Il sapere dai margini contro la violenza eteropatriarcale

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    Il disegno di legge contro l’omotransfobia e la misoginia, osteggiato dal fondamentalismo cattolico e dall’estrema destra e in discussione in parlamento proprio in questi giorni (è stata approvata alla Camera), sta concentrando l’attenzione dei media e del pubblico su un problema sociale che l’emergenza sanitaria per la pandemia di Coronavirus (o la sua strumentalizzazione) tende quotidianamente ad oscurare.

    A fronte dell’incremento del numero di violenze e discriminazioni nei confronti delle persone LGBT, testimoniato dall’inchiesta Caccia all’omo di Simone Alliva pubblicata recentemente da Fandango, e a fronte dell’arretratezza dell’Italia in termini di diritti, di cui si legge nell’indice dei diritti LGBT a cura dell’IGLA-Europe, è necessario interrogarsi sull’efficacia delle soluzioni proposte nel disegno di legge presentato in parlamento dal Partito Democratico contro un problema sistemico.

    In sintesi, il ddl che porta il nome di Alessandro Zan, deputato del Partito Democratico:

    • interviene sul codice penale al fine di garantire il riconoscimento dei casi di crimini d’odio legati al sesso, al genere, all’identità di genere, alla sessualità e alla disabilità;

    • istituisce un coordinamento per la realizzazione di case rifugio per vittime di violenza omolesbobitransfobica (i finanziamenti sono già stati approvati);

    • istituisce una giornata nazionale contro l’omolesbobitransfobia al fine di moltiplicare iniziative di sensibilizzazione sul tema;

    • prevede l’elaborazione di strategie da parte dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la prevenzione e il contrasto alle discriminazioni nell’ambito dell’istruzione, del lavoro, delle carceri e dei media;

    • assicura lo svolgimento periodico di statistiche sulla condizione delle persone LGBT a cura dell’Istat.

    La legge Zan ha il compito di riconoscere a livello istituzionale un problema sistemico e di varare misure, seppur limitate, a sostegno delle vittime di violenza e a favore della sensibilizzazione sul tema, pertanto risulta necessario difenderla dagli attacchi delle destre e dei fondamentalisti cattolici. Ma se il suo fine è quello di contrastare la violenza, possiamo sperare che possa determinare una battuta d’arresto considerevole?

    A mio parere, per rispondere bisogna innanzitutto chiedersi da dove derivano la violenza e la discriminazione subite costantemente da donne, gay, lesbiche, persone bisessuali e trans. I movimenti di liberazione transfemministi e queer ce lo ripetono da decenni: la società patriarcale si fonda sull’oppressione delle donne da parte degli uomini e sull’eterosessualità obbligatoria che lega i due generi (a cui altri assi di oppressione, come la classe, la razza, la disabilità si intersecano determinando complesse dinamiche di soggettivazione non riducibili esclusivamente al sistema dei generi).

    La norma eteropatriarcale che regola la società vincola pertanto le persone e la loro sessualità alle prescrizioni definite dal genere assegnato alla nascita. Non è contemplata la possibilità che gli individui possano autodeterminarsi come soggetti estranei, ‘queer’, storti rispetto all’essere ‘straight’, dritti, cisgenere ed eterosessuali: nel contesto eteropatriarcale, l’identità e le relazioni queer costituiscono una possibilità solo nella forma della defezione rispetto alla norma e pertanto come difetto da eliminare o raddrizzare attraverso un processo di sussunzione sistemica o di normalizzazione.

    La società patriarcale si fonda sull’oppressione delle donne da parte degli uomini e sull’eterosessualità obbligatoria che lega i due generi.

    Negli ambienti in cui le soggettività queer nascono e crescono (la famiglia, la scuola e dopo l’università o il posto di lavoro), la norma è quella per cui la subalternità delle donne, la cisessualità e l’eterosessualità sono date per scontate. Sara Ahmed, in Queer Phenomenology, parla di un senso di disorientamento provato dalle persone queer, una condizione determinata dall’assenza di punti di riferimento e relazioni non eteronormati nei contesti familiari e sociali durante gli anni della crescita – e non solo – che impedisce loro di dare senso alla propria identità e ai propri desideri.

    La misoginia e l’omolesbobitransfobia si insinuano sin dai primi momenti nelle famiglie e nei luoghi della formazione, ambienti in cui i soggetti si formano nella convinzione che le donne rivestano un ruolo subalterno e che le persone LGBT siano anormali.

    Leggi anche: Oltre le folle umane per prendersi cura delle generazioni che verranno, intervista a Donna Haraway

    Per combattere le cause della violenza che il ddl Zan vuole fronteggiare, è necessario (certo, non sufficiente) mettere in questione i modi con cui le persone si formano nel regime eteropatriarcale a partire dai luoghi di formazione e dalle scuole, il compito delle quali dovrebbe essere quello di traghettare i soggetti fuori dal contesto famigliare per inserirli nel tessuto sociale come soggetti autonomi.

    Sembra quasi ironico dover far questo discorso proprio ora, in un periodo di emergenza sanitaria in cui lo Stato legifera in materia di misoginia e omotransfobia proprio nello stesso momento in cui chiude i luoghi della formazione per salvaguardare la produzione e i profitti. Eppure, osservando il ruolo dell’istruzione nel nostro contesto nazionale e più in generale nel sistema neoliberale, il sacrificio delle scuole e delle università, ridotte a uno scambio a distanza in condizioni spesso impossibili, non sorprende eccessivamente.

    Marciona queer transfemminista

    Una foto dal corteo transfemminista di Marciona, del 27 giugno 2020. Foto per gentile concessione dell’autore.

     

    Il modello pedagogico istituzionale, infatti, è fondato sulla trasmissione verticale di nozioni, un modello che Paulo Freire, pedagogo brasiliano e autore de La pedagogia degli oppressi, chiamava modello depositario. La pedagogia critica che dagli anni Sessanta si è evoluta a partire dal pensiero di Freire e che ha coinvolto le riflessioni di teorici e teoriche antirazziste, marxiste e femministe, mette in questione il modello depositario per cui a chi studia spetta il ruolo passivo di memorizzatore di nozioni di un sapere oggettivo e universale.

    Questo sistema implica che nella società neoliberale la pratica possa essere intesa solamente nella forma di funzionalizzazione delle capacità del soggetto rispetto al processo di produzione e alla macchina del profitto, e non come azione di cambiamento storico. Se la conoscenza è trasmissione verticale e gerarchica di nozioni teoriche e formazione finalizzata alla riproduzione dei sistemi di dominio, il sapere si rivela estraneo alla materialità e al vissuto dei corpi, ponendosi al di sopra di essi in quanto universale e distaccato rispetto alla soggettivazione storica degli individui. In questo processo di trasmissione della conoscenza, quindi, possono agire indisturbati i meccanismi di oppressione poiché chi apprende assorbe il sapere nella prospettiva dell’adeguamento alla norma eteropatriarcale, razzista e capitalista.

    Se la conoscenza è trasmissione verticale e gerarchica di nozioni teoriche e formazione finalizzata alla riproduzione dei sistemi di dominio, il sapere si rivela estraneo alla materialità e al vissuto dei corpi.

    La pedagogia critica, accolta e approfondita da teoriche e attiviste transfemministe e anticolonialiste a partire dalle esperienze di autoinchiesta e autocoscienza, mira a sfumare i contorni tra teoria e pratica nei processi di formazione, allo scopo di affrontare il sapere universale dal margine delle prospettive negate dalla storia (quelle delle classi sfruttate, delle donne, delle persone LGBTQIA e delle soggettività razzializzate) e porlo di fronte alla criticità rappresentata dalle vite precarizzate e oppresse dai sistemi di dominio.

    La filosofa bell hooks, che studia la pedagogia critica di Freire da una prospettiva femminista e decoloniale, in Insegnare a trasgredire (recentemente tradotto e pubblicato da Meltemi) rivendica per chi apprende il ruolo attivo di soggetto della conoscenza: non contenitore e consumatore passivo di nozioni, ma teorico della propria vita, interprete delle proprie esperienze e agente di cambiamento. “La testimonianza personale, l’esperienza personale, sono un terreno eccezionalmente fertile per la produzione di teoria libertaria femminista, perché di solito costituiscono la base della nostra teoria. Mentre ci diamo da fare per risolvere i problemi più urgenti nella vita quotidiana […] ci impegniamo in un processo critico di teorizzazione che ci fornisce nuovi strumenti e ci investe di potere.” (p. 104)

    Una foto della scrittrice, professoressa ed attivista bell hooks nel 2009. Foto: Wikimedia Commons

     

    Nel momento in cui il sapere tradizionalmente inteso e definito da una prospettiva storica prevalentemente bianca, maschile e borghese, viene affrontato criticamente dalle individualità poste al margine e oppresse, emerge inevitabilmente un conflitto, conflitto che secondo bell hooks “dobbiamo trovare modi di utilizzar[e] come catalizzatore di nuovi pensieri, di crescita personale.” (p. 150)

    Il transfemminismo come movimento politico radicale e intersezionale difende la produzione e la trasmissione critica del sapere, inteso come insieme di teorie e pratiche situate, storicamente e socialmente informate, rispetto alle quali è necessario garantire l’accessibilità: attraverso il riconoscimento del sé nella storia, il sapere critico e situato sfida la distorsione speculativa della teoria che emerge in assenza di obiettivi sociali e politici nella conoscenza scolastica e accademica.

    A fronte di un sistema scolastico che mira a mercificare la conoscenza e perseguitato dall’incubo del gender e della lobby gay, tocca agli spazi extrascolastici e extra-accademici promuovere una presa di coscienza rispetto all’universalità del sapere, alle dinamiche di oppressione e alla distribuzione di privilegi, dando rilevanza alla materialità del corpo e alla criticità delle singole vite al margine, laddove i luoghi della formazione istituzionale insegnano che bisogna abdicare al corpo per assorbire intellettualmente un sapere universale e disincarnato, limitando e scoraggiando un posizionamento critico.

    Tocca agli spazi extrascolastici e extra-accademici promuovere una presa di coscienza rispetto all’universalità del sapere, alle dinamiche di oppressione e alla distribuzione di privilegi, dando rilevanza alla materialità del corpo e alla criticità delle singole vite al margine.

    Secondo bell hooks, “riconoscendo la soggettività e i limiti dell’identità, interrompiamo quell’oggettivazione che è così necessaria in una cultura del dominio. […] Le storie di alcuni, se venissero accolte, potrebbero minacciare i modi stabiliti del sapere.” (p. 175) Nella prospettiva dei movimenti e della teoria transfemministi e decoloniali, al fine di contrastare le oppressioni sistemiche, bisogna politicizzare e radicalizzare la conoscenza, non mercificarla – laddove la mercificazione è già una precisa forma di politicizzazione liberale e individualista del sapere.

    La chiusura delle scuole e delle università e la didattica a distanza, accompagnate dalla mancanza di misure sufficienti relative al reddito, confermano il carattere depositario, individualista e mercificato dell’istruzione nel nostro paese, dove l’educazione non è intesa come formazione critica del soggetto, ma come esperienza di consumo di conoscenza dalla quale chi studia fa fatica ad emergere come produttore di significati e agente politico.

    Per affrontare le violenze del regime eteropatriarcale, è necessario che le persone che vivono l’oppressione all’interno di questo sistema si dotino di strumenti per riconoscere, nominare e interpretare il proprio disorientamento e per agire al fine di costruire un orizzonte collettivo di abitabilità, di lotta e di senso per la propria identità e per i propri desideri.

    Una foto dal corteo transfemminista di Marciona del 27 giugno 2020 davanti alla Stazione Centrale di Milano. Foto per gentile concessione dell’autore.

     

    La conoscenza così intesa è politica nella misura in cui sfonda i confini tra teoria e pratica in una dimensione relazionale, collettiva e conflittuale rispetto alla norma, di condivisione, di cura e di resistenza. Bisogna, perciò, andare molto più in là di Zan, come recita lo slogan di alcune manifestazioni di piazza transfemministe degli ultimi mesi, e contrastare l’idea che l’educazione possa esistere solo nell’orizzonte del profitto, sacrificabile pertanto al suo altare.

    Se riconosciamo che il sistema educativo e la trasmissione istituzionale del sapere tendono a escludere i soggetti marginalizzati poiché riproducono le forme di oppressione sistemiche, per contrastare le violenze misogine e omotransfobiche bisogna alimentare la pressione delle prospettive al margine sul sistema educativo neoliberale, patriarcale e razzista: la conoscenza situata e incarnata nelle soggettività più oppresse può dare senso al disorientamento e alla rabbia delle individualità ‘eccentriche’ al fine di coltivare la coscienza politica della propria oppressione e attuare forme collettive di resistenza.

    Note