Quella volta che Jerry Garcia inventò il modello freemium

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    In questo articolo parlerò di modelli di business per il giornalismo ma lo farò partendo dai Grateful Dead. Il percorso che porta dal pomeriggio del 27 giugno 1970 in uno stadio canadese dove va in scena un concerto dei Grateful Dead fino ai modelli di sopravvivenza del giornalismo digitale è un po’ lungo, vi avverto, ma serve per far emergere la sottile linea rossa che unisce queste due cose: i Grateful Dead e il giornalismo digitale.

    Il 23 giugno del 2015, leggo su Pando Daily (più tardi scopriremo meglio cos’è) la storia di quel giorno in cui Jerry Garcia, uno dei fondatori del gruppo psichedelico Grateful Dead, in uno stadio canadese dove si stava svolgendo un concerto organizzato da lui e altri musicisti, inventò il modello freemium per arginare le proteste di un gruppo di hippies che voleva entrare gratis.

    La storia è questa: era il 27 giugno del 1970 e i Grateful Dead dovevano iniziare il loro tour a Toronto. Con loro sul palco c’erano Janis Joplin e Buddy Guy. Il biglietto costava 10 dollari ma nessuno voleva pagare e scoppiarono delle proteste, poi degli scontri tra hippies e servizio di sicurezza (succedeva spesso negli anni settanta, anche in Italia). A un certo punto Jerry Garcia sale sul palco per parlare ai manifestanti. Fa un bel discorso, dice che tutti i musicisti si sono “sbattuti un casino” per organizzare questo tour e che hanno bisogno di essere pagati perché vivono di quello, del loro lavoro di musicisti. Però dice anche che capisce i manifestanti e che stanno approntando un altro palco dove la musica sarà gratuita. E dice anche: “Mi dispiace guys. L’amore è gratis. Noi no.” Quel giorno, secondo Pando Daily, Jerry Garcia inventò un modello di business che nell’economia dei media è noto come freemium, ovvero in parte gratis in parte a pagamento. È il modello sul quale vive Spotify: chi non vuole pagare l’abbonamento ascolta la musica gratis ma con la pubblicità, chi vuole pagare ottiene qualcosa in più.

    Questa storia l’ho letta il 23 giugno e ho pensato: “ma guarda come sono brillanti questi giornalisti di Pando Daily, che per parlarti di una cosa noiosa come un modello di business ti raccontano la storia di Jerry Garcia e intercettano me come lettore, che sono un amante dei Grateful Dead”. Da adolescente sono cresciuto a pane e Hunter S. Thompson e quella forma di giornalismo narrativo in prima persona mi è da allora sembrata un modello a cui ispirarsi.

     

    Ma non avevo ancora capito quanto davvero erano stati brillanti questi di Pando Daily.
    Poi a un certo punto, girovagando in rete alla ricerca di altre notizie sul mio nuovo giornale preferito, ho capito.

    Il giorno prima, 22 giugno 2015, Pando Daily aveva annunciato sul suo sito che sarebbe passato al modello freemium per poter continuare ad esistere e rimanere “indipendente”.

    È un modello di paywall più leggero di altri, o come lo chiama Lacy: “membership-advertising- events business model”

    Il direttore, Sarah Lacy (ex giornalista a TechCrunch), scrive un lungo editoriale per spiegare il passaggio. Da ora in poi i lettori di Pando Daily dovranno pagare 10 dollari al mese per accedere agli articoli e basterà che lo facciano 5.000 di essi per rendere il giornale sostenibile.

    Però i lettori abbonati possono sbloccare per 48 ore gli articoli letti e condividerli sui social con gli amici, facendo leggere loro il giornale gratis. Inoltre, dal profilo Twitter di Pando Daily continueranno a pubblicare articoli temporaneamente sbloccati. Sperano così, entro fine anno, di finanziarsi le spese editoriali solo grazie ai propri lettori. Pubblicità e organizzazione di eventi, le altre due fonti di entrate, serviranno a coprire i costi non editoriali.

