Tengo un taccuino rosso sul tavolo della cucina e tre libri sdraiati sul dorso. Primo dei tre libri: Star bene in acque torbide. Una guida per trovare la pace nel caos quotidiano di Ezra Bayda (Ubaldini Editore). Sopra questo, alla mia destra, ci sta La bambina fulminante di Paolo Nori, romanzo per ragazzi uscito da poco per Rizzoli che racconta la storia di Ada, una bambina che «quando tira degli accidenti a qualcuno (in rima), quegli accidenti lì poi arrivano» per davvero.
Leggendo il libro che tengo sul tavolo alla mia sinistra, non so cosa potrebbe accadere a voi semmai lo leggerete, ma a me sono partiti molti accidenti. Forse perché non erano in rima? Non hanno sortito alcun effetto. Eppure. Ad ogni modo, insomma al netto dei brancolamenti introduttivi, il libro in questione si intitola Privati del patrimonio, è edito da Einaudi e lo ha scritto Tomaso Montanari, docente di Storia dell’arte moderna all’Università Federico II di Napoli.
Nota al testo, l’autore scrive: «Questo libro è un tentativo di rispondere alla domanda – retorica e disimpegnata – che mette invariabilmente fine a ogni discussione sull’ingresso dei privati nel governo del patrimonio culturale pubblico: “Perché no? Che male c’è?” [Queste] pagine intendono spiegare “perché no”, e indicare “cosa c’è di male”. E anche mostrare che possiamo andare in un’altra direzione». La Tesi del libro la traggo dalla Premessa: «Il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi. Questo non vuol dire che non ci sia spazio per un impegno dei privati: al fianco, e non al posto, dello Stato».
Il calore con cui l’autore affronta e argomenta la faccenda potrebbe indurre a conclusioni parziali o addirittura errate: se pure, per rispondere alle domande di cui sopra, l’autore si mette precisamente da una parte, quella parte non è però la sua, ovvero è la sua ma solo in quanto egli è parte di uno Stato la cui carta d’identità si chiama Costituzione della Repubblica Italiana. «Il metro col quale ho cercato di misurare le sedicenti verità sui privati» scrive Montanari «è il metro della Costituzione. Perché l’articolo 9, e i suoi nessi con gli altri principî sui quali è stata fondata la Repubblica, ha spaccato in due la storia dell’arte, rivoluzionando il senso del patrimonio culturale. La Repubblica tutela il patrimonio per promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la ricerca (art. 9): e questo serve al pieno sviluppo della persona umana, e alla realizzazione di una uguaglianza sostanziale (art. 3). Oltre al significato universale del patrimonio, questo sistema di valori ne ha creato uno tipicamente nostro: il patrimonio appartiene a ogni cittadino – di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile. Il patrimonio ci fa nazione non per via di sangue, ma per via di cultura e, per così dire, iure soli: cioè attraverso l’appartenenza reciproca tra cittadini e territorio antropizzato. Perché questo altissimo progetto si attui è necessario, però, che il patrimonio culturale rimanga un luogo terzo, cioè un luogo sottratto alle leggi del mercato».
Se lo cito molto è perché parlare “sopra” questo libro (mi) è difficile. Cos’altro dire? È la domanda che (mi) accompagna (in) tutta la lettura. Prendendola dal verso delle – per usare un eufemismo – politiche culturali, il libro ritrae e analizza due problemi dell’Italia ben più vasti, decisamente fondamentali, ridicolmente affrontati finora – e come potrebbe essere altrimenti – dalla classe cui competerebbe l’azione ma che ne è insieme la causa manifesta. I due problemi si chiamano inettitudine e corruzione.
Privati del patrimonio, nonostante le sue dimensioni (poco più di 180 pagine), riesce a contenere una lunghissima carrellata delle porcherie messe in atto dalla politica italiana nel campo della gestione del nostro patrimonio culturale. È illuminante leggere in successione le dichiarazioni degli ultimi ministri della Cultura, a prescindere dalla fazione e dal periodo storico. Unisce tutti – l’autore concede un’eccezione al solo e fugace, nel senso dei dieci mesi di ministero, Massimo Bray – l’«inno al salvifico intervento dei privati» cui si aggiunge il mantra dei Beni culturali = petrolio/giacimento/vattelappesca d’Italia, qualsiasi cosa basta che ci si ricordi dell’opportunità di «sfruttarlo» a modino.
Qualsiasi cosa, ma non è un caso che siano tutte metafore costruite su risorse esauribili e inquinanti, o su pratiche invasive e logoranti: Montanari svela a più riprese, vocabolario alla mano, l’eloquenza forse inconsapevole o forse no di tanta poeticità ministeriale, attraverso analisi tutt’altro che oziose. Comunque. Viste le dichiarazioni, immaginare le azioni, di quei ministri, che sono state molte e nefaste, e grossomodo tutte conformi a uno stesso modello di gestione che snatura progressivamente il senso costituzionale del patrimonio.
All’origine dell’anomalia italiana, non che questo rincuori nessuno, ma pare esserci un’anomalia più generale. «Il fenomeno – noto come la “maledizione delle risorse” – è stato descritto a partire dalla cosiddetta Dutch Disease, la formula con cui gli economisti descrivono l’accelerazione della deindustrializzazione e l’aumento della corruzione che colpiscono i paesi che scoprono di avere un’imprevista riserva di materie prime.
