Sostenibilità, la coscienza delle relazioni. Distribuire il potere

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    Esce in questi giorni il secondo volume di Relazioni: il futuro non è scritto, il libro periodico edito da Luca Sossella editore. Il titolo di questa uscita è Sostenibilità, la coscienza delle relazioni, e affronta il nodo della crisi ambientale mostrando le sue implicazioni economiche, politiche, culturali, sociali ed esistenziali. 

    Del resto, seppure le evidenze scientifiche esistessero da tempo, la crisi climatica si è avverata quando un pezzo di mondo occidentale ha cominciato a mettere in dubbio la sostenibilità della propria esistenza, individuale e collettiva. Vita, lavoro, consumi, relazioni con l’ambiente; ma anche identità, affetti, modi di esprimersi: tutto a un certo punto è sembrato sfinente, per sé, per gli altri, per il pianeta. Il ripensamento fa vacillare i paradigmi, i perimetri e le abitudini: appare evidente che il mondo è da rifare alla radice, e presto. 

    Sì, ma come? Rallentare, fermarsi, smettere, ricominciare e riequilibrare, come nel 2050 immaginato da Fritjof Capra e Hazel Henderson, in cui il pianeta ritrova l’ordine armonico che in origine lo ha sottratto al caos? Oppure accelerare, insistere, inventare, progettare, slanciarsi in avanti, prolungando la storia evolutiva della specie homo, la sua potenza sempre tecnologica, come nella visione di Roberto Siagri?

    Ritrovare un equilibrio tra i vari momenti dell’esistenza, ora colonizzati dal lavoro e dal consumo, come suggerisce Gianfranco Marrone intervistato da Gian Piero Jacobelli, per cui la sostenibilità è un problema intersoggettivo che non riguarda solo i soggetti umani. E se è vero che la landa più insostenibile, la terra più devastata sembra essere la nostra mente, la nostra vita interiore, occorre, secondo Piero Cipriano, innanzitutto evadere dal manicomio diffuso che persiste, fatto di chimica e strutture di contenzione. Quindi constatare il fallimento del progetto della modernità, che nel risolvere le sue contraddizioni continua ad accumulare scorie materiali e intellettuali, nella visione di Raffaele Alberto Ventura. E infine tornare a credere nella potenza trasformativa dell’immaginazione, come suggerisce Carla Benedetti. Non aveva forse il poeta Ovidio, nella storia di Erisìctone, immaginato il nostro mondo divorato dalla sua stessa fame, duemila anni fa?

    Oltre a quelli già citati il volume include contributi di Carlo Alberto Pratesi, Fabio Bozzato, Adriano Cancellieri, Gabriele Drago, Flaviano Zandonai, Giuseppe Imbrogno e Nicola Basile, Dario De Marco, Andrea Mondello, Luca Sossella, Gian Piero Jacobelli, Edo Ronchi, Rosa Filippini, Tommaso Franci, Lorenza Lei, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, Carlo Corazza, Paolo Gervasi, Guido Vitiello, Elisabetta Gola, Mario Pireddu; una graphic novel di Vincino e un racconto di Paolo Di Paolo.

    Pubblichiamo di seguito una versione ridotta dell’articolo di Giuseppe Imbrogno e Nicola Basile, tratto dalla serie di contributi che Relazioni ha ideato in collaborazione con cheFare. 

     

    Non vogliamo essere fraintesi. Rispetto alle due principali modalità con cui oggi negli ultimi anni il Terzo Settore “ha fatto politica” (interlocuzione istituzionale con soggetti pubblici e del Terzo Settore e crescita e sostegno a proprie persone di riferimento per l’ingresso nelle istituzioni stesse, quest’ultima corrisponde di fatto all’ ‘invito’ di Amato) non si intende qui essere eccessivamente critici, né suggerire che queste strade vadano del tutto abbandonate. Il punto è che però queste due modalità non sono più sufficienti. Non lo è la prima, soprattutto, come abbiamo visto, se si partecipa ai tavoli con il solo obiettivo di portarsi a casa qualcosa, non lo è la seconda anche solo se si guarda a come, quasi strutturalmente, una volta ‘entrati in politica’, si cambiano velocemente ipotesi e priorità.

    Piuttosto, se vogliamo guardare alla nostra storia, è più convincente riprendere quel ‘fare politica’ come ‘essere soggetti politici’ che possiamo identificare come quel lungo e ricco periodo che si avvia dalla seconda metà degli Anni ’70 (nascita SSN e Legge Basaglia sono del ’78) e si conclude, di fatto, con l’inizio dei ’90 (Legge 381/91 sulle cooperative sociali).  Certo, come detto, non si tratta di un ingenuo ritorno al passato: sono passati quarant’anni e le condizioni sociali ed economiche sono assai diverse da allora. Non possiamo pensare a una semplice riproposizione di modelli e approcci che anzi, come vedremo in conclusione, rischiano, se non riattualizzati, di ottenere l’opposto di quanto ci si prefigge. E allora, che fare? Proviamo a tracciare quattro ipotesi.

