Nuove forme di rappresentazione: Joshua Clover

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    Nel 2021 il gruppo di attivisti Collective Action in Tech aveva mappato 427 proteste nell’industria tecnologica, di cui 104 organizzate da gig worker, ma le azioni documentate sono solo una frazione di quelle avvenute finora in tutto il mondo. Tra 100 anni, gli storici del futuro guarderanno a queste prime mobilitazioni come all’inizio di una nuova stagione di organizzazione collettiva del lavoro? Così come le lotte operaie, le società di mutuo soccorso e i sindacati del XIX e XX secolo rappresentavano una risposta allo sfruttamento del lavoro da parte del nascente capitalismo industriale, le proteste odierne dei lavoratori della “gig economy” rappresentano una reazione alle pessime condizioni di lavoro codificate dai capitalisti delle piattaforme nelle loro app.

    Tuttavia, le azioni collettive dei gig worker sono molto diverse dalle proteste dell’epoca del capitalismo industriale. Innanzitutto, si tratta spesso di manifestazioni auto-organizzate, senza la mediazione di sindacati tradizionali, anche se stanno già nascendo nuovi sindacati della “gig economy” in tutto il mondo. Inoltre, queste manifestazioni sono spesso più simili a rivolte che a scioperi. Spesso assumono la forma di proteste violente, che durano diversi giorni, come esplosioni improvvise, che non portano ad alcun risultato se non quello di sfogare la rabbia e la frustrazione dei lavoratori. Da un lato, le piattaforme non hanno alcuna intenzione di sedersi a un tavolo per negoziare migliori condizioni di lavoro per i gig worker, perché si ostinano a considerarli loro clienti o collaboratori, e non loro dipendenti. Dall’altro, non esiste un’organizzazione sindacale in grado di rappresentare gli interessi collettivi di una forza lavoro molto composita e frammentata. In questo contesto, è comprensibile che scoppino più rivolte che scioperi. 

    Questa è la tesi dello studioso di Inglese e Letteratura comparata all’università di California “Davis”, Joshua Clover, espressa nel suo libro Riot. Sciopero. Riot, appena tradotto in Italiano da Meltemi (titolo originale Riot. Strike. Riot: The New Era of Uprisings, Verso editore, 2016). E’ il mio interesse recente di ricerca per le forme di “agency”, o agentività”, dei lavoratori della gig economy che mi ha portato, da studioso dei media, ad avvicinarmi allo studio di queste forme di azione collettiva nell’ambito della società di piattaforma e a incontrare il libro di Clover. Lo studioso americano sostiene che gli anni in cui viviamo siano l’epoca delle rivolte più che degli scioperi. Il suo libro tenta di fornire un’analisi del declino dello sciopero e del riemergere della rivolta (riot) dal punto di vista del materialismo storico.

    Clover sostiene che il tipo di capitalismo emerso nel XIX e XX secolo aveva come controparte le lotte dei lavoratori e gli scioperi, mentre il capitalismo finanziario e sempre più guidato dai dati che sta emergendo all’inizio del XXI secolo genera più facilmente “il riot, il blocco, la barricata, l’occupazione” (p. 199). Queste forme di protesta, secondo lui, sono quelle che vedremo di più esplodere nei prossimi dieci, quindici, quarant’anni. Clover sostiene che lo sciopero e la rivolta sono forme diverse di azione collettiva. Il primo è una forma di azione collettiva che “lotta per imporre il prezzo della forza lavoro” (p. 34), mentre il secondo “lotta per poter regolare il prezzo dei prodotti sul mercato” e “può essere agito da partecipanti il cui unico legame è lo spossessamento” (p. 35). Lo sciopero, aggiunge, “si sviluppa nell’ambito della produzione capitalista, includendo la sua interruzione all’origine attraverso lo spegnimento dei macchinari, il picchettaggio della fabbrica, ecc”, mentre il secondo “si sviluppa nell’ambito del consumo, portando all’interruzione della circolazione commerciale” (p. 35).

