In questi giorni di grande emotività legati ai recenti eventi di cronaca, la discussione sul tema della violenza patriarcale ha prodotto polarizzazioni e spesso confusione.
La prima questione riguarda le definizioni. Di cosa parliamo e cosa consideriamo come femminicidio? Come contiamo le vittime? Questa misurazione è comparabile con quella che viene effettuata in altri paesi? E in che modo questo dato può essere correlato ad altri per analizzare la violenza sistemica contro le donne in Italia?
In secondo luogo: di che violenza parliamo? Quali sono le cause? Spesso si riconducono questi fenomeni alla violenza e alla struttura patriarcale. Di cosa parliamo quando parliamo di patriarcato? Come si traduce e rende comprensibile una questione epistemica?
Infine, gli strumenti: come fare prevenzione? Cosa chiedere al diritto? E cosa può fare la politica?
Questo breve Lessico della violenza patriarcale vorrebbe provare a fare ordine sui dati e sulle definizioni necessarie per orientare il dibattito, perché le parole non sono neutre, ma nemmeno la violenza lo è, e chiamare le cose col proprio nome è un ottimo punto di partenza per contrastare il livello simbolico, punto di partenza di ogni forma di violenza di genere. Settimana scorsa abbiamo iniziato con #femminicidio (leggi qui), oggi si prosegue con #patriarcato e poi verrà #lotta.
Di cosa parliamo quando parliamo di Patriarcato?
Il lemma è stato indicato come causa sistemica della morte di Giulia Cecchettin dalla sorella Elena, che ha detto alcune cose molto precise al riguardo: “Mostro è quello che esce dai canoni normali della nostra società. Ma lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è quell’insieme di azioni che sono volte a limitare la libertà di una donna. Come controllare un telefono, essere ossessivi, fare cat-calling. ed è una struttura che beneficia tutti gli uomini. Non tutti gli uomini sono cattivi, mi viene detto spesso. Sì è vero. Però in questi casi sono sempre uomini. E tutti gli uomini traggono beneficio da questa struttura della società”.
Le parole di Elena Cecchettin hanno avuto un doppio effetto deflagrante: primo, perché hanno spostato le responsabilità dal piano individuale a un piano politico e collettivo, e secondo perché hanno ribaltato il problema, aprendo ad altri percorsi di possibile soluzione, ma anche estendendo il campo della lotta e gli obiettivi.
Ma passare dalla responsabilità dei singoli a cause sistemiche significa anche interrogarsi sulle dimensioni di tali cause, e su come sistemi simbolici, ordini sociali e azioni individuali sono correlati.
I termini utilizzati per raccontare un ordine sociale e simbolico che si alimenta e protegge un privilegio sono molteplici: patriarcato, cultura patriarcale, cultura dello stupro, dominio maschile, mandato di mascolinità, sessismo, oppressione, subordinazione.
Ogni donna ha chiara un’esperienza emotiva e molto spesso anche una pratica che si può ascrivere a quei significati, ma i perimetri, l’intensità e l’escalation di tali processi differisce e confonde.
Inoltre, ci sono i concetti nella forma storicizzata e nell’esperienza del presente. Il patriarcato oggi è lo stesso delle nostre nonne o bisnonne? Ha una matrice comune o differisce? é statico o reattivo rispetto ai tentativi di smantellamento?
La storica e femminista Gerda Lerner nel suo “The creation of patriarchy. Woman and History” analizza non solo come già in Aristotele le differenze di temperatura avessero creato strutture di differenziazione e subordinazione tra uomini e donne, ma analizza l’intero vocabolario delle opzioni per raccontare il rapporto di potere tra generi.
Lerner è molto lucida nel valutare l’adeguatezza analitica dei concetti usati. Scrive infatti che Il problema della parola patriarcato, che la maggior parte delle femministe usa, è che ha un significato ristretto e tradizionale, non necessariamente quello che le femministe gli attribuiscono. Nella sua accezione ristretta, il patriarcato si riferisce al sistema, storicamente derivato dalla legge greca e romana, in cui il capofamiglia maschio aveva un potere legale ed economico assoluto sui membri della famiglia, maschi e femmine, che dipendevano da lui. Le persone che usano il termine in questo modo spesso ne implicano una storicità limitata: il patriarcato è iniziato nell’antichità classica ed è terminato nel XIX secolo con la concessione dei diritti civili alle donne e in particolare alle donne sposate. Questo uso è problematico perché distorce la realtà storica: se da una parte il dominio patriarcale dei capifamiglia maschi sui loro parenti è molto più antico dell’antichità classica; inizia nel terzo millennio a.C. ed è ben consolidato al tempo della scrittura della Bibbia ebraica; allo stesso modo si può sostenere che nel XIX secolo il dominio maschile nella famiglia assume semplicemente nuove forme. Il patriarcato, nella sua definizione più ampia, significa la manifestazione e l’istituzionalizzazione del dominio maschile sulle donne e sui bambini all’interno della famiglia e l’estensione del dominio maschile sulle donne nella società in generale. Implica che gli uomini detengano il potere in tutte le istituzioni importanti della società e che le donne siano private dell’accesso a tale potere.
Il paternalismo descrive la relazione di un gruppo dominante, considerato superiore, con un gruppo subordinato, considerato inferiore, in cui la dominanza è mitigata da obblighi reciproci e diritti reciproci. I dominati scambiano la sottomissione con la protezione, il lavoro non retribuito con il mantenimento. La base del “paternalismo” è un contratto di scambio non scritto: sostegno economico e protezione da parte dell’uomo in cambio di subordinazione in tutte le materie, servizio sessuale e servizio domestico non retribuito da parte della donna.
Possiamo allora dire che il patriarcato è la struttura dell’oppressione delle donne? Per Lerner il termine “oppressione” significa subordinazione forzata, è stato usato per descrivere la condizione di soggetto degli individui e dei gruppi, come nell'”oppressione di classe” o nell'”oppressione razziale”. La storica sostiene che il termine descriva in modo inadeguato il dominio paternalistico che, pur avendo aspetti oppressivi, comporta anche una serie di obblighi reciproci e spesso non viene percepito come oppressivo, o quantomeno non da tutte, con la stessa intensità o nello stesso modo. Il termine “oppressione delle donne” evoca inevitabilmente il confronto con gli altri gruppi oppressi e induce a pensare in termini di comparazione dei vari gradi di oppressione come se si trattasse di gruppi simili. Per Lerner l’uso dell’espressione “subordinazione” delle donne al posto della parola “oppressione” presenta vantaggi evidenti. La subordinazione non ha la connotazione di un’intenzione malvagia da parte del dominante, ma consente la possibilità di una collusione tra lui e il subordinato; include la possibilità di un’accettazione volontaria dello status di subordinato in cambio di protezione e privilegi, una condizione che caratterizza gran parte dell’esperienza storica delle donne, che chiama “dominio paternalistico”. Il termine “subordinazione” comprende altre relazioni oltre alla “dominanza paternalistica” e ha l’ulteriore vantaggio, rispetto a “oppressione”, di essere neutrale rispetto alle cause della subordinazione.
Pierre Bourdieu ha parlato invece di “dominio maschile” come struttura basata su tre istituzioni interconnesse: famiglia, educazione, istituzioni. Un dominio che si struttura producendo differenti gradi di violenza: violenza simbolica (“le donne sono più sensibili e gli uomini più forti”), violenza politica (le legislazioni sui corpi delle donne, come la regolamentazione dell’aborto) e violenza sistemica, senza dimenticare le forme di violenza fisica.
In particolare, la violenza simbolica è una sorta di violenza cognitiva, che può funzionare solo appoggiandosi sulle strutture cognitive di chi la subisce. Più propriamente, secondo Bourdieu, la violenza simbolica si esercita con la complicità di strutture cognitive che non sono consce, strutture profondamente incorporate, che – per esempio nel caso della dominazione maschile – si apprendono attraverso i processi di socializzazione dove si impara a collocarsi nel mondo sociale, a riconoscere i ruoli, le strutture linguistiche e così via.