    È un modello di paywall più leggero di altri, o come lo chiama Lacy: “membership-advertising- events business model”.
    Sarah Lacy descrive i vantaggi del passaggio a un modello basato sul supporto dei lettori: potranno concentrarsi sulla produzione di articoli lunghi, contenuti che soltanto loro hanno e dare meno importanza alle page views, perseguire cioè in maniera meno spasmodica, ossessiva, l’incremento dei click sulle pagine attraverso articoli accattivanti ma di poco peso.
    E il giorno dopo il giornale se ne esce con quell’articolo su Jerry Garcia che se la prende con gli hippies che non vogliono pagare la musica e inventa per loro il modello freemium.

    Il pezzo è chiaramente un invito ai propri lettori ad abbonarsi, una forma di storytelling aziendale per dire loro che l’amore è libero, ma le notizie no. E lo fanno attraverso la parabola dei Grateful Dead, intercettando tutti quei lettori californiani interessati alla tecnologia ma anche amanti della contro-cultura americana: in una parola, pieno stile Californian Ideology.

    Il problema è che siamo come gli hippies di Jerry Garcia: vogliamo le notizie gratis

    Questa è la storia. Ora veniamo alla sostanza: i modelli di business per il giornalismo digitale, che non se la passa tanto bene, non solo in Italia. Ma nel mondo. Come ha dichiarato Rasmus Kleis Nielsen, Direttore della Ricerca del Risj, “la nostra ricerca mostra che la maggior parte delle persone ama e legge le notizie, ma non vuole pagare, non vuole vedere la pubblicità e non vuole che gli articoli si mischino con i contenuti sponsorizzati. Questo significa che i modelli di business sono ancora elusivi anche per quelle testate che riescono a costruire una audience”. (estratto da European Journalism Observatory).

    Il problema, sostiene quindi Kleis Nielsen, è che siamo come gli hippies di Jerry Garcia: vogliamo le notizie gratis. E questo spinge i media commerciali a sfidarsi online all’ultimo click, producendo una montagna quotidiana di notizie spazzatura, facilmente condivisibili sui social media (la famosa colonnina destra di Repubblica) con le quali finanziarsi la produzione di notizie più importanti e più costose da produrre e meno virali nella circolazione. Eppure il modello opposto, pagare per leggere, non sembra molto attraente per i lettori, se, come afferma l’ultimo Digital News Report 2015 della Reuters Institute for the Study of Journalism riportato da EJO: “La percentuale di persone disposte a pagare per le news rimane bassa, soprattutto nel Regno Unito, dove solo il 6% degli intervistati ha speso dei soldi per l’informazione nell’ultimo anno. Il dato più alto è quello finlandese, 14%. In Gran Bretagna, inoltre, il 75% ha dichiarato di non avere intenzione di pagare per il giornalismo online, qualunque sia il prezzo richiesto. Lo stesso vale per il 67% degli americani, il 63% degli australiani e il 59% degli spagnoli. Per chi potrebbe pensare di pagare in futuro, il prezzo massimo accettabile è di circa 8,50 dollari per gli americani e 4.50 dollari in Australia.”

     

    Secondo questo report, il panorama del giornalismo digitale si va consolidando verso una forma di oligopolio globale, dove grandi media company transnazionali si sfidano per spartirsi l’attenzione degli spettatori marginalizzando sempre più gli attori dei media locali (nazionali).
    Nonostante il proliferare di nuove iniziative editoriali digitali a livello nazionale e globale, i media globali più seguiti per informarsi, secondo il Digital News Report 2015, sono ancora tutte imprese commerciali appartenenti a grandi corporation transnazionali che esistono da molti anni, niente di realmente “disruptive” nell’industria dei media: New York Times, CNN, Mail Online, BBC e The Guardian. Il Guardian è un caso a parte, perché non ha padroni (è amministrato da un Trust dal 1936), e questo, come spiega il suo vecchio direttore, Alan Rusbridger, nel suo splendido editoriale d’addio, ha permesso loro di mantenersi indipendenti ed esercitare realmente la funzione di watchdog del potere.

