Ken Loach e il lavoro in Italia

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    Oggi ci troviamo spesso a dover lottare per affermare diritti che fino a pochi anni fa erano scontati perché componevano il patrimonio di valori consolidati e condivisi da un paese civile e moderno. Non stupisce più di dover combattere, non tanto per ottenere una qualche stabilità lavorativa o la possibilità di costruire una prospettiva nel futuro, ma solo per tentare di ridurre condizioni di precarietà e sollevarsi un po’ dall’incertezza del domani.

    Se poi a questo si aggiunge la miopia di chi non vuole investire nel futuro della ricerca pubblica, a non voler approfondire la conoscenza dei cambiamenti che attraversano le vite di tutti ‑ il lavoro, lo sviluppo economico, il destino di chi punta sulla propria istruzione – allora il quadro diventa scoraggiante.

    Il mercato del lavoro italiano sta progressivamente indebolendo le proprie risorse e riducendo le opportunità di occupazione e sviluppo sia per i lavoratori che per le imprese, che faticano sempre di più ad uscire dal terreno melmoso della lunga fase recessiva. L’estensione della crisi del lavoro va al di là dei consueti indicatori economici, come la quota di persone occupate con forme più o meno stabili o il numero di persone in cerca o, ancora, la dinamica stanca della produttività. La crisi tocca ormai anche la sola possibilità di salvaguardare il diritto a un lavoro dignitoso.

    Dicembre 2014, siamo nell’auditorium dell’Isfol (l’Istituto di Ricerca del Ministero del lavoro) in assemblea permanente. Abbiamo occupato l’Istituto. Attendiamo risposte dal Ministero sul destino di 250 precari che lavorano per l’Isfol da oltre sei anni, tutti con i contratti in scadenza. Sembra che il governo voglia indebolire, o addirittura sopprimere, l’istituto.

    La discussione è accesa, si parla del ruolo della ricerca pubblica, della funzione di supporto conoscitivo alle riforme, della valutazione delle politiche, dei politici nostrani, che si distinguono per grandi capacità oratorie ma non si preoccupano di fondare i progetti di riforma su evidenze empiriche robuste, frutto dell’attività dell’istituto stesso. Ci si arrovella per ribadire il valore della ricerca pubblica, per riaffermare la necessità di monitorare e valutare le politiche, per far capire l’importanza di studiare cosa sta accadendo oggi nel mercato del lavoro italiano.

    Si dibatte su quali iniziative intraprendere, si cerca qualcuno a cui chiedere sostegno. Arriva una proposta improvvisa, illuminante, ambiziosa, assurda: «Ken Loach oggi è a Roma per presentare il suo nuovo film. Chiediamo a lui, artista straordinario, sensibile, attento da sempre ai principi di civiltà, un supporto alla nostra lotta».

    Siamo al Cinema Aquila, i biglietti per l’anteprima sono terminati, ma un organizzatore dell’evento prende a cuore la nostra vicenda e ci permette di partecipare all’incontro con Ken Loach. Dopo la proiezione del film il dibattito si apre e ci viene data la parola: «Siamo un gruppo di lavoratori dell’Isfol, un ente pubblico di ricerca che si occupa di studiare il mercato del lavoro e la formazione professionale e che il nostro governo ha deciso di chiudere con il Job’s Act. Oggi abbiamo deciso di occupare il nostro istituto. Vorremo sapere che ne pensa, se vuole esprimere supporto alla nostra lotta». Il regista risponde «È una storia che conosco bene, sta accadendo in tutta Europa. La chiamano flessibilità del lavoro, pensando che i lavoratori possano essere flessibili fino a divenire schiavi alla mercé dei capricci del mercato». Il maestro è visibilmente amareggiato, conosce bene queste vicende, fin dai tempi delle privatizzazioni che hanno messo in ginocchio decine di migliaia di lavoratori inglesi negli anni Ottanta. «Questa flessibilità funziona solo per gli interessi dei datori di lavoro – prosegue – mentre i lavoratori chiedono solo la sicurezza del proprio lavoro e la certezza di un reddito con cui pianificare il proprio futuro. I datori di lavoro vorrebbero accendere e spegnere i lavoratori proprio come un interruttore secondo le esigenze del mercato e del profitto». Il regista descrive con la consueta passione le tendenze del lavoro in Europa, dove si moltiplicano i contratti di lavoro a breve termine. « Nel mio Paese ci sono rapporti di lavoro a zero ore che garantiscono un contratto ma non garantiscono il lavoro: si, questo è straordinario». Il maestro ora si rivolge a noi, alla nostra lotta, che è insieme per il lavoro e per la salvaguardia delle ricerca pubblica. «E’ molto incoraggiante sapere che c’è chi resiste a questa tendenza. Se ho capito bene, voi fate parte di un istituto di ricerca indipendente che compara dati e fatti, svolgendo una funzione di cui tutti noi abbiamo bisogno per conoscere in maniera oggettiva cosa succede nella nostra società. C’è bisogno di avere più persone che fanno il vostro lavoro. Buona fortuna»

    Il dibattito finisce, andiamo verso di lui per una foto con i cartelli che ci accompagnano nella nostra protesta. Lui sorride, ci sorprende: vuole ascoltare la nostra storia e ci da appuntamento per il giorno dopo nel suo albergo.

    Ovviamente accettiamo. L’indomani siamo per strada increduli, emozionati, curiosi: stiamo andando all’appuntamento con Ken Loach. Abbiamo preparato domande, abbiamo una telecamera, una macchina fotografica e tutto ciò che serve per un’intervista. Siamo anche spaventati: siamo ricercatori, non giornalisti, non sappiamo come si intervista uno dei più grandi registi del nostro tempo.

    Arriviamo in albergo, lui ci accoglie con uno sguardo di complicità e dopo i saluti comincia a bersagliarci di domande. Lo scenario si è ribaltato: Ken Loach ci sta intervistando, vuole sapere tutto di noi, del nostro istituto, dei contenuti del nostro lavoro, del valore aggiunto che le nostre ricerche danno allo sviluppo del paese. Ci chiede qual è il disegno del Governo italiano, quali sono le prospettive di chi ritiene opportuno smantellare un istituto di ricerca e mandare a casa centinaia di lavoratori sui quali si è fatto un intenso e lungo investimento formativo. Noi parliamo, raccontiamo, ricordiamo i tempi del primo contratto con l’Isfol, oltre sei anni fa. Si stupisce nel sentire che il rinnovo dei nostri contratti e le spese necessarie a mantenere in vita l’istituto sono finanziati in gran parte da fondi europei: «Quindi i contratti a tempo determinato non sono un costo per il governo italiano? Allora perché non vogliono rinnovarli? Cosa vogliono fare con i finanziamenti europei?». Noi rispondiamo, cerchiamo di spiegare, forse anche a noi stessi, una situazione assurda: forse non si tratta di una questione finanziaria, legata alla spending review o al patto di stabilità, forse non si vogliono destinare fondi alla ricerca, forse non interessa una valutazione indipendente sulle leggi varate dal Parlamento e dal Governo, forse si vuole sopprimere chi, con gli strumenti della ricerca scientifica ha il compito di verificare l’efficacia delle politiche adottate dal Governo. Forse si vuole far tacere una voce indipendente con l’effetto di indebolire la conoscenza e danneggiare il sapere di tutti.

    È passata quasi mezz’ora, il nostro dialogo viene interrotto da una voce fuori campo: «Mr. Loach è una persona estremamente disponibile e generosa, credo che resterebbe a parlare con voi ancora per molto tempo, ma ora ha bisogno di riposare». Lo salutiamo, gli chiediamo se ha voglia di fare un’ultima dichiarazione che ci sostenga e incoraggi noi e i nostri colleghi in questa vicenda. «Io penso che quello che sta accadendo ai lavoratori dell’Isfol è già accaduto a molte persone, licenziate e poi assunte con contratti di lavoro a termine, con il solo scopo di sfruttare più facilmente i lavoratori e di ridurre i salari. Questi meccanismi sono legati ai processi di razionalizzazione della produzione, di privatizzazione e, riducono la qualità del lavoro delle persone». Nel suo sguardo leggiamo tanta intensità e anche un po’ di timidezza mentre prosegue: «Il mio messaggio non è per voi, voi state conducendo la lotta nel modo migliore, il messaggio deve essere per tutti i sindacati e le rappresentanze dei lavoratori, che devono sostenervi, promuovere la vostra protesta, devono intraprendere azioni specifiche in modo che i vostri datori di lavoro sappiano che se non trattano i lavoratori con il rispetto dovuto saranno i primi a subirne le conseguenze… Quello che accade oggi ai lavoratori dell’Isfol può accadere ad altri domani. E’ necessario garantire a tutti un lavoro dignitoso e la sicurezza del reddito. ».

    Usciamo e ci dirigiamo verso il presidio al Ministero del Lavoro, li a pochi passi, dove i nostri colleghi stanno manifestando. Ci fermiamo per comprare fischietti e trombette che daranno voce alla nostra presenza. Vediamo Ken Loach di fronte a noi. È solo, passeggia per via Veneto, ci riconosce, ci sorride, decide di accompagnaci al presidio: vuole vedere il Ministero del Lavoro italiano. Mentre camminiamo ci dice che non ha avuto modo di vedere Roma e osserva attento i caffè, i ristoranti e i negozi. Ci chiede dove ci troviamo, come mai il viale che stiamo percorrendo abbia un aspetto così sfarzoso e i negozi siano così expensive. Siamo in Via Veneto. Noi gli diciamo: «Federico Fellini!», lui ci guarda, sorpreso, esclama: «La dolce vita!».

    Gennaio 2015, i 250 precari dell’Isfol hanno ottenuto una proroga del contratto e le proteste sono, almeno per ora, sospese. L’attività lavorativa dei ricercatori è dunque ripresa ma ora come ora c’è solo da aspettare: la legge delega (Job Act) è stata approvata, ma prima che questa diventi una vera e propria riforma del lavoro bisogna attendere i decreti attuativi che possono contenere modifiche rilevanti. È solo da questi che si capirà se il futuro dei precari italiani sarà di maggior stabilità o un prolungamento dell’agonia.

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