I social stanno benissimo, siamo noi a essere morti

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    Avete visto? Sui social ci si annoia. Già. La porzione di internet conosciuta come “social media” è diventata un’accozzaglia di esplorazioni interrotte da valanghe di inserzioni pubblicitarie, contenuti suggeriti (video di animali buffi, la maggior parte delle volte) e pubblicità gestita dagli influencer per consigliarci il prodotto di questa o quell’altra marca. Questo è quello che viene definito “content”: immagini o video pubblicate sui social con l’obiettivo di generare interazioni e far visualizzare la stessa immagine, lo stesso video, al numero più alto possibile di utenti. Ciò che non incontriamo più, invece, sono i contenuti: tutto quello che è, appunto, dentro, contenuto dalle piattaforme, e che ci è finito spontaneamente, seguendo l’impulso comunicativo che proprio ai social ha dato vita.

    Non è solo un problema di idioletto, o di pigri prestiti dall’inglese: content e contenuto dovrebbero essere mondi a parte. Il content, infatti, ha finalità economica. È studiato, assemblato da professionisti. Il contenuto è la foto brutta che pubblichiamo sul nostro profilo, senza pensarci troppo, per comunicare con i nostri contatti e costruire la nostra presenza online. Content e contenuto, dunque, dovrebbero essere diversi.  Solo che, da quando i social sono diventati noiosi, non lo sono più. E se una fotografia non mostra la giusta proporzione di carni scoperte, occhi grandi-grandi, pelle allisciata con i filtri messi a disposizione dalla piattaforma, non comparirà sul feed dei contatti (parliamo, naturalmente, di Facebook e Instagram soprattutto). Per questo, molti hanno annunciato “la fine dei social”, o, variamente, “la morte dei social”. Il problema, però, è che la profezia gira da almeno dieci anni; ma, come nei sogni, più si tirano cancheri a qualcuno, più gli si allunga la vita. I social, infatti, sono ancora con noi. Rimane da capire perché, al contrario, noi siamo ancora con i social.

    La domanda sembra retorica. Invece, la risposta è più contorta di quanto potrebbe sembrare, e apre una nuova prospettiva sulla “pre-morte” dei social media. Prima di cercare una risposta, però, è doverosa una seconda premessa, per ripercorrere la strada che ci ha condotto a questo punto.

    Un riassunto schematico è fornito da Ian Bogost, professore universitario, game designer pluripremiato ed esperto di cultura online, sull’Atlantic: «La transizione [ai social media] iniziò circa 20 anni fa, quando i computer dotati di accesso alla rete divennero abbastanza diffusi da permettere agli utenti di usare internet per costruire relazioni». Questo è ciò che Bogost chiama social network: creare, e mantenere, una rete sociale. Solo che poi sono arrivati i social media: «Il cambio di passo fu quasi invisibile, eppure ebbe conseguenze enormi. Invece che facilitare la messa in atto di legami (pre)esistenti – e soprattutto per la vita offline, per esempio per organizzare una festa di compleanno – i social hanno trasformato quelle connessioni in canali di trasmissione, emittenti informali. Improvvisamente, miliardi di persone si videro diventare celebrità, opinionisti, o arbiter elegantiae».

    La differenza tra social network e social media si riassume in quella tra msn (o il primissimo Facebook) e Instagram (di ieri e di oggi). Il primo offriva dinamiche di comunicazione basate sull’interazione testuale, spesso privata, in cui era compresa la condivisione di link ipertestuali. In sostanza, una chat che sfruttava le possibilità della rete. Il secondo nasce a base fotografica e per stimolare gli utenti a condividere, arricchendo il proprio profilo. Da una parte un effetto-rete, dunque, utile per mettersi d’accordo per la prossima partita a calcetto. Dall’altra l’obbligo di condivisione, anche se sarebbe meglio parlare di pubblicazione per sottolineare l’aspetto mediatico incluso nell’azione. Msn nasceva sulla base di “legami sociali forti”, come scrive Bogost. Instagram e i social media, invece, mettono in scena la dinamica dei legami deboli e superficiali, «quasi senza sostanza. Servono giusto a permettere il flusso del content» (e qui non traduciamo la parola). Sui social siamo tutti, insomma, «emittenti amatoriali».

    I risultati li conosciamo bene, perché sono i social con cui ci confrontiamo giorno dopo giorno. Piazze di un ipotetico villaggio globale in cui i numeri spadroneggiano. È le legge del content: se non hai grandi numeri, non esisti. Infatti, le avvisaglie di morte per un social arrivano alla prima flessione nel numero degli utenti (anche e soprattutto in quanto è la prima metrica che può attrarre o respingere un investitore). Vedasi le lapidi scolpite anzitempo sulla pelle di Facebook (che è da dieci anni che perde utenti, ne riguadagna, e così via), o la fine ingloriosa di quell’esperimento snervante che è stato BeReal. Quando si parla dei social del 2023, la chiave della “quantità” è esegetica. Non solo perché lo psicologo Robin Dunbar ha calcolato il numero massimo di amici che un singolo può sostenere (150). Ma anche perché proprio per questo si parla di media e non network: i social media «forniscono il diritto di parlare a qualsiasi pubblico, in qualsiasi momento». Se suona come il pitch perfetto per una cassa di risonanza politica, o la vetrina definitiva in cui i brand dovrebbero posizionarsi per massimizzare i profitti, è perché i social media sono diventati esattamente questo. Pubblicità, contenuti pagati, calendari editoriali di questa o quella marca: e la disaffezione, almeno sulla carta, verso una via dello shopping non richiesta cresce.