    Clover scrive questo libro pensando alle forme di protesta esplose, soprattutto negli Stati Uniti tra Occupy NY e il movimento Black Lives Matter, ma la sua tesi può essere estesa anche alla gig economy. In effetti, se pensiamo alle proteste più iconiche della gig economy, quelle organizzate dai rider delle piattaforme di food delivery, quest’ultima definizione sembra essere calzante. Quando i rider scendono in piazza per protestare, non lo fanno interrompendo un ciclo di produzione di una merce, perché le piattaforme di food delivery non sono fabbriche che producono beni materiali. Quando i rider si disconnettono dai loro profili online per protesta, stanno influenzando la circolazione di un bene (il cibo) rifiutandosi di consegnarlo.

    Quelle che a prima vista potrebbero sembrare manifestazioni irrazionali di rabbia e frustrazione sono in realtà, proprio come le rivolte della classe lavoratrice inglese del XVIII secolo descritte da E. P. Thompson, tentativi molto razionali di “fissare il prezzo di un bene di mercato”, per usare le parole di Clover.

    Tuttavia, è possibile che Clover si sbagli e che queste rivolte siano solo la fase embrionale di forme più organizzate di azione collettiva in grado di costruire una coscienza condivisa tra tutti i lavoratori del settore che condividono le stesse condizioni, e che stiamo assistendo a una ripetizione del passaggio storico, già avvenuto in passato, da forme di rivolte caotiche a scioperi più organizzati, una transizione che Clover sostiene sia avvenuta nell’evoluzione delle lotte operaie tra il XVIII e il XIX secolo, quando il capitalismo industriale è entrato nella sua età matura.

    Il valore di questo lavoro, e della sua disponibilità attuale in italiano, sta proprio in questo sguardo “narrativo” capace di ricostruire la traiettoria delle lotte dei lavoratori dall’alba delle prime proteste ai giorni nostri. Clover racconta una “grand narrative”, abbracciando un arco temporale molto ampio, a la Arrighi, dall’alba della rivoluzione industriale all’arrivo del capitalismo digitale e sostiene che in questo arco temporale le relazioni tra capitale e lavoro si possono riassumere nella sequenza Riot – Sciopero – Riot, ovvero una sequenza iniziata con un periodo di rivolte durante la fase primitiva e selvaggia dell’ascesa del capitalismo industriale, seguita da una lunga fase di scioperi, cioè di forme di azione collettiva dei lavoratori via via più organizzate e capaci di estendere i diritti dei lavoratori senza però minare le fondamenta del capitalismo industriale, a una fase contemporanea in cui la bilancia della relazione tra capitale e lavoro pende di nuovo a favore del capitale e i lavoratori – non più facilmente incasellabili in “classi”, ma sempre più frammentati e spazialmente e socialmente dispersi – perdono forza contrattuale.

    La narrativa è affascinante, e condita di esempi, citazioni letterarie e uno stile di scrittura coinvolgente. Se un tempo le classi operaie affrontavano le relazioni di potere col capitale attraverso lo strumento dello sciopero, oggi, le moltitudini post-capitaliste, post-operaiste, post-ideologiche, affrontano il capitale tramite l’esplosione intermittente di riot, rivolte, sabotaggi.

    La tesi, dicevamo, è affascinante e semplice nella sua esposizione, quasi schematica. Questo è un vantaggio, ma anche un limite di questo libro.

    La versione italiana è arricchita da una post-fazione del collettivo di ricerca bolognese Into-the Black-Box, che fa un’analisi molto più puntuale e profonda di quanto possa fare questa recensione, e che invito il lettore a leggere. Il collettivo bolognese mette in evidenza contributo e limiti della tesi di Clover, ma va oltre la sua visione schematica (riot – sciopero – riot), sostenendo che il libro è stimolante perché “aiuta a mettere in dissolvenza i dispositivi politici moderni del XIX e del XX secolo e spinge per la ricerca e l’invenzione di una politica dei tempi a venire” (p. 241-42), ma la loro analisi, in poche pagine, va più a fondo di Clover nell’esplorare le possibili tendenze delle soggettività delle generazioni urbane e iper-connesse che stanno crescendo “nell’eterogenea territorialità planetaria”.

    Quello che vorrei fare in questo articolo, non è tanto recensire il libro, perché la post-fazione del collettivo di ricerca bolognese compie secondo me un ottimo lavoro di sintesi su questo libro, con il quale mi trovo molto in sintonia. Non vorrei nemmeno ridurmi a descrivere i contenuti del libro, le cui tesi sono molto chiare e facilmente sintetizzabili. Mi piacerebbe esplorare piuttosto come il libro è stato ricevuto e discusso da altri esperti e studiosi dei movimenti di protesta dei lavoratori.