    BBC è pagata interamente dai cittadini britannici (ma ormai dovrebbe richiedere un canone globale, per quanto è diventata centrale nella dieta mediale di molti cittadini non britannici che usufruiscono gratis dei risultati di una tassa pagata da altri).
    CNN, Mail online e New York Times sono tutti grandi corporation commerciali che esistevano già nel secolo scorso e che stanno tentando di adeguarsi al presente digitale investendo molto in innovazione, ma continuano a sopravvivere su modelli economici tradizionali.

    Gli altri due player globali dell’informazione online, BuzzFeed e Huffington Post, non rappresentano più una novità (sono nati nel 2006 e nel 2005).
    L’Huffington Post appartiene ad AOL, una grande azienda di telecomunicazioni americana, comprata il 23 giugno del 2015 da Verizon, una corporation nipote dell’AT&T (una delle corporation di telecom più longeve d’America, nata nel 1885, poi smembrata nel 1984 dall’Anti- Trust americana nelle famose baby-Bell).

    Il suo modello di finanziamento è tradizionale tanto quanto quello degli altri player globali commerciali: pubblicità e tanti click.
    BuzzFeed è l’unica media company tra i player globali ad essere ancora una start up ed essere fondata su un modello di sviluppo economico totalmente differente, che gira intorno a finanziamenti da VC (venture capitalist) e native advertising, quindi no banner.

    Però anche BuzzFeed è in mano a una corporation molto, molto potente. Non è nata nel 1885 come la At&T, è nata solo nel 2009, ma è l’azienda che oggi finanzia la nuova economia americana. Nell’agosto del 2014 BuzzFeed ha infatti raccolto 50 milioni di dollari dall’azienda di venture capitalism più famosa degli Stati Uniti, la (Marc) Andreessen (Ben) Horowitz (da leggere il ritratto di Marc Andreessen – The Mind of Marc Andreessen – pubblicato dal New Yorker il 18 maggio 2015).

    Quindi, finora, tra i media fin qui nominati, abbiamo visto tre modelli di business impiegati nel giornalismo digitale:

    1) il servizio pubblico fondato su canone (BBC, l’unico media pubblico in grado di competere su scala globale)

    2)  il modello commerciale basato sulla vendita di pubblicità

    3)  il modello start-up, fatto da finanziamenti provenienti da Venture Capitalist e native
    advertising, con diversi gradi di libertà di accesso alle notizie, che è quello maggiormente diffuso tra le nuove imprese di informazione digitale, con alterni risultati.

    Negli Stati Uniti negli ultimi anni sono nati molti esempi di giornali digitali di qualità, orientati a pubblici di nicchia e fondati sul modello della start up, ma molti di questi non ce l’hanno fatta o sono stati venduti a gruppi editoriali tradizionali. Slate è stato venduto da anni al Washington Post, Gigaom ha chiuso, Cir.ca ha chiuso due giorni fa dopo appena tre anni di vita, TechCrunch è stata venduta ad AOL (ora Verizon) e molti giornalisti sono stati licenziati, Re/Code è stata venduta a Vox Media, una testata di qualità, che però pare stia per cedere a Comcast (il più grande operatore via cavo degli Stati Uniti, con una quota di maggioranza in NBC Universal). The Intercept è una testata di giornalismo investigativo diretto da Glenn Greenwald e finanziato dal fondatore di eBay Pierre Omidyar, nata nel 2014, di cui ancora bisogna capire la sostenibilità. Business Insider è, insieme a BuzzFeed e Vice, uno dei pochi esempi di start up mediali in salute.

