Alcune testate giornalistiche come Buzzfeed e Vice che sembravano ormai affermate nel panorama dell’editoria online hanno annunciato nuovi tagli al personale.
Mentre la carta stampata appare sempre più come una scelta vintage, un’esperienza culturale da provare come un vinile o uno scatto analogico almeno una volta nella vita, gli editori tradizionali non vedono ancora nella loro versione digitale a pagamento un valido sostituto.
È il segnale che l’informazione online sta lottando per trovare un modello di business sostenibile, in un settore le cui risorse economiche e tutta l’attenzione sembrano catturate da colossi della tecnologia come Facebook o Google.
L’articolo è un estratto della tesi magistrale di Matteo Anichini in Strategie e Tecniche della Comunicazione, Università di Siena (ottobre, 2019) ed è la seconda pubbliazione di una collaborazione tra cheFare e il corso in Sociologia della Comunicazione (prof. Tiziano Bonini) del Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive (DISPOC) dell’Università di Siena. La collaborazione vuole dare visibilità a lavori di ricerca per tesi di laurea particolarmente originali e rilevanti per i temi di cheFare. (qui il primo pezzo pubblicato)
Tutta colpa di internet?
In un primo momento potremmo rispondere sì, soprattutto guardando i numeri. La parabola discendente degli investimenti della pubblicità nelle principali testate cartacee è direttamente proporzionale a quella in continua crescita degli investimenti destinate alle versioni digitali.
Se da una parte questa inversione di rotta potrebbe apparire come una risposta positiva del giornalismo alla chiamata della rivoluzione digitale, in realtà quando navighiamo in rete, un’azione come leggere una news in modo completamente gratuito è semplicemente l’ultima tappa di una particolare compra-vendita.
Vasilescu su Medium la chiama Click-Bubble: una bolla speculativa di click che ha come unico obiettivo quello di attirare l’attenzione dei lettori con titoli accattivanti e catchy (nota anche come clickbaiting) al fine di rivendere questi “pacchetti di interesse” agli inserzionisti pubblicitari.
Il giornalismo online ha fondato una buona parte dei suoi guadagni sulla vendita della nostra attenzione; da una parte sembra quindi aver tradito la fiducia dei lettori con una narrazione al servizio della pubblicità e non della verità, dall’altra è intrappolato nella morsa dei click, spolpato dalle grandi piattaforme monopoliste che fanno del potere estrattivo dei dati e dell’attenzione online, la loro principale fonte di guadagno.
Secondo Littau questo disastro annunciato, si poteva prevedere già negli anni Settanta quando durante la prima recessione dopo il boom post bellico, le principali testate giornalistiche indirizzano il nuovo flusso di finanziamenti derivato dalle loro prime quotazioni in borsa direttamente nelle tasche degli azionisti anziché verso nuovi investimenti per le redazioni; negli anni Novanta un ulteriore passo falso del giornalismo tradizionale sta nel non aver dato sufficiente importanza alla nascita di numerose testate online e della blogosfera, nel pieno della bolla speculativa delle Dot-com.
È per questo che, dopo la crisi del 2008 e la successiva spinta verso la digital economy, il giornalismo si è visto proiettato in un mondo totalmente sconosciuto senza un effettivo modello per contrastarlo.
Internet ha accelerato i problemi già esistenti nel giornalismo e l’ha portato verso una “mercificazione accelerata”. Tuttavia, oltre all’arcipelago infinito di tecnologie che hanno promesso la salvezza del giornalismo, negli ultimi anni si è spesso sentito parlare di una nuova tecnologia che, seppur con innumerevoli svantaggi, trarrebbe la sua forza proprio da uno degli elementi fondativi di Internet e cioè il concetto di network.