L’espressione comparve per la prima volta sull’«Economist» del 26 novembre 1977, in un articolo che si occupava della relazione tra la scoperta del più grande giacimento di gas naturale dell’Europa continentale – appunto in Olanda, a Slochteren, nel 1959 –, la creazione del colossale consorzio pubblico-privato che l’avrebbe sfruttato e la crisi del settore manifatturiero, e addirittura della democrazia, olandesi. […] In Italia, una forma del tutto peculiare di Malattia Olandese si è manifestata anche nella direzione presa dall’economia del patrimonio culturale – lo ha notato il sociologo dell’economia Andrea Declich».
La direzione presa in Italia dall’economia del patrimonio culturale coinvolge strumenti quali quello della concessione, fino al ’93, prima cioè della Legge Ronchey, riservato a servizi quali gas, elettricità, infrastrutture ferroviarie ecc. Attraverso concessioni, lo Stato assegna regolarmente a terzi – associazioni, fondazioni, consorzi, S.p.A. – la «valorizzazione», la «promozione», se non la gestione di interi pezzi del patrimonio culturale; in altri termini, lo Stato cede progressivamente il proprio (ma si legga «il nostro») patrimonio a personaggi provenienti da, o in affari con, rappresentanti dello Stato stesso, così che, se pure rimane vero che il settore culturale non è mai in grado di creare ricchezza di per sé, ecco spuntare qualcuno che riesce nel miracolo di contraddire l’ovvietà, drenando nelle proprie tasche il denaro pubblico che avrebbe dovuto garantire invece la gestione di quel patrimonio con scopo formativo cioè con l’obiettivo di garantire, secondo Costituzione, «pieno sviluppo» al cittadino. Del resto, come nota Paolo Viti, citato da Montanari, «per fare quattrini con le mostre bisogna porsi l’obiettivo di fare quattrini e non di fare belle mostre».
Montanari descrive un fenomeno dissociativo, che sfocia in esiti ridicoli e imbarazzanti. Ecco un esempio a caso. Primavera del 2013. Il gruppo bronzeo dell’Incredulità di San Tommaso di Andrea del Verrocchio viene spedito da Firenze a Roma, per essere esposto nella Galleria Borghese. Per l’occasione, il biglietto d’ingresso alla Galleria viene aumentato di due euro. Cosa sono due euro di fronte a un capolavoro dell’arte rinascimentale? Non sono niente. Se non fosse che a un’ora e mezzo di treno, là dove tranquilla stava, al Museo di Orsanmichele a Firenze, la scultura la si poteva vedere gratis, ogni lunedì. Ma c’è di più, aggiunge Montanari: «il 92,5% di questo introito aggiuntivo andò al Comitato San Floriano, che aveva altresì il diritto di organizzare alla Borghese ben sessanta eventi serali, a pagamento. È facile fare due conti: il pio Comitato friulano ha guadagnato circa 1.300.000 euro dall’evento, avendo un costo vivo non superiore a 50.000 euro: e senza esser passato attraverso nessuna gara pubblica, come accade invece alle società di servizi di questo mondo».
Così si avvera il paradosso di un popolo che – parafrasando Montanari – riesce, grazie ai propri rappresentanti, a ricomprare dai privati ciò che era già suo (si veda al proposito il capitolo «Gradi di alienazione», sulla svendita degli immobili d’interesse artistico e culturale da parte dell’«Agenzia del Demanio», cioè da parte dello Stato, cioè da parte nostra, a… noi stessi). Dalla lettura di questa indagine, lo Stato emerge come un ologramma: reale, per quanto fantasmagorico, se visto da lontano; illusorio e proiettivo se visto da vicino.
Proiettivo, ovvero proiettante un’immagine fissa e sempre uguale a se stessa, secondo un meccanismo analogo a quello dei classici finti occhiali con due occhi aperti sbarrati dipinti sulle lenti, dietro cui dormire beati; con la differenza che lo Stato, dietro la propria immagine, non dorme né è beato, ma si rende operoso, albergando faccendieri di piccola e grossa taglia, assecondando il loro moto ontofago e bipolare. La parola «Stato» sembra insomma rimandare a un fantasma, a un lenzuolo illusionistico agitato dalla retorica pubblicitaria della corporazione politica allo scopo di perpetuare un potere oligarchico a favore delle lobbies i cui attori si muovono in un rapporto osmotico quando non identitario e ubiquitario con gli attori delle istituzioni e del governo.
Non è un caso se quella retorica pubblicitaria la politica l’ha imparata e la impara quotidianamente dagli stessi privati ai quali si aggancia in un tandem vizioso e degradante. Oltretutto non si tratta più soltanto di semplice marketing, ma di un marketing ingannevole che, da strategia atta a far acquistare ciò di cui non si ha bisogno ma il cui bisogno si comincia inspiegabilmente a sentire, diventa una strategia onnipervasiva e spudorata, perfettamente in grado di sostituire ogni livello della comunicazione.
Ma così si va fuori tema, e allora chiudo con una domanda, utile tra l’altro a dar senso al primo dei due titoli di libri fuorvianti citati all’inizio: Come riuscire a star bene in queste acque torbide? C’è una grossa probabilità che ciò sia impossibile. Dando credito invece alla scarsa probabilità di riuscire a stare tutto sommato bene, e magari vedere quelle acque prima o poi schiarirsi, un primo buon passo potrebbe essere quello di prender consapevolezza di quanto è accaduto e sta accadendo ai nostri beni, magari leggendo questo ottimo libro. Un secondo e più importante passo sia però quello in grado di alzare ancor più la guardia della consapevolezza, offrendo a questi molti allarmi la più forte eco possibile, senza perdere la speranza, credendoci ancora, anche a costo di passare per dei poveri fessi.
da doppiozero