Funzionalità dei social nel mondo simulato

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    Perché il mondo simulato (di cui l’Italia è un avanguardistico laboratorio a tutti i livelli) si perpetui quotidianamente senza pause e senza essere messo in discussione, è condizione necessaria l’esistenza di un prisma riflettente dalle facce infinite che irradi l’ologramma della realtà in ogni direzione, senza sosta. Lo scopo di questo prisma riflettente, è triplice: 1) restituire in forma elettronica un’immagine del mondo assolutistica quanto frammentaria (di modo che tutto sia indecidibile), 2) confermare attraverso il postulato-piede di porco della libertà d’espressione simulata in fieri, l’esistenza di una democrazia efficiente, 3) innescare l’abitudine a un depistaggio volontario, che sposti l’attenzione collettiva dai pochi e decisivi centri d’azione dove si svolgono i processi decisionali che coinvolgono tutti verso un numero infinito di informazioni.

    Cittadino individuo è tutto davanti a te, la tua finestra sul mondo e la possibilità infinita di esprimerti: sei libero, quindi fruiscine.

    Prima dei social network tale funzione di depistaggio era riservata soprattutto ai media tradizionali e ai servizi segreti, ed era faticosa. La centralizzazione dell’informazione e la sua scarsità, al pari del modello unidirezionale di fruizione e l’accrescimento culturale con base ideologica alla base del confronto di classe del dopoguerra, la rendevano estremamente complicata, spesso dolorosa.

    L’arrivo dei social network ha comportato un enorme salto di qualità ed efficienza nel principio di simulazione, rendendolo astratto, fornendo la patina coibentante di una rappresentazione elettronica del reale praticamente ininterrotta, e sciogliendo le briglie a una forma di simulazione collettiva dal basso che non doveva essere più soltanto creduta, ma con cui è possibile interagire. Cittadino individuo è tutto davanti a te, la tua finestra sul mondo e la possibilità infinita di esprimerti: sei libero, quindi fruiscine. Questa è l’offerta. Ma è del tutto evidente che la possibilità di esprimersi indiscriminata conduce all’eccesso, al frastuono, cioè il luogo dove scompaiono suoni e quindi informazioni.

    Ed è quindi del tutto evidente che si tratti di una libertà d’espressione (facile sinestesia del concetto di democrazia) simulata, perché obbediente solo a un criterio quantitativo, che oltretutto è quantitativo in tutti i suoi momenti: nel momento produttivo, con la quantità pressoché infinita di temi pubblici su cui è possibile esprimersi, e nel momento ricettivo, con il feedback dei Like, che ottiene lo scopo ironico di simulare anche un altro polo valoriale condiviso: il criterio meritocratico, anch’esso simulato perché, al solito, solo quantitativo.

    Si potrebbe, si dovrebbe, prima o poi entrare nel merito e indagare come il modello di relazione reciproca, la fenomenologia dei comportamenti e lo schema di partecipazione alla realtà tipici dei social siano sotto molti aspetti un’emanazione più o meno diretta dell’ideologia di mercato. Si dovrebbe, dico di più, riscrivere un’intera teoria sociale che rilegga l’architettura delle società avanzate sulla base dei cambiamenti tecnologici e della nuova centralità del censo come nuovo epicentro ed elemento costitutivo.

    Il criterio quantitativo, d’accumulazione è molto più che un sintomo. È un agente, un vettore attivo che detta abitudini comportamentali.

    Ma in questo momento, in relazione all’attualità che proviene dai social stessi e che sposta sotto i riflettori le criticità, è più importante ed immediato individuare alcuni meccanismi interazionali tra gli individui e il mezzo che diventano a tutti gli effetti schemi psichici funzionali al perpetuarsi del mondo simulato.

    Una premessa: spostare l’attenzione dell’analisi sui meccanismi di funzionamento che producono i comportamenti tralasciando i comportamenti, cioè i sintomi, è ormai una pratica di civiltà per chiunque voglia esprimersi nel dibattito pubblico. È fondamentale infatti scardinare il solito criterio quantitativo, il cui effetto è equiparare tutto, annullare i valori, azzerare il senso.

    Il criterio quantitativo, d’accumulazione (e torna in gioco ancora la metafisica del denaro), infatti, è molto più che un sintomo. È un agente, un vettore attivo che detta abitudini comportamentali. Come avevano capito perfettamente Benjamin e McLuhan, la tecnologia cambia la coscienza. Arriva la ruota, e l’uomo non è più lo stesso. Arriva la polvere da sparo e l’uomo non è più lo stesso. Arriva la realtà virtuale e l’uomo non è più lo stesso.

