindfulness e delle tecniche meditative è stata la sistematica eliminazione di ogni elemento confessionale e tradizionale. Nella sua versione tecnica e laica, infatti, la meditazione può essere proposta, senza creare imbarazzi culturali, come una tecnica del benessere e dell’efficacia.

    Qui si annida un paradosso cruciale. La sfera religiosa o anche genericamente culturale di appartenenza delle pratiche meditative che vengono ora utilizzate come semplici tecniche, infatti, è anche quella che indica con chiarezza linee guida e valori fondamentali sul piano dell’azione etica.  Unita alla razionalizzazione economica che incasella il training meditativo in un bilancio di costi e benefici, questa tecnicizzazione finisce dunque per produrre una totale separazione della sfera spirituale dell’individuo dalla dimensione morale del singolo e del gruppo.

    Consideriamo un esempio davvero macroscopico delle conseguenze di questa impostazione. AWARE (At Work As Responsible Employees), nato per iniziativa di un gruppo di impiegati della compagnia petrolifera Shell e iniziato nel 2006 con un piccolo laboratorio pilota, nell’arco degli ultimi dieci anni ha avuto una diffusione esponenziale in tutte le filiali della multinazionale e oltre, diventando uno dei programmi più ambiziosi di corporate spirituality su scala globale. Negli stessi anni in cui i quadri della compagnia imparavano a vincere lo stress con tecniche di respirazione ispirate allo yoga e a restare concentrati con la meditazione, la Shell si rendeva per esempio responsabile di numerosi disastri ambientali in Nigeria (i due più gravi nel 2008 e nel 2011), territorio che costituisce una delle maggiori riserve petrolifere al mondo, dove la popolazione è per oltre il 70% al di sotto della soglia di povertà, dove la compagnia ha pagato l’esercito per reprimere nel sangue le rivolte degli Ongoni e dove, come rivelato da Wikileaks, ha piazzato diversi uomini di fiducia al governo.

    Un pregio dell’elaborazione teorica che aveva sotteso la creazione del Dow Jones Dharma Index stava nell’aver messo in chiaro il punto fondamentale della coerenza tra la pratica spirituale degli individui e la dimensione etica della compagnia. Il fallimento del progetto induce però a chiedersi: ha senso credere che il “modo di produzione” sia indifferente? Che questa coerenza possa essere compatibile con una trasformazione dell’economia di mercato capitalista e del suo sistema finanziario, che ne lasci però intatti i presupposti teorici e culturali fondamentali?

    Note