Lavoro, forza!

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    Sulla soglia di quella che si preannuncia essere la campagna elettorale più rivoltante degli ultimi decenni (e forse più), un tema resta centrale come un monolite nel discorso pubblico, al bar come su Facebook, in televisione come a cena in famiglia o con gli amici: il lavoro. Quello che non c’è, quello che c’è ma non si vede, quello precario, quello intrappolato nelle pieghe delle riforme e delle leggi “che ci chiede l’Europa”, ormai ridotta da ideale di progresso a scudo umano dei governi locali e dei loro interessi elettorali. Tra uno sbraito e l’altro, in quest’epoca di populismo da voltastomaco, il lavoro rimane uno strumento di generica chiamata alle armi per la politica. Al punto che la parola stessa, “lavoro”, è ormai diventata un significante vuoto. (Se girate per la Lombardia troverete, ad esempio, un candidato governatore che descrive la sua proposta politica come “Lavoro, lavoro, lavoro”. Così, semplicemente.) Si dice “lavoro” perché dicendolo non si sbaglia mai – ma in realtà non si dice niente. In fondo, non si può essere contro il lavoro. Il lavoro è diventato un significante per tutte le stagioni, soprattutto quelle di crisi. Ma che vuol dire lavoro, oggi?

    È da non molto sugli scaffali il nuovo libro di Roberto Ciccarelli, giornalista e scrittore per numerose testate, voce critica sul tema del lavoro nel dibattito contemporaneo italiano, autore in passato (con Giuseppe Allegri) di un importante libro sui freelance e la precarietà, intitolato “Il Quinto Stato” (Ponte alle Grazie, 2013). L’ultima fatica di Ciccarelli si intitola Forza Lavoro (DeriveApprodi, 2018) e presenta una ricca narrazione della condizione contemporanea del lavoro e delle sue trasformazioni nell’avanzare inarrestabile del capitalismo digitale.

    Ciccarelli ci racconta, demitizzandole e rendendole intellegibili, le molteplici facce del lavoro digitale, dalla retorica sull’automazione alla crescita del lavoro regolato dagli algoritmi, la cosiddetta gig economy degli Uber e Deliveroo, fino ai freelance e alle start up con le loro contraddizioni. Ci presenta i molteplici modi in cui la vita viene messa a valore ed il ruolo delle piattaforme digitali in questi processi, quando un’entità invisibile diventa intermediario e datore di lavoro allo stesso tempo.

    Ci descrive il presente del lavoro e la sua complessità, un presente in realtà completamente assente dal dibattito pubblico perché erroneamente ritenuto futuro, mentre i cambiamenti raccontati in questo libro in realtà sono ormai sotto ai nostri occhi e non sono certo qui di passaggio. Mentre noi (e la politica con noi) troppo spesso li osserviamo come fossero un brutto episodio di Black Mirror – magari uno nel quale i lavoratori sono costretti ad indossare un braccialetto elettronico per monitorarne la produttività. Un episodio che a un certo punto finisce. E riapriranno le fabbriche, e tornerà il posto fisso e tutto sarà stato solo un brutto sogno.

    Il libro di Ciccarelli riporta sul piano del reale questi fenomeni, e chi avrà la pazienza di leggerlo fino in fondo acquisirà ulteriore consapevolezza della trasformazione in atto e del fatto che, in un modo o nell’altro, poco o niente tornerà come prima. Nello specifico dei suoi contenuti, il libro ha due grandi meriti, ed un punto debole (sia inteso, quest’ultimo, come critica costruttiva ad un lavoro meritorio).