    È questo, in sunto, il punto di caduta che ha portato molti a parlare, negli ultimi tempi, di “morte”, “caos” e “noia” dei e per i social media (qualche esempio qui, qui, qui e qui). Un decadimento del contenuto verso il content, che, come nota Charlie Warzel dall’Atlantic, dice qualcosa sullo stato di salute delle piattaforme. Su Twitter, «i contenuti relativi allo sport e all’intrattenimento stanno calando, mentre le categorie relative alla pornografia e alle criptovalute salgono in popolarità». È una questione analitica, non di giudizio morale. Infatti «storicamente, non è mai un buon segnale quando una piattaforma viene inondata da materiali pornografici o consigli per arricchirsi in fretta». In venti anni, questa è stata dunque l’evoluzione dei social: da network per servire le relazioni della vita reale, a media con cui ampliare la nostra possibilità di discorso, fino allo sfruttamento di tale opportunità a fini commerciali. Dunque, la domanda da cui siamo partiti: che cosa ci facciamo ancora sui social?

    Una prima, parziale motivazione è che i social riempiono il tempo vuoto. In viaggio, in attesa, stanchi ma non ancora pronti a prender sonno: prima dei social (e degli smartphone) ci si ingegnava per scacciare la noia, poi la soluzione ci è stata servita. Ma se anche sui social, alla fine, ci annoiamo, la risposta fornisce solo una parte delle fotografia.

    La seconda ragione, come scrive Warzel, potrebbe dunque trovarsi in un fattore più macroscopico: il cambiamento dei comportamenti online della massa, o meglio, una nuova modalità di consumo e abitazione dell’ambiente online, social compresi. Cambiamento, questo, da leggersi attraverso il pendolo fruizione attiva-fruizione passiva. Se ciò che facciamo sui social è aggiornare il feed, scorrerlo un po’, cliccare a volte con sguardo vitreo su ciò che ci propone, allora stiamo usando il mezzo passivamente. Un comportamento attivo, d’altronde, comporterebbe condividere, buttare un qualche contenuto in pasto al medium. Ma se, come abbiamo visto, il content vince sul contenuto, quale senso rimane al pubblicare? Non è un caso, infatti, che il social infuocato del momento, TikTok – che, dopo un picco pandemico di download nel 2020, proprio nel 2023 è rientrato nella carreggiata della crescita – incoraggi una fruizione passiva del content: un video, un altro, in un feed infinito che ricorda più una live su Twitch, sito dedicato allo streaming, che un social media come Facebook o Instagram.

    Passivi per scacciare la noia, stiamo dunque sui social ma senza ben sapere perché. Non stiamo cercando nulla, se non uno spazio vuoto diverso da quello che stiamo già sperimentando. È uno luogo “geriatrico” per internet, come scrive Warzel, facendo riferimento non ai suoi utenti ma al loro comportamento sui social. Si tratterebbe dunque non di una morte, per i social media e lo spazio che si sono guadagnati nella quotidianità di ciascuno, numeri o non numeri. Bensì di un’evoluzione, che però, contrariamente ai principi darwiniani di selezione della specie, non sembra avere a cuore il preservare i comportamenti più virtuosi.

    Non dobbiamo, però, pensare che sia un cambiamento che ha colto gli utenti di sorpresa. Anzi: il gergo online – questo sì, anglo-centrico – ha ben risposto, seppur forse inconsciamente, a questo nuovo stadio di vita dei social media. L’ha fatto a modo suo, creando nuovi termini per nuovi comportamenti. I tre che ci parlano di più di questa evoluzione sono thirst trap, lurker e creeper, tutti più o meno evoluzione della nozione di orbiting. Quindi, andiamo per ordine.

    Si parla di orbiting quando, come un pianeta lontano ma percettibile in un sistema solare, rimaniamo lì, e non ci scolliamo. Nel caso dei social, la stella a cui orbitare attorno è qualsiasi utente che ci mettiamo a seguire discretamente, parte o meno della sua vita online od offline. Magari non interagiamo con ciò che pubblica, magari non lo seguiamo nemmeno nel senso di schiacciare il tasto Follow. Lo teniamo d’occhio, piuttosto. Osserviamo come si evolve la sua vita senza essere visti. Per questo, il termine è stato coniato per descrivere soprattutto il comportamento di un ex-partner, voglioso di farsi ancora i fatti di qualcuno con cui non ha più legami.

    Derivata dall’orbiting è la thirst trap. Letteralmente “trappola della sete”, la thirst trap è una via per sfruttare in modo avveduto tanto le dinamiche dell’orbiting che la preferenza delle piattaforme per il content. Lo spiega bene (e con leggerezza) Valeria Montebello in un episodio del podcast È solo sesso (Chora, 2023): la thirst trap è la fotografia scattata con innuendo, per far calare la gocciolina al bordo della bocca. Content migliore per un fruitore passivo non c’è.

    Infine, creeper e lurker. Il primo è lo sguardo inquietante che ti segue come una presenza, che non si fa scollare di dosso (dalla parola il film horror cult Creep di Patrick Brice con Mark Duplass). Il secondo è il guardone, chi spia con occhi umidi sapendo di stare ingaggiando in un atto proibito. Presi insieme, orbiting, thirst trap, creeper e lurker delineano la comunità online che siamo diventati: occhi che osservano content creato apposta per essere guardato.

    Questo è il tempo presente dei social media, trasformatisi finalmente nello stadio evolutivo ideale per qualsiasi forma di medium: quello che attira più attenzione, tutta insieme, e che non deve nemmeno muovere un dito per riprodursi, crescere, replicarsi.

    Note