Il sessismo definisce l’ideologia della supremazia maschile, della superiorità maschile e delle credenze che la sostengono e la supportano, interconnettendo violenza simbolica e violenza sistemica. Sessismo e patriarcato si rafforzano reciprocamente. È chiaro che il sessismo può esistere in società in cui il patriarcato istituzionalizzato è stato abolito.
Alcune autrici hanno parlato di “sessismo democratico”, ossia di forme sottili, ritenute accettabili e spesso invisibilizzate nei discorsi pubblici dalle forme di emancipazione e riconoscimento dei diritti delle donne.
Rita Laura Segato, femminista argentina, declina quel processo simbolico in un ordine di potere, parlando di vero e proprio mandato di maschilità/mascolinità, ossia il dover attenersi degli uomini a tutti quegli imperativi morali e culturali che sono tra i propulsori della violenza maschile. Ancora, Raewyn W. Connell invita a utilizzare l’espressione “maschilità egemonica” che consente di stabilire le relazioni che intercorrono tra i diversi tipi di maschilità per cui talune forme diventano dominanti rispetto ad altre marginali o subordinate.
Ma cosa comportano queste strutture e questi ordini simbolici? Di fatto, come dice Mantioni, il monopolio dell’uso legittimo della morale.
Se queste strutture impongono differenti spazi di libertà e di liceità, parte del problema è in che modo pratiche intime, di relazione si fanno sistema, e si possono correlare con le forme più macroscopiche di violenza e sofferenza strutturale.
bell hooks, ne “il femminismo è per tutti” ci dice invece che “La violenza patriarcale tra le mura domestiche si fonda sull’idea che è accettabile che un individuo dotato di maggior potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva. Questa definizione allargata di violenza domestica include la violenza maschile contro le donne, la violenza tra persone dello stesso sesso e la violenza degli adulti contro i bambini. L’espressione «violenza patriarcale» è utile perché, a differenza della formula più accettata di «violenza domestica», ricorda continuamente a chi ascolta che la violenza in famiglia è legata al sessismo e al pensiero sessista”.
Anzi, aggiunge: “In una cultura della dominazione tutti sono educati a considerare la violenza uno strumento accettabile di controllo sociale. I soggetti dominanti mantengono il potere con la minaccia (messa in atto o meno) di ricorrere a una punizione severa, fisica o psicologica, ogni volta che le strutture gerarchiche in vigore sono minacciate, che sia nelle relazioni uomo-donna o nei legami tra genitore e figlio. La violenza maschile contro le donne ha ricevuto una costante attenzione mediatica (come mostrano casi giudiziari reali quali il processo contro O. J. Simpson), ma la sensibilizzazione non ha portato il pubblico americano a contestare le cause che sono alla radice della violenza, a contestare il patriarcato. Il pensiero sessista continua a sostenere il dominio maschile e la violenza che ne consegue. […] La socializzazione maschile, affidata a uomini della classe dominante, li porta ad accettare di essere dominati nella sfera pubblica del lavoro e a credere che la sfera privata della casa e delle relazioni intime restituirà loro il senso di potere che identificano con la maschilità. Poiché più uomini sono entrati nelle file dei disoccupati o ricevono salari bassi e più donne sono entrate nel mondo del lavoro, certi uomini hanno la sensazione che il ricorso alla violenza sia il solo modo di stabilire un ordine”.
Ma se ogni passo in avanti porta a reazioni e tentativi di ristabilire un ordine di dominazione e subordinazione, che spazio c’è per essere libere, desideranti e per le relazioni di coppia? Come possiamo immaginare un futuro senza paura? E quali strumenti possono essere messi in campo per contrastare un sistema così articolato di azioni/reazioni? Inoltre, è utile per noi connettere l’individuale-il collettivo e il sistemico?
Immagine da Unspash: ph. Boston Public Library