Nel grande seminario mondiale, residenziale e a tempo pieno in cui ha convocato miliardi di persone, il Coronavirus è salito in cattedra e ha impartito lezioni con severa intransigenza cercando di insegnarci o ricordarci verità che ci ostinavamo a negare. Ha cercato di insegnarci che i fatti e i dati debbono prevalere sulle opinioni; la competenza riconosciuta deve prevalere sul semplice buon senso; la prudenza e la gradualità degli interventi debbono prevalere sullo spavaldo decisionismo e sulla spericolata improvvisazione.
Ha cercato di insegnarci che, in regime d’incertezza, l’unica cosa da accelerare è la capacità di «apprendere ad apprendere» facendo tesoro di ogni indizio per scovare le soluzioni giuste. D’altra parte, è necessario tollerare gli errori di chi ha la terribile responsabilità di prendere le decisioni e va generosamente aiutato a migliorarle.
Ha cercato di insegnarci che, di fronte a un nemico sconosciuto, così come di fronte a ogni problema complesso, le decisioni non solo debbono essere prese da persone competenti, ma debbono essere comunicate in modo univoco, autorevole, tempestivo, completo e chiaro.
Oggi questa crisi epocale, con i suoi morti e le sue tragedie, ci insegna a riequilibrare i rapporti tra pubblico e privato.
Ogni allarmismo, ogni esagerazione, ogni sottovalutazione, è micidiale perché confonde le idee e fa perdere tempo prezioso. Carenza ed eccesso di informazioni sono parimenti dannose. Ha cercato di insegnarci che, nei paesi civili, il welfare è una conquista irrinunziabile. […]
La propaganda neo-liberista, che ha imperversato dai tempi di Reagan e della Thatcher, è riuscita a screditare tutto ciò che è pubblico in favore del settore privato. […] Oggi questa crisi epocale, con i suoi morti e le sue tragedie, ci insegna a riequilibrare i rapporti tra pubblico e privato. […]
Nel grande seminario del lockdown il Coronavirus ci ha soprattutto avvertito che, prima della pandemia, eravamo giunti all’ultima e massima spirale della lumaca: se osiamo costruirne una ancora più larga, insistendo sui medesimi disvalori e sulla medesima dismisura, resteremo schiacciati sotto la nostra stessa costruzione.
Ci ha perciò consigliato di riprogettare il nostro modello socio-politico e, nel suo ambito, il lavoro che ne rappresenta un tassello fondamentale e che va liberato da tutte le paradossali incrostazioni accumulate nei duecento anni di gloriosa ma imperfetta storia industriale. Tutto ciò esige una rivoluzione strutturale e una culturale. Quella strutturale dovrebbe iniziare modificando persino l’incipit della Costituzione perché, grazie al progresso tecnologico, ormai il lavoro copre appena un decimo della nostra vita.
Dunque, la democrazia non può essere fondata solo su quel decimo. In una società dove, per la maggioranza dei cittadini, il lavoro è destinato a perdere quantità e centralità, accanto ad esso emergono altri pilastri del sistema democratico, tutti inscritti nella sfera del non-lavoro, che comprende formazione, introspezione, amicizia, amore, gioco, bellezza e convivialità. Comprende anche un modello di famiglia dove i vecchi non vengano stivati negli ospizi e, in caso di pandemia, la metà di essi non debba essere immolata all’egoismo dei figli, posseduti dal demone del lavoro.
Se oggi i genitori sgobbano dieci ore al giorno e, anche per questo, i figli restano disoccupati, occorre ridistribuire equamente, insieme al poco lavoro che resta, anche la ricchezza, il potere, il sapere, le opportunità e le tutele.
Se il lavoro non verrà ridistribuito, anche ricorrendo all’escamotage dei contratti di solidarietà, un numero crescente di disoccupati sarà costretto a consumare senza produrre e la stagnazione economica causerà conflitti sociali sempre meno gestibili. Nello stesso precipizio ci conduce l’iniqua distribuzione della ricchezza, che oggi addensa nelle mani di otto straricchi una quantità di beni pari a quella posseduta da mezza umanità, cioè da 3,6 miliardi di poveri. La saltuarietà del lavoro, insita nella sua natura postindustriale, rende necessario coprire le fasi di vuoto occupazionale con un congruo reddito universale mentre occorrerà assicurare, a chiunque lavori, un salario minimo costantemente aggiornato in base alla crescente produttività.
Tutto ciò esige una rivoluzione strutturale e una culturale. Quella strutturale dovrebbe iniziare modificando persino l’incipit della Costituzione perché, grazie al progresso tecnologico, ormai il lavoro copre appena un decimo della nostra vita.
