Lessico della violenza patriarcale: #lotta

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    In questi giorni di grande emotività legati ai recenti eventi di cronaca, la discussione sul tema della violenza patriarcale ha prodotto polarizzazioni e spesso confusione. 

    La prima questione riguarda le definizioni. Di cosa parliamo e cosa consideriamo come femminicidio? Come contiamo le vittime? Questa misurazione è comparabile con quella che viene effettuata in altri paesi? E in che modo questo dato può essere correlato ad altri per analizzare la violenza sistemica contro le donne in Italia? 

    In secondo luogo: di che violenza parliamo? Quali sono le cause? Spesso si riconducono questi fenomeni alla violenza e alla struttura patriarcale. Di cosa parliamo quando parliamo di patriarcato? Come si traduce e rende comprensibile una questione epistemica?

    Infine, gli strumenti: come fare prevenzione? Cosa chiedere al diritto? E cosa può fare la politica? 

    Questo breve Lessico della violenza patriarcale vorrebbe provare a fare ordine sui dati e sulle definizioni necessarie per orientare il dibattito, perché le parole non sono neutre, ma nemmeno la violenza lo è, e chiamare le cose col proprio nome è un ottimo punto di partenza per contrastare il livello simbolico, punto di partenza di ogni forma di violenza di genere. Dopo #femminicidio (leggi qui), e #patriarcato (leggi qui) oggi la serie prosegue con #lotta

    Di cosa parliamo quando parliamo di Patriarcato?

    In uno dei passaggi delle molteplici interviste prodotte in questi giorni ai famigliari (e soprattutto alla sorella) di Giulia Cecchettin, la sorella Elena evoca un ricordo di scuola. Giulia le diceva che sembrava un’oplita, ossia il guerriero operaio che con lo scudo in testa è pronto a combattere a prescindere dall’ostacolo che gli si para davanti. Lo scudo non era solo un’arma difensiva, ma permetteva di generare delle spinte utili nel corpo a corpo e negli scontri tra falangi, oltre a menar fendenti. Lo scudo, oplita, in qualche modo, diventa anche strumento di alleanza, e permette di creare un vero e proprio blocco difensivo. Sebbene la metafora bellica stoni in una riflessione come questa, poiché così maschile e poco adatta a descrivere i modelli per contrastare la violenza patriarcale, l’immagine degli scudi uniti e della tenacia racconta bene la risposta ottenuta all’invito deciso di Elena: “Per Giulia bruciate tutto”. A questo primo invito alla ribellione, segue la critica severa al classico paradigma del silenzio in ricordo del dolore delle vittime. La parola d’ordine di questa fase reattiva è “fate rumore”. è interessante la scelta del rumore contro il silenzio, e in qualche modo il rumore diventa il segno dell’indisciplina, l’opposto collettivo dello “stai zitta e buona”, ma anche il segnale del prendersi uno spazio di parola. E c’è stato rumore, il rumore delle chiavi, dei canti e delle oltre 500000 persone scese in piazza a Roma. Ma oggi, martedì, con altre due morti in 24 ore, come incanalare quel rumore? Come si può bruciare tutto? In che modo la forza e la falange scesa in piazza sabato è in grado di diventare forza trasformativa? Quali strumenti abbiamo e quali lotte sono ragionevoli in questo momento e in questo contesto? 

    Sebbene adottare una strategia di lotta al centro di un’ondata emotiva possa avere effetti controproducenti, è certo che queste due settimane hanno avuto una capacità di attivazione che non si vedeva da tempo, e che ricorda l’ondata di indignazione contro le molestie dell’autunno 2017. Ma i percorsi sono tanti, così come gli episodi. Le traiettorie del femminismo come pratica politica collettiva e di piazza, della lotta e del contrasto alla violenza di genere hanno un andamento carsico, non solo perché sono i singoli episodi a scatenare (in modo a volte imprevedibile) le forme di attivazione. Ma anche perché il movimento (che mantiene settantennali linee di continuità) ha avuto alterne fortune, ha visto scissioni, anche accese  Ogni caso, sebbene ora ci sia una maggior consapevolezza, quelle donne, sono collocate spesso in una dimensione a-temporale. Solo in tempi recenti gli eventi di femminicidio sono stati connessi -nel dibattito pubblico- ad una riflessione femminista. Mai come in questo caso la questione politica è stata dichiaratamente problematizzata e la violenza da episodica è stata descritta,  anche grazie alla capacità politica di Elena Cecchettin, attraverso un paradigma sistemico. Ma quale potere si combatte? La battaglia in corso è contro il patriarcato o contro le svariate patologie del potere e le forme di sofferenza sistemica? C’è una battaglia specifica delle donne, una battaglia di genere (estesa anche alle discriminazioni LGBTQI+) o c’è una lotta contro le diseguaglianze più generale, in cui rientra anche la più visibile e numerosa, ossia quella di genere? 

