Lee Rainie: il networking è unstoppable

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    Lee Rainie è un americano dal sorriso largo e accogliente. Molto più di quanto mostri l’immagine del suo profilo Twitter. L’ho conosciuto ieri sera a cena, mentre cercavo di mandare giù uno stranissimo dolce gommoso multicolore, molto popolare in Cina, pare. A tavola mi aveva raccontato che quando ha lasciato il giornalismo per la ricerca, nel 1999, il suo giornale vendeva quattro volte le copie che vende ora. Nessuno allora poteva prevedere cosa sarebbe accaduto al giornalismo negli anni a venire.

    I suoi colleghi ancora oggi lo considerano un veggente perché se n’è andato giusto un secondo prima che arrivasse la tempesta perfetta, ma lui ammette che è stata solo una coincidenza (l’understatement che tanto manca in Italia).

    Ci troviamo alla Chinese University of Hong Kong per la conferenza sulle culture globali digitali organizzata da un allievo di Manuel Castells, il prof. Jack Linchuan Qiu. Lee assiste a tutti i panel, interviene, commenta, retwitta. È un superconnettore, che fa da intermediatore tra i dati delle ricerche presentate qui a Hong Kong e la sua rete di contatti che lo segue dagli Stati Uniti.

    Lee è qui per parlare del suo libro scritto con il sociologo Barry Wellman (Networked: the new social operating system, MIT Press, 2013, ne esiste anche la versione italiana), in cui dimostra come la società (soprattutto quella americana) stia cambiando in funzione di tre grandi rivoluzioni tecnologiche: la diffusione delle telecomunicazioni mobili, di Internet e dei social media.

    Queste tre rivoluzioni tecnologiche hanno trasformato, secondo Rainie e Wellman, gli individui in persone connesse, che mantengono legami leggeri con un più ampio numero di persone. Lee sostiene che in futuro le persone saranno sempre più connesse, che il networking è unstoppable (inarrestabile) perché le persone avranno sempre problemi da risolvere e per questo si affideranno sempre di più alle reti sociali che hanno attorno per risolverli.

    Lee mostra anche come l’aumento delle connessioni non riguarderà soltanto gli individui, ma anche e soprattutto le cose: dal 2008 infatti il numero degli oggetti connessi a Internet ha scavalcato il numero degli abitanti della Terra. Nel 2020 la cosiddetta Internet of Things riguarderà 50 miliardi di oggetti. “L’informazione”, sostiene Lee, “è diventata la nostra terza pelle”.

    Lee non spara numeri e previsioni a caso. Il suo libro e le sue parole sono supportate da una significativa mole di dati statistici raccolti negli ultimi 15 anni di ricerca. Lee è il direttore del Pew Internet & American Life Project, un think tank americano no profit che dal 1999 fa ricerca sui temi e i trend che influenzano l’opinione pubblica americana e lo stile di vita dei suoi cittadini.

    Molti dei dati che leggete quotidianamente online sulla penetrazione delle ICT (Information Communication Technology) nella società americana e sull’uso degli old media, di Internet e dei social network negli USA molto probabilmente hanno come fonte proprio il PEW.

    Il PEW è un’istituzione che progetta e commissiona ricerche demografiche e sociali in tutto il mondo, rilasciandole gratuitamente online. Il PEW si considera un’istituzione neutrale, che ha come obiettivo quello di pubblicare dati accurati, che poi saranno analizzati da altri media, per comprendere meglio i cambiamenti in atto nella società americana. Lee sostiene che il merito maggiore del PEW è stato quello di stabilire un benchmark nella ricerca sull’impatto delle tecnologie nella società.

    Quando hanno iniziato, questo tipo di dati non li raccoglieva nessuno. Sono gli unici, prosegue Lee, che fanno questo lavoro di ricerca sull’impatto che le tecnologie hanno sulle persone, le famiglie, i gruppi sociali su scala così grande.