    La cosa curiosa di questo libro è che ha generato discussioni molto accese e ricevuto molte critiche proprio dai materialisti storici dalla cui tradizione Clover sembra attingere. Ad esempio, vorrei soffermarmi su una delle recensioni più citate, quella di Robert Ovetz, professore di scienza politica della San Jose State University, ed esperto di movimenti operai, che ha pesantemente stroncato questo libro, sostenendo che Clover sbaglia ad isolare, nella storia del capitalismo, il fattore della produzione (il lavoro) da quello della circolazione delle merci (il consumo)1Ovetz, R. (2018). Review of Riot. Strike. Riot.: The new era of uprisings. Journal of Labor and Society, 21(3), 437-442.. Mentre Clover sostiene che i lavoratori salariati scioperano e i non salariati gli ex-lavoratori sono al contrario consumatori che organizzano riot, secondo Ovetz questa distinzione non regge: “il lavoro e il consumo non sono fattori distinti nel capitalismo, ma la stessa cosa: il capitale consuma il lavoro per produrre plusvalore e i lavoratori consumano beni e servizi per riprodurre la loro forza lavoro. Questi sono i circuiti di produzione e riproduzione descritti nel Capitale di Marx” (p. 438).

    Clover sostiene che una delle ragioni per cui i riot stiano diventando il nuovo paradigma dominante dei conflitti globali e gli scioperi stiano diminuendo, è che ora “l’attuale fase del nostro ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore alla base del sistema mondo…è per questo motivo che il centro di gravità del capitale si è spostato verso la circolazione, sostenuto dalla troika del toyotismo, dell’informatica e della finanza” (p. 42).

    Seguendo la critica di Ovetz a Clover, poiché il capitalismo non produce più “valore”, l’unica forma di lotta è la rivolta di coloro che si trovano al di fuori della lotta di classe. Nonostante la costante crescita della produzione globale, Clover presume che questa crescita accada magicamente, senza il contributo di alcun lavoro.

    Ovetz non è d’accordo con la visione dicotomica di Clover perché non vede una differenza netta tra rivolte e scioperi, tra lavoro e consumo, tra produzione e circolazione. “La differenza tra le rivolte e gli scioperi”, secondo Ovetz, “sta nelle differenti capacità delle classi lavoratrici, in un dato momento storico, di ricomporre le proprie tattiche e strategie per affrontare la mutevole composizione del capitale” (p. 440). Ovetz non vede la differenza tra una fase pre-capitalista in cui i riot erano dominanti, una fase capitalista in cui gli scioperi erano protagonisti e una fase post-capitalista in cui i riot tornano ad essere centrali. Al contrario di Clover, non pensa che siamo entrati in una fase post-capitalista, e non riduce questa lunga traiettoria a un rigido schema semplificatorio, come fa Clover. Secondo Ovetz, esiste solo un lungo continuum tra fasi pre e post-capitaliste, dentro le quali le lotte dei lavoratori/consumatori si articolano e si adattano, a seconda del momento storico.

    Anche senza essere completamente d’accordo con la tesi di Avetz, che forse perde di vista, rispetto a Clover, l’effettiva ricomposizione del lavoro determinata dal capitalismo di sorveglianza,

    il grande limite di questo libro sta nella sua visione schematica e dicotomica, che si riduce a una rigida opposizione tra riot e scioperi, tra lavoro e consumo, tra produzione e circolazione nelle tre differenti epoche storiche che individua all’interno della storia del capitalismo.

    Le tesi espresse da questo libro sono forse un po’ tagliate con l’accetta, ma rappresentano comunque uno stimolo a ripensare le soggettività “in eccesso” che non trovano spazio e pacificazione all’interno dei flussi globali di capitale e lavoro e che non riescono, almeno per il momento, a riprodurre antiche forme di solidarietà e contrattazione tipiche dei secoli precedenti. Leggo positivamente questo libro come un invito a interrogarsi sul futuro di queste soggettività/moltitudini, e sulla necessità di inventare forme nuove di rappresentazione, all’interno non di una nuova fase post-capitalista, ma di un lungo continuum in cui capitale e lavoro evolvono e si modellano, conflittualmente, a vicenda.

     

    Immagine di copertina da Unsplash

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