    In primo luogo, è stata problematizzata la battaglia come battaglia contro un potere, e la diseguaglianza come questione di potere. Non che il femminismo non l’avesse già fatto, scritto e analizzato negli ultimi 70 anni, considerando solo il contesto italiano. E altrettanto ha prodotto la decostruzione del “dominio maschile” descritta da Pierre Bourdieu.

    In qualche modo, è cambiato il parlante, o meglio ‘la parlante’ e soprattutto i destinatari. La cronaca si è fatta politica, e ha raggiunto persone che sono state toccate e sensibilizzate in modi inattesi. Molte, moltissime donne. Giovani, giovanissimi. E soprattutto, mai come questa volta, anche gli uomini. 

    Ma una volta attivata la protesta, una volta prodotto il tanto evocato rumore, cosa e come chiedere?

    La prima richiesta fatta è di interrompere la spirale di violenza. Ma, su questa richiesta, viene spesso evocata come soluzione quella giuridica. Dal 1968, ossia la depenalizzazione dell’adulterio ad oggi, sono stati oltre 40 gli specifici interventi normativi sul tema della violenza e sul corpo delle donne. Nel 1981 decade la causa d’onore. Nel 1996 viene introdotta la legge sulla violenza sessuale. Nel 2001 si riforma la violenza domestica. Nel 2009 si introduce il reato di “atti persecutori”. Nel 2013 si introducono una serie di norme “contro il femminicidio” e viene recepita la convenzione di Istanbul. Nel 2017, ancora, vengono estese le misure di prevenzione personali e patrimoniali anche agli indiziati di stalking. Nel 2019 viene introdotto il c.d. “codice rosso”. Ora un nuovo inasprimento delle pene. Se la fragilità giuridica dei diritti soggettivi in campo rende molto difficile districarsi in una legislazione all’apparenza così polarizzata, molto più leggibile è invece la prepotenza politica con cui si continua a normare il corpo e i corpi delle donne. Il corpo delle donne rimane “un luogo pubblico” come aveva evidenziato Barbara Duden. Oggi il diritto viene brandito come arma apotropaica, come soluzione, come strumento (prima mediatico, poi di efficacia giuridica) nelle aule. Rita Laura Segato parla addirittura di “diritto come incantesimo”. Si evoca la magia di uno strumento che tuttavia non solo non è mai risolutivo, ma spesso è aderente alle stesse logiche che si vogliono combattere. Un problema sviscerato nel quasi trentennale dibattito sulla legge sulla violenza sessuale, licenziata solo nel 1996. E, soprattutto, come può un diritto penale che nasce come squilibrio di potere tra parti poter ribaltare questa dinamica? Molte detrattrici hanno spesso parlato dei rischi di questo tipo di polarizzazioni. Da una parte, una retorica vittimaria che riproduce tali forme di potere. Dall’altra, la totale inefficacia della pena come forma di deterrenza. Ogni misura adottata non ha spostato di una virgola i fenomeni più violenti, ma ha solo agito come placebo simbolico e come presa in carico politica dell’allarme sociale. Allo stesso modo, i molti interventi sulla presa in carico da parte delle  forze dell’ordine, i corsi agli agenti, le misure di incentivazione delle denunce sono stati vani. Sbalordisce leggere gli oltre 5000 commenti sotto il post della polizia di Stato che riprende la poesia simbolo di quest’ultima battaglia. Ecco, io credo che più che di diritto cogente, ci sia in questo momento bisogno di una cultura dei diritti, e di spazi delle metropoli per lo scambio e la produzione culturale degli stessi. Che ci sia bisogno di una riappropriazione politica e culturale di quelle pratiche, e non solo da parte delle donne, per restituire uno spazio d’azione e una nuova agibilità.

    Ribaltando il suo paradigma, solo domandando con forza molteplici tutele giuridiche e il riconoscimento di diritti plurimi (di genere, di identità, economico-sociali, legati alla migrazione e alla cittadinanza) si può davvero ridurre la pratica violenta e la dimensione strutturale delle violazioni. Perché la violenza di genere si interseca con le altre patologie del potere. E solo rafforzando la protezione sociale si possono gettare le solide basi per estirpare gli squilibri di potere. Solo con pratiche di empowerment si può ri-bilanciare un meccanismo che è stato squilibrato per millenni. Non solo, ma solo quando le domande di diritti prescindono l’interesse specifico rispetto al diritto in questione la pratica diventa culturale, non solo politica. E per questo la battaglia per i diritti deve essere una battaglia congiunta, non solo delle donne. Perché è possibile combattere insieme e costruire alleanze sulle altre oppressioni e non su quella di genere? Tuttavia, uno dei rischi riguarda l’indeterminatezza dei perimetri di lotta, e il tipo delle strategie da mettere in campo oltre a quelle normative. Perché la domanda centrale è, oggi più che mai, come combattere una battaglia che è soprattutto epistemica? Si può davvero abolire il patriarcato? E con che modalità? Perché, come scriveva Goliarda Sapienza, “Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione”. Non è un caso che il perimetro della questione, la sua dimensione culturale, sia stato tracciato da un romanzo che ha agito come dichiarazione d’intenti: “l’arte della gioia”. Per liberarsi le parole vanno studiate, e pulite. Pulite dal mandato di mascolinità. Pulite da un sapere che umilia e gerarchizza le soggettività. Pulite dal monopolio legittimo della moralità. Liberando il desiderio, i desideri, le strade, le notti. 

    Ma questo non può essere un lavoro solo delle donne. La battaglia è di genere, l’ultima parola spetta a loro, ma come suggerisce Rita Segato la soluzione sta nella reciprocità, perché ci radica, ci posiziona e mette in relazione in modo concreto. E perché non si può essere davvero libere se sottoposte al perenne sguardo disciplinante. 

    Ingaggiare una relazione reciproca senza squilibri, costruire spazi di riconoscimento, pulire il linguaggio, esplorare pratiche di libertà. Solo a quel punto si potrà ampliare lo sguardo, come propone bell hooks, e inserire questa lotta “come parte di un movimento complessivo per porre fine alla violenza. Finora il movimento femminista si è concentrato soprattutto sulla violenza maschile, dando di conseguenza credibilità agli stereotipi sessisti che suggeriscono che gli uomini sono violenti e le donne no, che gli uomini sono gli aggressori e le donne le vittime. Questo modo di pensare ci permette di ignorare in che misura nella nostra società le donne (insieme agli uomini) accettino e perpetuino l’idea che è ammissibile che un soggetto o un gruppo dominante mantenga il potere sui dominati attraverso l’uso coercitivo della forza. Ci permette di sottovalutare o ignorare in che misura le donne esercitino un’autorità coercitiva sugli altri o agiscano con violenza. Il fatto che le donne non commettano atti violenti con la stessa frequenza degli uomini non confuta la realtà della violenza femminile. Se vogliamo eliminare la violenza, in questa società tanto gli uomini quanto le donne vanno considerati gruppi che sostengono l’uso della violenza. Una madre che potrebbe non essere mai violenta, ma che insegna ai propri figli, soprattutto ai maschi, che la violenza è uno strumento accettabile per esercitare il controllo sociale, continua a essere complice della violenza patriarcale. Il suo modo di pensare va modificato.”

    Inoltre, è necessaria una reciprocità e trasmissione sia generazionale che tra soggettività più o meno politicizzate. Parte della questione, storicamente, è stata la diversa capacità di stare e di essere radicali nella critica della violenza. Ma non poteva essere altrimenti, perché tra i primi insegnamenti del femminismo, ancora centrali oggi, c’è proprio il partire da sè, il rendere il personale politico. Forse oggi possiamo partire da un noi, e provare ad allargare, sebbene alcuni giorni (come martedì 28 novembre, in cui dopo le proteste di sabato due donne sono state uccise) siano meno lucidi di altri. Partire dal desiderio, dalla libertà, e non dalle morti. Gerda Lerner, storica che ha ricostruito la storia del patriarcato, ha scelto di compararsi all’epilobio angustfolium. Si tratta di un fiore molto particolare. Ha la capacità di germogliare e fiorire tra le macerie. Nelle zone del vicentino, ricoprì interi campi devastati dalla grande guerra. Ecco. Una volta che tutto sarà distrutto, ci saranno questi fiori ad invadere gli spazi, capaci di gemmare ovunque. Non so se siamo già tra le macerie, o solo all’inizio della battaglia. Ma sono certa che il cammino da percorrere sia quello di una rumorosa fioritura.

     

    Immagine di copertina da Unsplash, ph. Chloe S.

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