    Recentemente il PEW ha pubblicato il report annuale sullo stato dei media che producono informazione (State of the News Media Report 2015). Ho fatto alcune domande a Rainie per commentare con lui i dati e i trend che sono emersi da questo report, in cui ad esempio si scopre che ormai il 50% degli americani scopre le notizie direttamente da Facebook.

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    Il report mette in evidenza come il consumo di notizie da smartphone sia in crescita esponenziale (39 giornali su 50 negli Usa ricevono più traffico dagli smartphone che dai computer da scrivania). Questo trend sembra inarrestabile. Quali sono le conseguenze per la produzione delle notizie?

    La maggior parte delle industrie editoriali e dei media (stampa e broadcast) si percepiscono ancora come delle industrie che producono contenuti di cui controllano il canale distributivo e le modalità di consumo. Non è più così: l’informazione oggi ha una sua propria vita sociale, rappresenta un’oggetto intorno alla quale si costruiscono nuove relazioni sociali, attraverso l’interazione tra lettori e giornalisti o tra lettori e basta.

    C’è un enorme trasformazione in atto nel modo in cui le persone allocano una risorsa centrale come la propria attenzione: vogliono accedere all’informazione quando vogliono, senza aspettare il momento deciso dai produttori di contenuti. Il palinsesto è costruito dagli utenti e non più dai produttori. E lo smartphone è il centro di questa trasformazione. I giornali e i media in generale dovrebbero capire questo e fare in modo di garantire ai propri contenuti la più longeva vita sociale possibile.

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    Quanto influiscono i networked individuals su questa trasformazione?

    Le persone stanno diventando dei media, degli hub a loro volta, ognuno di noi è un network, un broadcaster, e abbiamo gli strumenti per organizzare il ritmo e i modi in cui vogliamo essere informati. C’è un passaggio di potere dalle media company verso le persone, che decidono quanto, dove e come consumare notizie.

    L’aumento dei networked individuals sta trasformando il modo in cui le media company si percepiscono: devono abituarsi ad accettare il fatto che le persone ricevono le notizie attraverso gli amici connessi alle proprie reti digitali e non più direttamente da loro.

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    Dai dati che avete raccolto c’è un dato in controtendenza con il declino dei media tradizionali: la crescita esponenziale del consumo di podcasting. C’è secondo lei uno spazio di crescita per il giornalismo radiofonico, dopo che è stato considerato per anni il fratello povero del giornalismo cartaceo e televisivo?

    Assolutamente. Di nuovo, questa enorme trasformazione che riguarda il modo in cui consumiamo le notizie – la possibilità di scegliere quando vogliamo guardare, leggere, ascoltare un contenuto – ha un impatto enorme sul broadcasting, che si è sempre basato sulla trasmissione ad orari prestabiliti.

    Il podcasting restituisce agli ascoltatori il potere di ascoltare quando vogliono, mentre fanno altro. L’ascolto asincrono è un trend in aumento da anni, ma negli ultimi due anni, complici la diffusione degli smartphone e il successo di alcune serie radiofoniche americane come Serial, è letteralmente esploso.

    Io non ascolto più la radio, ascolto solo podcast mentre sono in giro, mentre faccio altro. Il multitasking è una caratteristica tipica della contemporaneità – anche se non ci piace – ma il primo mezzo ad essere stato davvero multitasking è stato la radio, fin dagli inizi.

    Ora con il podcasting è ancora più facile sfruttare questa proprietà tipica della radio e di nessun altro mezzo. C’è sicuramente un futuro per l’audio, per il giornalismo che produce storie da ascoltare in forma di podcast, non so se ci sia un futuro per la radio come mezzo sincrono, o meglio, non so se ci sarà per tutte le radio che oggi fanno solo broadcasting.

    Il problema più grande per chi oggi produce podcasting è avere dei dati certi sui consumi, da poter mostrare agli investitori pubblicitari. Manca un sistema di rating condiviso e affidabile.