A questa rivoluzione strutturale occorre accompagnarne una culturale che può partire proprio dalle raccomandazioni che Keynes consegnava ai suoi nipoti, nostri contemporanei. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione «denaro» il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali. Oltre a coltivare la parsimonia e i piaceri dell’umana esistenza, occorre condannare la grettezza con cui tutte le agenzie di socializzazione – la famiglia, la scuola, i media – si adoperano a focalizzare l’educazione dei giovani sul lavoro – inglese, internet, impresa – anziché sulla vita. […]
Per incrementare produttività e creatività, risorse irrinunciabili dell’uomo postindustriale, occorre destrutturare lo spazio e il tempo di lavoro. Il necessario affiatamento e l’indispensabile entusiasmo possono realizzarsi tra persone che lavorano fianco a fianco in un medesimo ufficio ma possono parimenti ottenersi in un team di persone dislocate a migliaia di chilometri di distanza l’una dall’altra, però spesso collegate telematicamente ed emotivamente. Grazie allo smart working l’isolamento fisico dei singoli non contrasta più con il loro lavoro di gruppo, la solitudine dell’individuo che riflette non gli impedisce di collaborare con l’équipe che discute, la stanzialità del corpo non contraddice il nomadismo del pensiero e tutto questo finalmente ricongiunge ciò che Taylor aveva diviso: lo studio, il lavoro, il tempo libero, la vita produttiva e quella riproduttiva.
Da sempre i lavoratori creativi, l’artista e lo scienziato, il giornalista e il libero professionista, non hanno fatto altro che giustapporre lavoro e vita. Perché non dovrebbero farlo, attraverso lo smart working, anche gli impiegati, i manager, i funzionari, i professionals, i knowledge workers, i colletti bianchi? Ma c’è di più. Oggi che lo smart working, con la insperata complicità di un pipistrello cinese, ha stravinto salvando salute, scuola ed economia, oggi che, improvvisamente, milioni di lavoratori sono stati costretti al lavoro agile, oggi spiegarlo, divulgarlo, propagandarlo, come abbiamo fatto in molti durante gli ultimi quarant’anni, da una parte non occorre e dall’altra non basta più.
Occorre condannare la grettezza con cui tutte le agenzie di socializzazione – la famiglia, la scuola, i media – si adoperano a focalizzare l’educazione dei giovani sul lavoro – inglese, internet, impresa – anziché sulla vita.
Oggi i lavoratori intellettuali, in tutti i casi in cui è oggettivamente possibile, sono legittimati non solo a pretendere l’introduzione di uno smart working codificato, contrattato, formalizzato, ma anche a pretendere che si passi dal lavoro come zona separata, codificata, segregata, dell’esistenza umana, all’attività vitale in cui lavoro, studio e gioco si mescolino in un mix che, provocatoriamente, mi piace chiamare «ozio creativo».
Per ozio creativo – come ho cercato di dire più volte – non intendo svogliatezza, pigrizia, disimpegno ma intendo quello stato di grazia che si raggiunge quando si fa qualcosa che, nello stesso tempo, ci da la sensazione di lavorare, di studiare e di giocare. Qualcosa con cui, contemporaneamente, produciamo ricchezza, apprendimento e allegria. Una sensazione di godibile fierezza che accende la nostra immaginazione e ci fa sentire pienamente umani. […]
Per realizzare questa simbiosi in cui lavoro e vita si potenziano reciprocamente invece di mortificarsi a vicenda, occorre che lo smart working sia solo un tassello del nuovo mosaico che sostituirà integralmente il paradigma industriale con quello postindustriale. Questa grande conversione di massa, che potrebbe essere lieve e felice, probabilmente non sarà facile né indolore. […]
Ancora per molti anni, a tanti potenziali smart worker, apparirà del tutto normale uscire di casa ogni mattina, affrontare le spese e il disagio del traffico per raggiungere l’ufficio dove lo attende una scrivania e un pc e dove egli svolgerà un lavoro che avrebbe potuto fare tranquillamente nel suo tinello o nel bar sotto casa. Normale ciò apparirà anche a molti imprenditori, manager, sindacalisti, politici, amministratori e studiosi impegnati a fermare il futuro.
Il Coronavirus è una sventura. Ma, dal momento che sta facendo i suoi danni, tanto vale profittarne per cambiare verso al significato e all’organizzazione del lavoro. Purtroppo coloro che guidavano le danze aziendali quando entrammo nel tunnel, sono gli stessi che le guideranno quando ne saremo usciti.
Ciò rende improbabile ma non impossibile, e comunque auspicabile, la palingenesi dello smart working. Su un muro di Madrid, città anch’essa martoriata dalla pandemia, una mano guidata dall’ottimismo della volontà ha scritto: «No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema».