Come si alimenta la riproduzione sociale? Gli eretici del commonfare

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    Come si alimenta la riproduzione sociale? Attraverso quali meccanismi è possibile garantire le condizioni di libertà e autonomia per (ri)avviare processi e non solo forme di “cooperazione sociale” dai quali scaturisce una ricchezza cognitivo – culturale oggi estratta e “capitalizzata” e invece da reinvestire secondo criteri di condivisione? Le risposte sono da ricercare soprattutto sul versante delle policy, cioè del design dei dispositivi, a fronte di politics imbrigliate in confronti veteroideologici, in particolare rispetto a rapporti di forza tra istituzioni pubbliche e private rappresentate in forma ipersemplificata come stato vs mercato e con il terzo settore in posizione residuale e transitoria.

    Pubblichiamo un estratto dagli Atti della Tavola Rotonda di CommonFare. Clicca qui

    Un blocco in termini di “creatività istituzionale” che nel campo del welfare, in particolare in quello dei servizi (sociali, educativi, sanitari, ecc.), ha lasciato mano libera a interventi di natura tecnocratica e aziendalista, sia sul versante pubblico che privato. E così, negli ultimi anni, il riformismo nel welfare è stato degradato a “efficientamento” (attraverso standard qualitativi e spending review), limitando la capacità di risposta e di innovazione, a fronte di una domanda che cresce in termini quantitativi – con un’”area grigia” di nuova vulnerabilità ormai dominante – e anche per quanto riguarda la qualità attesa rispetto a esigenze puntuali e a più ampie aspirazioni al ben-essere.

    Ma se sul fronte del dialogo tra addetti ai lavori del welfare sociale e della produzione scientifica che lo amplifica l’impasse è evidente, emergono in contesti diversi e periferici rispetto alle politiche e alle teorie dominanti innovazioni sociali sempre meno puntiformi. Sono ormai veri e propri driver di trasformazione che alimentano un nuovo ciclo di vita della riproduzione sociale, ma sono anche “eresie” perché mettono in discussione gli elementi centrali delle rappresentazioni sociali più diffuse e perché stanno superando, seppur in modo non sempre consapevole e lineare, la dipendenza dal percorso rispetto a schemi di azione e quadri interpretativi di derivazione statalista e mercatista, arricchendo quella “cultura societaria” rimasta fin qui in posizione minoritaria.

    I changemakers che cavalcano questi processi non si limitano all’advocacy segnalando che “un nuovo welfare è possibile”, ma cominciano a tracciare nuovi percorsi, ridefinendo, a partire dall’esperienza, assetti di protezione sociale che accettano la sfida di uscire da standard sterili rispetto al contesto per contaminarsi nei luoghi del lavoro, dell’abitare, della cultura, dello sport. L’impatto della loro attività è quindi di natura paradigmatica perché ridefinisce, alla radice, il modo in cui si costruiscono e gestiscono le relazioni, si gestiscono e governano le organizzazioni, si delineano e implementano strategie e politiche.

    Una visione sistemica
    Una visione sistemica dove i meccanismi tendenzialmente separati della redistribuzione pubblica, dello scambio di mercato e della reciprocità informale vengono ricombinati grazie a modelli neo mutualistici posti a governo di sistemi socio tecnici (piattaforme, monete complementari, social network) strettamente orientati a un approccio di sviluppo umano integrale.

    Il primo driver consiste nella disintermediazione della “società civile organizzata” ad opera di soggettività come i “volontari postmoderni”, ad esempio quelli che hanno aderito ad Expo scandalizzando puristi e radicali, che attenuano gli elementi di appartenenza politico ideologica a favore di obiettivi di impatto sociale e che sfumano i confini tra motivazioni prosociali e autorealizzazione di sé, interpretando il volontariato come parte del proprio curriculum professionale, in particolare per quanto riguarda le soft skill. O i “nuovi cittadini attivi” impegnati nella cura di beni comuni urbani attraverso aggregazioni informali che utilizzano social network come acceleratori conversazionali per coalizzare diversi self interest rispetto a obiettivi dove l’interesse collettivo emerge ed è rendicontato “in corso d’opera”. Un modello di azione che sollecita un ripensamento del rapporto persona / organizzazione in particolare per quanto riguarda la gestione della relazionalità non come oggetto (prestazione di servizio), ma come motore di riproduzione sociale dove le condizioni di contesto prevalgono sulle determinanti organizzative.

    Il secondo percorso è la reintermediazione del consumo “buono, pulito e giusto” nei circuiti mainstream a livello di produzione, distribuzione e vendita, superando la nicchia ideologica – fair trade, GAS, produttori bio – che ha svolto un ruolo pioneristico per la sua definizione e prima affermazione. Il progetto originario del consumo consapevole viene stressato da domanda che cresce in termini dimensionali e sulla base di opzioni politico culturali che non si esplicitano come apriori, ma sono incorporate in una relazione di produzione e consumo che tende, essa stessa, a ridefinirsi sempre più in chiave esperienziale e di coproduzione. A ciò si aggiungono i limiti di efficacia degli assetti e delle pratiche di governance, soprattutto per quanto riguarda l’effettiva capacità di ingaggio di diversi stakeholder e la possibilità di attrarre capitali per investimenti legati alla crescita. Lo scarso riconoscimento del “valore aggiunto” dei modelli decisionali lascia spazio, anche in questo campo, a fattori di competitività come il prezzo, la capacità distributiva, il marketing di prodotto, le marginalità economiche rispetto ai quali i big player for profit manifestano una maggiore capacità non solo di attrarre risorse, ma di adattarsi al nuovo paradigma del consumo consapevole, coinvolgendo in questa strategia di riposizionamento anche una lunga filiera di fornitura che spesso coinvolge soggetti cooperativi, nonprofit e PMI for profit.

    Il terzo driver consiste nell’affermazione di nuovi modelli imprenditoriali che si declinano come piattaforme analogiche e digitali capaci di estendere e diversificare il matching tra domanda e offerta. In particolare emerge come differenziale competitivo l’orientamento ad abilitare scambi ulteriori e decentrati rispetto ai core-business e agli attori tradizionali, soprattutto in alcuni settori dove, da una parte, si erode il vantaggio competitivo derivante dal possesso di competenze specialistiche e risorse tecnologiche e, dall’altra, si svela l’esistenza di risorse sottoutilizzate nella misura in cui vengono riconvertite a forme d’uso diverse. La leva dell’abilitazione è strettamente legata all’esercizio di una funzione di community building che consente di meglio riconoscere e scambiare risorse latenti attraverso connettività più estese. Ecco quindi che il “lavoro di comunità” – sempre meno esercitato da specialisti dei servizi sociali spesso fagocitati da attività prestazionali – viene riconosciuto come una competenza trasversale a una pluralità di attori: dai gestori degli spazi di coworking agli host delle piattaforme digitali, fino ai gestori di economie di prossimità (bar, negozi, strutture sportive). Diverse declinazioni del community management che reinterpretano anche il welfare in chiave “generativa”.

    Il quarto percorso è rappresentato dalla progressiva affermazione delle azioni e delle politiche di inclusione e coesione sociale nei settori primario e secondario e non solo come comparto a sé stante dell’economia dei servizi (terziario sociale). La rilevanza di questo driver era fino ad oggi legata a processi di diversificazione settoriale da parte di attori, principalmente nonprofit, vocati al perseguimento di finalità sociali attraverso l’erogazione di servizi specialistici. Ma oggi riguarda trasformazioni intenzionalmente ricercate anche da parte di imprese agricole, artigianali e industriali che, in modi diversi, sperimentano nuove value chains capaci di catturare importanti esternalità (spillover) a livello di impatto sociale e sostenibilità ambientale. Una scelta che supera pratiche di responsabilità sociale d’impresa discontinue e riparative rifondando le basi della competitività e del valore aggiunto e arrivando, in qualche caso, a intervenire sugli assetti di governance, ad esempio utilizzando qualifiche come la società benefit e l’impresa sociale. In particolare, la recente riforma del terzo settore rende l’impresa sociale più appetibile anche per soggetti for profit, in quanto stimola gli investimenti attraverso sgravi fiscali e riconosce la possibilità di redistribuire una parte degli utili sia per remunerare i capitali investiti, sia per finalità filantropiche.

    Quali apprendimenti derivano da questi percorsi? Utili in particolare a delineare lo spazio attuale e potenziale per una riproduzione sociale dove il welfare non si limiti a tutelare o risarcire rispetto a meccanismi estrattivi – sia di natura capitalistica che di origine burocratica – ma consenta piuttosto di renderla un autentico “valore condiviso”?

    In primo luogo, si evidenzia la rottura ormai definitiva tra meccanismi di produzione del valore e modelli di organizzazione sociale ed economica. Le forme dello scambio – mercato, redistribuzione e reciprocità – si ricombinano in forme e modi diversi dove gli assi di infrastrutturazione – formale e informale, pubblico e privato, profit e non profit – sono soggetti a profondi processi di ibridazione. Se è vero che la riproduzione sociale si alimenta attraverso scambi di reciprocità che non possono essere ricondotti a forme di retribuzione né di origine redistributiva (reddito di cittadinanza), né attraverso scambi di mercato (per quanto oggetto di regolazione), emerge che la reciprocità è soggetta, essa stessa, a mutamenti sostanziali. Il reciprocare infatti prende sempre più spesso forma all’interno di sistemi relazionali più estesi e interconnessi, generando ambivalenze rispetto alle modalità di interazione e di feedback. Una possibile soluzione risiede quindi non solo nel passaggio tra livelli istituzionali correlati alla produzione di determinate tipologie di beni: Stato per i beni pubblici, mercato per i beni privati o “terza via” nonprofit per i beni comuni, ma piuttosto nell’adozione di un diverso approccio ai commons. Si tratta infatti di infrastrutture la cui cura consiste non solo nella tutela e conservazione in senso autogestionario, ma anche nella capacità di abilitazione rispetto alla produzione di beni di altra natura (sia pubblici che privati) sussidiari rispetto a scambi di reciprocità che contribuiscono, in quota parte, a renderla sostenibile.