    Dal tuo punto di vista privilegiato, quali sono tre grandi temi che il giornalismo deve affrontare nel prossimo futuro se vuole avere un futuro?

    Il primo è quello, manco a dirlo, dei modelli di business. Nessuno ha trovato la soluzione. Tutti hanno il problema di farsi pagare i contenuti che producono. E non esiste un’unica soluzione al problema. Esistono soluzioni diverse per pubblici diversi. L’unica soluzione è continuare a sperimentare, non smettere di fare ricerca e sviluppo ed essere pronti a cambiare rotta. La cosa più importante è capire chi è il tuo pubblico, a chi ti rivolgi ed essere capaci di guadagnarsi la sua fiducia. Nell’ecosistema digitale, la reputazione è l’unica moneta universale.

    I contenuti aumentano ma le persone hanno pattern di consumo molto abitudinari

    Il secondo è il tema dell’information overload e come gestirlo. Più aumenta la diffusione dei mezzi capaci di produrre contenuti, più i contenuti aumentano e diventa difficile assegnare loro un valore e farli circolare. Tutti possono essere degli storyteller ma poi quasi nessuno ha un pubblico per la propria storia. Le audience si stanno frammentando sempre più, e il problema numero uno è come metterle insieme, come raggiungerle e come trovare qualcuno che sia interessato a quello che raccontiamo?

    La grande differenza tra lo stato dell’informazione di dieci anni fa e quella di oggi è questo vertiginoso aumento della frammentazione delle audience, della moltiplicazione delle nicchie e della produzione amatoriale.
    I contenuti aumentano ma le persone hanno pattern di consumo molto abitudinari e non navigano spontaneamente alla ricerca di nuovi contenuti e nuovi siti.

    Lo ha dimostrato la ricerca che abbiamo visto oggi (mi riferisco alla ricerca presentata dai ricercatori Angela Wu e Harsh Taneja e pubblicata qui su The Information Society), i cinesi, come gli americani e il resto del mondo, controllano per la maggior parte solo siti nazionali e soltanto un gruppo ristretto di essi: sono i cinesi stessi, molto più che il famoso firewall, ad “auto-ghettizzarsi” dentro i confini dell’Internet cinese, ma questo è un comportamento generalizzato. Ethan Zuckerman, in Digital Cosmopolitans sostiene che uno dei grandi nodi dell’informazione del futuro sarà lo sviluppo di strumenti affidabili per la traduzione automatica.

    Certamente, è così. Il terzo grande tema è invece costituito dalla sfida alla proprietà intellettuale che questa “vita sociale” dei contenuti mediali si porta con sé. E’ sempre stato molto difficile produrre la prima copia di un’idea – un video, un film, un programma radiofonico o televisivo, un giornale.. – ma oggi la copia n.2 non costa praticamente nulla. Come stabilisco il valore di questa copia? Cosa faccio se qualcuno me la ruba e la ripubblica altrove? I modelli tradizionali di valore e compensazione sono in crisi, e anche le leggi non sono adeguate.

    Ma c’è un altro tema, una grande sfida sociale di fronte alla quale ci mette questa trasformazione, ed è questo: in un ambiente così frammentato, dove ognuno riceve informazioni diverse a seconda della rete a cui appartiene, come fanno i media a contribuire alla crescita di un buon cittadino, informato, preparato? Come sostieni la società, le comunità, quando le persone vivono dentro le proprie bolle informative in cui ricevono flussi di notizie individualizzate?

    Non esiste più una sola sfera pubblica. Forse una parziale risposta può arrivare dallo sviluppo dei media civici, come quelli che Ethan Zuckerman studia al MIT Center for Civic Media?

    Forse, ma è solo una delle tante soluzioni. Come vedi, non ho soluzioni, registro soltanto le trasformazioni in corso. E direi che il momento è exciting ma anche scary.


    Immagine di copertina: ph. di Nathan Dumlao da Unsplash

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