    Ne La persuasione e la rettorica, Carlo Michelstaedter, e siamo ai primi del 900, descrive alla perfezione il ruolo della volontà, della coscienza identitaria e della parzialità dell’esperienza nella nostra elaborazione delle credenze sul mondo. Stessa capacità intuitiva, si ritrova nell’intercettare il rapporto uomo realtà, che avviene attraverso il mezzo della rappresentazione: “Ogni attimo della sua vita l’uomo viene in contatto con una parte della realtà (…), ogni età, ogni generazione, ogni secolo, ogni civiltà, viene in contatto solamente con una parte”. O ancora, su quanto l’esperienza sia volubile: “Qual è l’odore dell’arrosto? Il buono, il caro, che ogni altro odore vince, quale mi spira incontro s’io cerchi invano il pane o quello del pezzo d’arrosto che avanza alla mia tavola?

    Immaginiamo allora quale centuplicazione di fallacia e di superficialità possa concorrere nel riflesso pavloviano di esprimersi su tutto lo scibile, con la stessa identica parzialità, soggettività, immediatezza su temi leggeri, ludici, o che implichino qualsiasi forma di serietà o ancora che indossino qualsiasi maschera di rilevanza collettiva. Di base, il comportamento che genera le azioni, il modus operandi espressivo dei social non cambia. Intendiamoci, non si vuole demonizzare il mezzo, che ha molte utilità e permette di aspetti ludici leggeri del tutto innocenti, e che anzi, proprio nel suo uso impegnato convoglia tutti i suoi aspetti più nocivi. Così, che si parli dell’ultimo look della Bignardi o del suicidio di una donna divenuta protagonista di un video “virale”, non fa alcuna differenza.

    Tutto avviene nell’immediatezza, sempre in posa, auto collocandosi in qualche prospettiva di sguardo vicina all’emotività del momento o del personaggio che si porta avanti, secondo un ventaglio di possibilità. Ognuno, dunque, metterà in scena la propria rappresentazione più o meno brillante, emotiva, sentimentale fino all’esaurimento di tutte le intenzioni concepibili, dalla stupidità al brillantismo, dai prolassi apocalittici (siamo tutti colpevoli o siamo tutti vittime) a cinismo. Il tutto in attesa sommessa del successivo stimolo a cui rispondere, in una escalation progressiva e bulimica che avrà la doppia funzione di appagare il nuovo desiderio espressivo, e, per fortuna (questa l’intelligenza ironica del male che vi è a monte di tutto il procedimento), di far precipitare il vecchio nella placida oscurità dell’oblio, nella somma 0.

    La possibilità di non possedere elementi a sufficienza per esprimersi non è mai contemplata in chi partecipa al rito. Tutto è ridotto a pura evacuazione nella cloaca, in una forbice di possibilità auto-esauriente, che contempla anche l’estrema e schizoide rivendicazione di non parlare di qualcosa mentre in contemporanea se ne sta parlando, o l’altrettanto estrema auto-colpevolizzazione per averne parlato, mentre si continua a farlo. Pura schizofrenia.

    Sono molteplici i modi i cui l’innovazione tecnologica corrode alla base il tradizionale rapporto tra uomo e percezione della realtà. Scompare il minimo principio di realtà del proprio collocarsi nello spazio tempo. Ci si esprime come se si parlasse al mondo intero, da un ideale palco. E si perde il senso di responsabilità, di cui il meccanismo già evocato del tutti vittime tutti colpevoli è diretta emanazione. Nei social per lo più è praticamente annientato, perché la mediazione dello schermo è bidirezionale.

    Il cyber bullismo è soprattutto tendenza alla semplificazione a annullamento del senso di responsabilità

    Qualsiasi azione sembra priva di conseguenze dirette, è decodificata come virtuale e reale al tempo stesso, e questo è facilmente constatabile nell’aggressività endemica al meccanismo dello scambio di opinioni. Cambia inevitabilmente anche il piano del proprio investimento emotivo sul fatto stesso di esprimersi, e vengono meno gli stessi stimoli inibitori a mettersi in gioco con il proprio pensiero che invece si riscontrano nei dibattiti vis-à-vis. Ancora, si riduce la stessa capacità di cogliere l’ambiguità e la difficoltà intrinseca che produce gli avvenimenti del reale, che avvengono in un intervallo spazio temporale lungo e indefinito, e che nel tempo sincronico in cui accadono sono prodotti da infiniti congiunzioni di forze spesso invisibili, che si volatilizzano nelle tre righe di un ansa o di qualche articolo dalle fonti indefinite. È chiaro allora come il cosiddetto cyber-bullismo non sia soltanto l’insulto gratuito e momentaneo, perché quella è la forma più esteriore.

    Nella sua forma più sottile ed invisibile, e dunque perniciosa, il cyber bullismo è soprattutto tendenza alla semplificazione a annullamento del senso di responsabilità. E dispiace davvero tanto che spesso siano proprio gli operatori culturali o i cosiddetti influencer (peraltro tali per il discutibile criterio quantitativo citato sopra) i più costanti interpreti di queste criticità: tali comportamenti, specie se perpetuati da chi dovrebbe conoscere a fondo gli equilibri sottili, sono doppiamente criticabili.

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