    Per quanto innovativi possano essere i modelli di giornalismo nessuno ha ancora trovato una vera nuova via alla sostenibilità

    In Europa la situazione è ancora più difficile. Delle decine di giornali online nati in questi anni in tutti i paesi europei, solo pochi sono sopravvissuti. Un report del Reuters Institute for the Study of Jourmalism del 2012 metteva in evidenza come la sola sopravvivenza di questi media fosse già una forma di successo. Tra i modelli di business di queste start up, oltre al finanziamento dei VC, c’è ancora la pubblicità, cresce il native advertising (il caso de Gli Stati Generali) oppure tornano di moda antiche forme cooperative, come nel caso di Mediapart, una cooperativa interamente finanziata dai suoi lettori, che ha raggiunto la parità di bilancio già nel 2010 e ricorda il modello delle listener-supported radio americane inventato dal network pacifista e libertario Pacifica Radio nel 1949 e ripreso da Radio Popolare a Milano nel 1990.

    Insomma, non se ne esce. Per quanto innovativi possano essere i modelli di giornalismo di BuzzFeed, Vice, Business Insider e Pando Daily, nessuno ha ancora trovato una vera nuova via alla sostenibilità del giornalismo. Le notizie, da sempre, o le pagano gli inserzionisti pubblicitari, trasformando i lettori in prodotto, oppure le pagano i cittadini volontariamente (abbonamento) o coercitivamente (canone), o, come accade in molti paesi europei, le paga lo stato, con i sussidi all’industria dell’informazione. A questi modelli si è aggiunta la start up finanziata dai VC, dove la produzione delle notizie, finché il giornale non trova la sua strada, è pagata da investitori privati, multi-milionari insieme anonimi fondi di investimento finanziari.

    Se si adotta la prospettiva dell’Economia Politica dei Media, che ci invita sempre a guardare criticamente a chi appartiene cosa e a seguire il flusso dei soldi (“follow the money”), risalendo la catena di comando dei media digitali più importanti, si finisce sempre davanti la porta di qualche vecchio dinosauro dei media nato nel secolo scorso o, al massimo, di fronte a qualche nuovo ricco proveniente dall’economia digitale.

    La produzione di notizie digitali è un mercato in continua crescita ed evoluzione, ma la difficoltà economiche nel rendere questa produzione sostenibile, portano questo mercato verso una concentrazione dei soldi nelle mani di poche grandi aziende mediali tradizionali, con poche eccezioni. Quanto questa concentrazione influenza l’indipendenza, e quindi la qualità, dell’informazione? La risposta è complessa ma c’è di sicuro una correlazione tra il modello economico adottato per sopravvivere, la tipologia di notizie che si pubblicano e il modo in cui le si confeziona.

    Come sostiene Sara Lacy, il direttore di Pando Daily, poter contare solo sul supporto economico dei lettori rende il giornale meno dipendente dalla necessità di produrre grandi quantità di page views, lo emancipa dalla pratica quotidiana del clickbait, e lo fa concentrare sulla produzione di testi accurati, che necessitano di tempo e approfondimento per essere sia scritti che letti, il tipo di testi per i quali i lettori (pochi) sono disposti a pagare.

    Eppure c’è una bella differenza tra l’ideologia californiana di Sara Lacy e il caso europeo di Mediapart o del Guardian. Pando Daily non è interamente finanziato dai suoi lettori, come lo è Mediapart: nel 2012, al momento della sua fondazione, il giornale ha ricevuto poco meno di 4 milioni di dollari da una serie di investitori che includevano il solito Marc Andreessen, Peter Thiel e Reid Hoffman (co-fondatori di PayPal e soprannominati The PayPal Mafia), due imprenditori che, insieme a Elon Musk, si sono sempre attestati su posizioni anarco capitaliste (Peter Thiel sta investendo per costruire un’isola artificiale off shore libera da ogni forma di tassazione ed è un seguace del transumanesimo).