La Blockchain e l’ennesima promessa di salvare il giornalismo
Nel 2007, quasi in contemporanea con la nascita del primo Iphone e della rivoluzione di Facebook, la crisi dei derivati e il malcontento generale intorno agli intermediari finanziari alimentano il dissenso di tutti quei cripto-anarchici e cypherpunk che vedevano ormai in internet una deriva monopolista e verticistica.
Ecco perché nel 2008, in uno white paper firmato Satoshi Nakamoto – nome dietro il quale si nascondevano uno o più autori – si è cominciato a parlare per la prima volta del progetto di una moneta virtuale creata e scambiata tra pari su una piattaforma open source.
Il nome di questa criptovaluta è Bitcoin e la tecnologia alla base è la Blockchain. La Blockchain è letteralmente una catena di blocchi che contengono informazione. È definito anche come un registro pubblico, distribuito e immutabile, protetto da un sistema di chiavi crittografiche.
Immaginiamoci ad esempio una transazione tradizionale di una banca, che si svolge all’interno di un unico intermediario e server centrale: ecco, con la Blockchain la stessa transazione sarebbe eseguita su una struttura in cui una copia del registro di tutte le transazioni è distribuita nel computer di ogni partecipante alla piattaforma cloud. È quindi visibile a tutti, ma allo stesso tempo riesce a proteggere la privacy di ogni utente grazie alla crittografia. Tuttavia, la caratteristica più interessante di Blockchain è che può essere estesa a qualsiasi tipo di transazione o scambio di valore online. Questo perché una criptovaluta viene definita anche come un token, ossia un “gettone” che rappresenta un valore che è possibile scambiarsi attraverso la piattaforma Blockchain.
Quali benefici per il giornalismo?
Secondo uno studio di Al-Saqaf (2019) la distribuzione e la tracciabilità che contraddistinguono la Blockchain, potrebbero sicuramente promuovere un giornalismo fondato sulla protezione e la verifica delle fonti, riportando ordine all’universo mistificato dell’informazione online e promuovendo il giornalismo di denuncia; la grande capacità di memoria di questa piattaforma invece sarebbe fondamentale per aumentare la capacità di archiviazione delle notizie.
Dal punto di vista economico inoltre, si potrebbe creare un token che rappresenti il valore della notizia o del “buon giornalismo” senza passare per i finanziamenti pubblicitari.
Tuttavia, esistono in questo momento poche start-up che stanno sperimentando l’applicazione della blockchain al giornalismo e si dividono fondamentalmente in quelle che usano direttamente la blockchain per risolvere alcuni problemi specifici come l’archiviazione, oppure quelle che la ibridano all’interno di sistemi più complessi.
È il caso della start up newyorkese Civil, che ha fondato una piattaforma editoriale strutturata su una blockchain “moderata” da un Collegio composto dagli stessi partecipanti al progetto (in questo molti analisti vedono una contraddizione alla piena distribuzione peer-to-peer dei poteri).
L’idea di Civil è quella di creare tante piccole redazioni online o comunità di giornalisti freelance, che non ricevono privatamente soldi dalla pubblicità ma dalla stessa “comunità Civil”; questa comunità sarà composta da lettori, sostenitori e finanziatori, grandi giornali, che insieme parteciperanno allo scambio di valore della criptovaluta Civil: questo token dovrebbe rappresentare e certificare il giornalismo etico, “libero” da vincoli politici ed economici.
Il sogno del giornalismo blockchain, in definitiva, potrebbe essere proprio quello di donare nuova linfa a tutte quelle piccole realtà giornalistiche che non possono contare su abbonamenti mensili o finanziamenti simili, riportando al centro dell’attenzione le comunità di lettori e il giornalismo locale.
Inutile dire che le critiche a questo progetto (attualmente in fase di start-up) e in generale alla Blockchain sono ancora molte: in particolare la volatilità e la speculazione spregiudicata legata a Bitcoin rigettano indirettamente sulla Blockchain uno scetticismo generale, a prescindere dagli usi che se ne faccia.