    Re-istituire (anche) le istituzioni

    Come anticipato, c’è da sperare che si possa affrontare il tempo post pandemico finalmente liberi da deliri di autosufficienza e dal folle pensiero per cui il “ritiro” del pubblico sia in fondo occasione di maggiore spazio/mercato per il privato sociale. Detto altrimenti, c’è da sperare, anche grazie alla “stagione della coprogettazione” attualmente in corso, che si sia finalmente tutti consapevoli del fatto che la condizione necessaria e non sufficiente per un terzo settore “forte” sia quella di un pubblico altrettanto “forte”, non solo e non tanto come soggetti/enti, ma come politiche pubbliche, servizi pubblici, interventi pubblici, responsabilità pubbliche, interesse pubblico (criterio di valutazione che sembra sempre meno rilevante nelle valutazioni progettuali). Come scritto altrove, costruire piattaforme di abilitazione significa attivare questo processo di re-istituzione reciproca e intermediazione sociale, in decisa alternativa e, diciamolo, conflitto sia con la brutale disintermediazione che ha caratterizzato questi anni sia con alcune recenti tendenze che, pur utilizzando concetti di per sé positivi come quello di “bene comune”, finiscono per favorire approcci e appropriazioni privatistiche dello spazio pubblico. 

    In questo senso i processi di co-programmazione e co-progettazione – che prima il Codice del Terzo Settore, poi la sentenza 191 della Corte Costituzionale hanno rilanciato – possono essere, se debitamente interpretate, un’occasione. È però importante che gli ets non la interpretino come una modalità di lobbying territoriale (atteggiamenti che hanno di fatto disinnescato le potenzialità della L.328/00) e che l’ente pubblico non la usi per diminuire i costi dei propri servizi o, peggio ancora, per utilizzare la libera iniziativa dei cittadini per supplire rispetto a compiti, responsabilità, servizi che gli sono propri.  

    Non più reti ma coalizioni

    Come abbiamo visto, durante l’emergenza epidemiologica le reti territoriali di prossimità (cittadine, di quartiere) sono state spesso fondamentali nel supportare le persone, in particolare le più fragili, sia rispetto ai bisogni primari sia rispetto a situazioni più complesse (isolamento/separazione, difficoltà emotive, chiusura scuole e altri servizi, etc.). Oggi queste microreti continuano la loro importante azione sociale e nel post pandemico non ci sono motivi per pensare che questo si vada a modificare, sebbene resti il tema, sopra accennato, di un diverso rapporto con le istituzioni locali. 

    Resta il fatto che sono state le reti più ampie e formalizzate a mostrare i propri limiti e anche in questo caso, in fondo, il covid19 non ha fatto che evidenziare una consapevolezza assai diffusa e che tuttavia si fatica a rendere esplicita e affrontare: una rete estesa, in cui anche tutti gli interessi siano ben rappresentati, ma che fatica a identificare poche chiare questioni comuni e priorità da tutti condivise è oggi un dispositivo destinato a segnare il passo. Forse oggi e sempre più nel futuro (guardando anche a recenti casi di successo come l’Alleanza contro la Povertà o il Forum Non Autosufficienza), le reti devono cedere il passo a coalizioni, ovvero sistemi anche molto ampi e non certo esclusivi, ma in cui siano fortemente esplicitati i problemi sociali che si intendono affrontare, gli obiettivi e i risultati attesi. Dispositivi, dunque, in cui il carattere di ‘accordo temporaneo fra le parti’ non comporta debolezza o fragilità, ma anzi, al contrario, impellenza e dinamismo nel perseguimento e realizzazione del proprio compito trasformativo e nella consapevolezza del proprio ruolo politico.

    Co-definire l’agenda

    Il primo compito di una coalizione siffatta è quello di porre all’attenzione della società civile e delle istituzioni alcuni temi che, come anticipato, non sono parziali (‘di parte’), ma rispondono e accolgono tutte le complessità e soggettualità del nostro tempo. La coalizione ha quindi in primis una funzione creatrice o quanto meno maieutica/rivelatrice, perché non si muove nel campo della tattica e della combinazione-ricombinazione di elementi dati (ovvero della ricerca della risposta più efficiente ed efficace a problemi “già forniti”, tendenzialmente da altri), ma è produttrice di questioni e temi rilevanti intorno ai quali, appunto, come coalizione si costituisce e anima e motiva i diversi soggetti, le organizzazioni, i cittadini. 