    Il primo merito è il cercare di riportare la discussione sul piano del lavoro digitale in quanto lavoro, e non già semplicemente in quanto digitale. Qui sta la chiave di lettura principale del libro, che si nasconde dietro il “forza” contenuto nel titolo, ed è un punto fondamentale. Osservare il lavoro digitale in quanto lavoro significa chiedersi non solo e non tanto se i rider di Deliveroo, per esempio, sono lavoratori dipendenti o freelance, ma quali sono le caratteristiche specifiche del loro lavoro, cosa viene messo a valore, chi ci guadagna, come, e quali strutture ne condizionano o determinano lo svolgimento. Significa, ancora, non parlare di lavoro a chiamata in quanto nicchia minoritaria (e in qualche modo insignificante) di un ben più complesso e in qualche modo generico problema percepito come irrisolvibile (ad esempio, la disoccupazione).

    Al contrario, significa bensì inquadrare la crescita di queste forme di lavoro come parte di una trasformazione più grande e conferire legittimazione piena nel dibattito a pratiche di lavoro che non sono più atipiche quindi meno importanti (e da un pezzo!) bensì materia di confronto quotidiano per sempre più lavoratori (e non solo: si pensi ai consumatori di queste app, e quanto sarebbe utile avviare un dibattito sul consumo critico e consapevole di Uber o Deliveroo in relazione alle condizioni di lavoro che vi stanno dietro.

    Se ci scandalizziamo per gli abusi delle multinazionali, perchè per la gig economy ci si scandalizza solamente della sua estrema precarietà?). La forza lavoro, argomenta Ciccarelli, è assente dal discorso ma non è scomparsa. Non si vede, intrappolata in quello che l’autore descrive come il paradosso fra il rapporto soggettivo con il lavoro che si ingenera nel momento in cui si vincola il lavoro ad un’opera d’arte o all’Impresa, con la I maiuscola – e il lavoro concreto, alla maniera marxiana del labour come fatica. Con il lavoratore al centro, confuso e (in)felice.

    Il secondo merito è quello di offrire un ricco resoconto storiografico sul lavoro oggi, che attinge dal lavoro come era ieri. A volte tendiamo a dimenticarci di quella che è la scala della trasformazione in atto, ora che le tecnologie digitali (in senso ampio, non solo e non tanto i social media) sono ormai dentro il lavoro in maniera capillare. Il libro ne ripercorre le tappe e gli antecedenti (come la storia del freelance, o del Turco Meccanico), ed è opera necessaria perché utile a comprendere l’evoluzione del fenomeno nella figura grande delle trasformazioni del capitalismo. Solo così è possibile porre in essere una critica che metta a fuoco i problemi in modo efficace, e non ridotta semplicemente al piano del discorsivo.

    Dall’altro lato, il punto debole di questo libro è che talvolta sembra in qualche modo sottovalutare l’eterogeneità dei fenomeni osservati. Quando si parla di lavoro digitale infatti si parla, come il libro stesso evidenzia molto bene, di fenomeni che sono spesso molto diversi tra loro e, sebbene sotto lo stesso ombrello, non necessariamente coerenti. Restando nella dimensione generale condivisa, il lavoro in qualche modo induce ad una discussione dove talvolta le specificità delle singole pratiche vengono perse nel flusso, con qualche rischio di fraintendimento. Ad esempio, si veda la discussione sulla sharing economy. Ciccarelli propone un’interpretazione tipologica che mette nello stesso calderone app come Uber e Deliveroo insieme con una piattaforma come Airbnb, dove al contrario il lavoro non è direttamente allocato dalla piattaforma, e il consumo sulla base dell’accesso non instaura una relazione diretta di lavoro tra il lavoratore ed il “boss invisibile”.

    Resta, tuttavia, la ricchezza di un contributo che offre una lettura fenomenologica importante su uno dei temi del momento. Da qui ai prossimi anni leggeremo numerose tipologie che cercano di categorizzare il lavoro on-demand, la sharing economy e le sue ramificazioni, ognuna con le sue specificità. La mappatura che offre questo libro è, e sarà, molto utile per orientarsi e capire meglio le trasformazioni del lavoro e la loro complessità.


    Immagine di copertina: ph. Matt Artz da Unsplash

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