Inoltre, l’incredibile dispendio energetico della Blockchain non la rende certo un’innovazione ecologicamente sostenibile, e molti analisti del settore vedono in questa tecnologia un altro espediente di qualche investitore per spolpare ancora di più un settore già in ginocchio.
Eppure, c’è un dato di fatto sul quale gli studiosi dei media sembrano ormai convergere: non sappiamo se la blockhain salverà o meno il giornalismo, come aveva già promesso di fare con l’industria musicale qualche anno fa, ma quello che sappiamo è che la blockchain sta producendo già un primo cambiamento, più silenzioso e invisibile, che riguarda l’immaginario collettivo e la percezione del futuro di Internet.
Da questo punto di vista il cambiamento è ambivalente: da una parte, in un dibattito vecchio quanto la storia dei media, studiosi tecno-utopisti come Gilder (che negli anni 80 profetizzava la scomparsa della televisione in favore di internet) ora vedono nella Blockchain la nuova (l’ennesima!) tecnologia che sostituirà Internet; dall’altra invece, storici dei media come Tim Wu, che sostiene che la deriva monopolista di ogni ciclo tecnologico ha ridotto anche Internet, tecnologia della condivisione e della collaborazione rizomatica tra pari, ad una tecnologia (sempre per usare la metafora di Deleuze e Guattari) arborescente e statica, poco incline ad accogliere nuovi cambiamenti e nuove tecnologie, in favore di un consolidamento delle proprie posizioni.
Il dibattito tra tecno-utopisti e apocalittici riemerge, storicamente, ogni qual volta una nuova tecnologia fa la sua comparsa sulla scena ed è successo anche con la blockchain. Essendo ancora una tecnologia relativamente nuova, i suoi usi sociali e le sue applicazioni sono ancora in fase di discussione: è una tecnologia aperta, il cui immaginario è ancora in transizione. Osservare come si evolverà la blockchain, da chi verrà utilizzata e come, rappresenta un’occasione unica per capire come i media, nonostante le caratteristiche tecniche e progettuali che li distinguono l’uno dall’altro, vengono assorbiti dalla società e quale immaginario collettivo si produce intorno ad essi.
È come poter osservare un bambino prima che diventi maturo e acquisti una sua personalità più stabile. Perché se è vero che tutti gli anziani sono stati bambini, è vero anche che ogni vecchio media è stato un tempo un new media (per questo vedere il bellissimo libro di Carolyn Marvin, When Old Technologies Were New, del 1985).
La Blockchain quindi, salverà il giornalismo? La storia dei media ci dice che questa domanda è la domanda sbagliata da fare. Ogni volta che è arrivata una nuova tecnologia, qualcuno ha fatto una domanda simile: la radio ucciderà il giornalismo o lo salverà? La televisione ucciderà la lettura di libri? Internet salverà le biblioteche?
Sono domande sbagliate perché poggiano sulla fallacia ideologica del tecno-determinismo, cioè la speranza che una tecnologia, da sola, per le sue caratteristiche intrinseche, sia in grado di produrre un effetto sulla società, senza considerare che la società stessa è in grado, a sua volta, di produrre diversi possibili “effetti” sulla tecnologia.
A prescindere dal fallimento o la riuscita di questa tecnologia, è indubbio che la chiusura di tutte quelle micro-realtà editoriali e giornalistiche online nate in questi ultimi anni soprattutto a livello locale, si lascerà dietro un vuoto informativo incolmabile per il giornalismo tradizionale: in questo terreno così frammentato, oltre alla sperimentazione di una tecnologia, a mio avviso, è in gioco il ruolo del giornalismo come attivatore di una comunità di cittadini attorno a tematiche pubbliche, ma soprattutto del giornalista come garante e interprete di questo spirito comunitario, da cui penso dipenda gran parte della salute della nostra democrazia.
Immagine di copertina: ph. Joël de Vriend da Unsplash