    Le coalizioni sono quindi disruptive perché rifiutano di essere semplici strumenti di risoluzione di problemi prodotti da altri, piuttosto, nel “risolverli” trasformano questi problemi (dal contrasto di una pandemia, ad esempio, alla questione della promozione della salute e della messa in sicurezza di un territorio, dal reattivo al preventivo), scompaginano il campo esistente, aprono nuove possibilità, concorrono a costruire il futuro welfare. In questo sta uno dei punti di contatto maggiori con il passato sopra richiamato, anni in cui, appunto, si è inventata la cooperazione sociale come risposta a questioni (ad esempio quella del diritto dei soggetti disabili a ‘uscire di casa’, ‘essere visti e riconosciuti come cittadini’) che, di fatto, in termini pubblici e istituzionali prima non esistevano o, comunque, non appartenevano ad alcuna agenda. 

    La nostra responsabilità: co-produrre e distribuire potere

    Imporre questioni non è sufficiente se, appunto, si limita a essere un processo rivolto a cittadini e comunità relegate in una posizione passiva, indifferente, impotente. Nella riattualizzazione del nostro passato non c’è soltanto la politicità dei temi, ma anche e soprattutto quella dei soggetti e del loro potere (poter uscire di casa/dal manicomio, poter studiare, lavorare, migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche). Anche al costo di urtare qualche sensibilità: il tema del potere ci sembra oggi debba trovare una nuova centralità nella nostra azione sociale perché fortissimo il rischio che, tutti presi dall’approccio del servizio più adeguato/innovativo, lo si stia se non dimenticando, ma in parte travisando. 

    Un cinquantenne che viene da anni di informalità e a cui troviamo un lavoro sì formalizzato, ma che non modifica in nulla le proprie condizioni sociali ed economiche, anzi in parte le peggiora, è davvero un soggetto con maggiore potere? Un anziano a cui offriamo un servizio estremamente sofisticato ma che su quel servizio non ha alcuna voce in capitolo è un soggetto con maggior potere? Una giovane a cui troviamo uno stage che non consente di mantenersi e in un campo che nulla ha a che vedere con le proprie competenze e inclinazioni è un soggetto con maggior potere? Un gruppo di cittadini che viene aiutato a riportare a utilizzo uno spazio verde prima abbandonato ma che allo stesso tempo considera il voto amministrativo o il dialogo con altre associazioni un esercizio inutile è un soggetto con maggior potere? Sono queste domande che, anche e soprattutto nel difficile tempo che ci accingiamo ad attraversare, ci sembrano centrali per dare senso e rilevanza al nostro agire. 

    Conclusioni

    Siamo partiti dalla drammatica esperienza pandemica in cui abbiamo dovuto fare i conti con sentimenti e vissuti di impotenza individuale, collettiva, organizzativa per identificare la vocazione presente e futura del nostro settore e organizzazioni, la nostra responsabilità politica, proprio nella produzione e condivisione di nuovo potere sociale (che essendo già prodotto in modo condiviso, non deve essere distribuito in un momento successivo e quindi non rischia di produrre disuguaglianza, anzi, per sua essenza, la riduce). Il perseguire questo obiettivo ci consente di rispondere pienamente alla nostra ragione sociale, creare le condizioni per il nostro futuro agire ed esistere e, si badi bene, evita una nostra corresponsabilità con i preoccupanti processi che oggi vediamo attraversare le nostre comunità. Dobbiamo infatti sempre ricordare a noi stessi che chiedere ai cittadini, come noi spesso facciamo, partecipazione, impegno, contributo senza che a questo si associ una importante produzione e ridistribuzione di nuovo potere, rischia di creare due effetti deteriori: da una parte si sta infatti confermando lo status quo e venendo meno alla propria mission trasformatrice, dall’altra, “sprecando” le energie generosamente messe a disposizione dai cittadini, anzi utilizzandole e consumandole per “non cambiare niente”, si sta di fatto concorrendo a produrre delusione, frustrazione, ulteriore rabbia sociale. È dunque questa la possibilità e l’unica strategia che il tempo post pandemico apre al terzo settore: essere fino in fondo soggetti di produzione condivisa (e dunque distributiva) di nuovo potere. Tutte le altre ipotesi, se nel breve possono consentire delle tattiche di sopravvivenza organizzativa, erodendo al contempo le condizioni sociali favorevoli alla nostra presenza (disuguaglianza invece che equità, sofferenza invece di benessere, intolleranza e conflitto invece che fiducia), di fatto condannano il terzo settore, nel medio e lungo periodo, all’irrilevanza pubblica e politica e, perché no, alla propria scomparsa.

    Note