    In secondo luogo, il fatto che la riproduzione sociale assuma sempre più connotati di cooperazione – quindi tra individui che accettano di condividere mezzi e fini dell’azione – induce ad un ripensamento del mutualismo da rappresentanza e gestione di interessi relativamente omogenei a design delle soluzioni per comunità composite e sempre più artificiali. Un passaggio che si può cogliere anche a livello di “iconografia” della partecipazione: dall’assemblearismo di grandi gruppi di pari al service design applicato a coalizioni intenzionali di attori e a minoranze attive su processi di cambiamento che si misurano in termini d’impatto sul contesto socioeconomico piuttosto che come “inveramento” di una visione o teoria sociale ed economica.

    In terzo luogo, i modelli di business di questa nuova economia si focalizzano non tanto sulla produzione di risorse aggiuntive, ma piuttosto sulla valorizzazione di risorse dormienti, sia perché giacciono sottoutilizzate anche nella loro attuale forma d’uso, ma soprattutto perché vengono riconvertite, come si ricordava in precedenza, a nuove modalità di utilizzo (l’auto privata che diventa un servizio di trasporto pubblico, la casa che si trasforma in una struttura turistica, ecc.). Questa sleeping asset economy rappresenta il principale elemento di sfida per le piattaforme capitalistiche e cooperative non solo sul versante dell’efficienza dei modelli di gestione, ma anche per un aspetto sempre più al centro dell’attenzione come fattore di impatto, ovvero la capacità di esercitare un effetto di inclusione nel mercato rispetto a persone e comunità marginali. L’inclusive business è quindi una parola chiave declinabile secondo svariate modalità: da condizioni minime lavorative (decent work), a modalità più articolate che reinterpretano lo sviluppo economico su base territoriale attraverso l’utilizzo delle già citate infrastrutture governate come commons, ad esempio di monete complementari, reti energetiche, broadband comunitarie, ecc.

    Infine, il welfare, in questo quadro, supera il trade off tra produzione di valore economico e protezione sociale, assumendo il ruolo di integratore tra economia e socialità. Ciò richiama la necessità di sviluppare processi di change management, se non di vero e proprio ridisegno istituzionale, degli enti di natura imprenditoriale, individuando un nucleo di risorse e di significati condivisi in grado di alimentare catene di produzione del valore basate che fanno leva su elementi cognitivi e motivazionali condivisi.

    Il commonfare, da questo punto di vista, rappresenta un fattore che legittima in termini sostanziali la presenza di assetti organizzativi e di governance altrimenti spiazzati da matching su singole prestazioni che atomizzano i prestatori e da progettualità collettive di carattere temporaneo che non facilitano l’accumulazione e la condivisione di capitale cognitivo e conoscitivo. In questo spazio operano infatti soggetti la cui “produttività” è anche di natura connettiva, attraverso competenze relazionali rispetto alle quali si impongono esigenze di tutela e di valorizzazione in termini di ricchezza creata e redistribuita. In questo senso l’espressione più profonda di questa nuova modalità di intendere la protezione sociale non può essere ricondotta a sole dimensioni tecnico – organizzative come il design dei processi, le forme giuridiche, i modelli gestionali e finanziari.

    Occorre focalizzare le mutazioni nel profilo antropologico di chi, letteralmente, incarna questo approccio. Se sono ormai evidenti i limiti del profilo fin qui dominante del homo oeconomicus, appaiono ancora sfocati quelli dei commoners che sono in grado di tenere in equilibrio relativamente stabile interesse individuale e interesse collettivo. Da una parte, infatti, s’indeboliscono i collanti tradizionali rappresentati dalle ideologie e dalla prossimità spaziale che hanno consentito di depositare e riprodurre l’humus della relazionalità cooperativa. D’altro canto non sembrano ancora chiare le modalità attraverso cui questo stesso processo generativo possa scalare dagli schemi conversazionali iperconnessi della contemporaneità fino alla governance dei sistemi economici e politici.

    Pensare di farlo attraverso programmi di “educazione” che riproducano artificialmente i sostrati culturali del passato appare, nel migliore dei casi, velleitario così come lo è alimentare alternative radicali, non dissimili dallo stesso commonfare, poi non intenzionate ad annidarsi nei sistemi socioeconomici mainstream. Potranno forse riuscirci persone che hanno maturato in questi stessi contesti generativi e radicali due meta competenze: la prima consiste in un approccio sistemico rispetto all’individuazione delle priorità strategiche e alla programmazione delle iniziative, mentre la seconda è natura metodologica e riguarda la capacità di aprirsi a una pluralità di interessi e di risorse facendo leva su modalità progettuali che funzionano come competenze tacite e diffuse e non solo attraverso i tecnicismi del project management.


    Immagine di copertina: ph. John Robert Marasigan da Unsplash

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