    Quando Sarah Lucy chiede ai lettori di abbonarsi per mantenere indipendente il suo giornale, lo fa sostenendo che così la testata potrà rimanere indipendente dai VC: “noi non abbiamo nulla contro gli investitori che finanziano le start up mediali (…) e tuttavia sappiamo che la nostra missione di stare alle costole dei cattivi attori dell’industria tecnologica e celebrare invece gli outsider, non ci permetterà di raccogliere molti soldi tra gli investitori della Silicon Valley, a meno che non accettiamo un maggiore coinvolgimento di questi investitori nel nostro lavoro, cosa che non ci potremmo permettere”. Quindi Sarah Lacy riconosce quanto sia difficile avere a che fare con dei VC e contemporaneamente mantenersi indipendenti. Che le notizie siano pagate da un VC o da un grande gruppo commerciale come Verizon in fondo non cambia molto: entrambi hanno i loro interessi e non lasceranno mai che i “loro” giornali agiscano contro i propri interessi. Inoltre un VC ha anche la necessità di rientrare dagli investimenti e se non riesce a monetizzare presto i suoi investimenti, può decidere di chiudere i rubinetti. Sono morte così imprese come Gigaom e Cir.ca, che non andavano male ma avrebbero avuto bisogno di più tempo per diventare sostenibili.

     

    Pando Daily si è fatto una reputazione pubblicando articoli molto critici nei confronti di molti attori della Silicon Valley, come Uber, onorando fin qui il proprio slogan “Speaking Truth to Power”. Ora ha deciso di trasformare quella reputazione in sostegno monetario.
    Jeff Jarvis, professore di giornalismo alla CUNY di New York, vede questo passaggio di buon occhio, se ha scritto su Twitter: “Smart of @PandoDaily to go freemium. They can monetize all the good will they’ve built up.”.

    Ma la mia domanda finale è: poniamo il caso ipotetico che un giorno, Peter Thiel, uno dei finanziatori del giornale, venga accusato di aver evaso tasse per milioni di dollari o di essersi macchiato di qualche crimine, sarà capace Pando Daily, di “Speaking Truth to Power”?

    Io continuo a leggerlo con grande gusto, a farmi sorprendere da pezzi come quello sui Grateful Dead o su Kobane, ma sarà sempre così facile per Lacy essere indipendenti?
    Io credo ancora che fare bene il proprio lavoro di giornalisti, costruirsi una reputazione di affidabilità e rilevanza presso un pubblico preciso di lettori e affidarsi ad essi per pagare le notizie sia il modello che garantisce, nel lungo periodo, le maggiori probabilità di sopravvivenza per il giornale e le maggiori garanzie di indipendenza e affidabilità per i lettori.

    L’amore è libero, le notizie mai (anche quando sono gratis)

    In fondo questo è anche il modello che ha permesso ai Grateful Dead di sopravvivere all’industria della musica senza vendere tanti dischi: hanno creato una comunità di persone per i quali erano rilevanti, che nutrivano un affetto profondo per loro e che tramutavano quell’affetto in partecipazione ai concerti. La parola chiave, nelle industrie creative e culturali che stanno attraversando la lunga transizione al digitale è l’affetto: dei propri fan, lettori, ascoltatori, spettatori. Come sostiene Zizi Papacharissi, una sociologa dei new media americana, i new media sono canali intorno ai quali si costruiscono strutture affettive e parla di pubblici “affettivi”, cioè “formazioni di pubblici connessi in reti che si mobilitano e interagiscono attraverso l’espressione di stati emotivi”. È l’amore e il rispetto per il lavoro dei Grateful Dead che li ha tenuti in vita. E così sarà per Pando Daily e gli altri: solo un legame forte con i propri lettori permetterà di mobilitarne i portafogli.

    Se questo modello sia sostenibile per il futuro del giornalismo, anche su grande scala, lo vedremo nei prossimi anni. Probabilmente lo sarà soltanto per poche, pochissime testate. L’amore è libero, le notizie mai (anche quando sono gratis).

     

    Foto di JJ Ying su Unsplash

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