Informazione e condivisione al tempo di Trump

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    Il primo di febbraio un mio ex-professore, astrofisico, ha pubblicato su Facebook un video senza equivalenti: vediamo, per la prima volta nella storia dell’umanità, un sistema di quattro pianeti girare attorno a una stella madre all’esterno del nostro sistema solare.

    I pianeti sono stati osservati con la tecnica del direct imaging: si è osservata la luce dei pianeti e la si è distinta dalla luce più intensa della stella attorno alla quale i pianeti ruotano (la luce dei pianeti non è altro che la luce della stella riflessa dai pianeti).

    Le immagini dirette di pianeti in altri sistemi stellari sono pochissime e mai si erano viste così bene e in movimento. Il video, ottenuto montando immagini dello stesso sistema stella/pianeti in tempi differenti, dura solo tre secondi e l’ho dovuto rivedere un paio di volte per essere sicura di aver colto quello che succede: ci sono quattro punti chiari un po’ sfocati (i pianeti) che si muovono attorno a un cerchio luminoso più grande (la stella). Per facilitare l’identificazione del cerchio più grande con una stella l’immagine è stata manipolata: al centro del cerchio è stato inserito un simbolo a forma di stellina.

    Il fascino di questo video non è immediato – almeno per me, che di astronomia so ben poco. Le immagini sono schematiche, l’azione è rapida e banale: il livello di realismo è minimo (non c’è paragone con le fotografie dei pianeti del nostro sistema solare!) e questi miseri quattro puntini attorno a un cerchio non hanno nulla dell’espressività di certe rappresentazioni di oggetti celesti molto lontani da noi – immagini non fotografiche, ma basate sui dati acquisiti tramite osservazioni astronomiche. Per dare importanza a questi tre secondi di video devo fare uno sforzo di contestualizzazione – per questo mi ha aiutata paragonare la mia esperienza del video a quella che deve aver avuto Galileo osservando per la prima volta gli spostamenti dei quattro satelliti di Giove grazie al cannocchiale.

    Oggi è il primo di febbraio del 2017 e da sei giorni è attivo negli Stati Uniti l’ordine esecutivo 13769 (al momento sospeso da una sentenza del giudice James Robart confermata anche dalla corte di appello di Washington ndr) firmato dal Presidente Trump, che sospende indefinitamente l’ingresso di rifugiati dalla Siria, per centoventi giorni l’ingresso di rifugiati da altri paesi e per novanta giorni l’ingresso negli Stati Uniti di cittadini di Iraq, Iran, Libia, Somalia, Siria e Yemen (esclusi i cittadini in possesso di green card, quelli che viaggiano con visto diplomatico o per conto dei governi di questi paesi e altri casi da determinare singolarmente). Allo scadere dei novanta giorni sarà pubblicata una lista aggiornata dei paesi ai cittadini dei quali continuerà a essere proibito l’ingresso negli Stati Uniti, e allo scadere dei centoventi giorni sarà comunicato da quali paesi (Siria esclusa) gli Stati Uniti accetteranno rifugiati di lì in avanti.

    Ho vissuto per soli nove mesi negli Stati Uniti, l’anno passato, e conosco almeno due persone con familiari che, per via dell’ordine esecutivo di Trump, non possono entrare nel paese, che avevano in programma di visitare. Sono entrata negli Stati Uniti con un visto “J1”, ottenuto perché avevo vinto una borsa Fulbright – un programma di finanziamento alla ricerca del governo americano, che dalla fine della seconda guerra mondiale ha portato negli Stati Uniti ricercatori da centoquarantaquattro paesi, fra cui anche Yemen, Libia e Iraq (secondo la mappa riportata qui). Essere una Fulbrighter, oltre a offrirmi un’ottima opportunità lavorativa, ha significato partecipare di tanto in tanto a incontri con altri Fulbrighter presenti nella mia stessa città, Washington, D.C. C’era gente da tutto il mondo. Ho sentito parlare di come funziona la carriera accademica in Argentina, dei progetti internazionali che interessano ai geologi del Benin, del libro di economia che stavano leggendo sia un giurista peruviano che un economista pakistano. Momenti da Erasmus 2.0, questa volta con compagni più colti e spesso provenienti da paesi lontani dall’Europa. È perché ho conosciuto loro e incontrato altri ricercatori, con parenti in Siria e in Iran, ed è perché, al momento di entrare negli Stati Uniti, ho passato qualche minuto al controllo documenti all’aeroporto di Washington Dulles attendendo che l’ufficiale di polizia esaminasse il mio visto, che l’ordine esecutivo di Trump lo sento un po’ come cosa mia, che tocca anche il mio mondo – per quanto io goda di tutti i vantaggi che ha una cittadina italiana (e solo italiana) nel 2017 e sia oggi più che mai consapevole del mio status di privilegiata.

    Poche sere fa, concluso un workshop nell’università spagnola dove lavoro quest’anno, mi sono ritrovata seduta di fronte a un professore universitario greco. Abbiamo parlato dei tagli ai fondi per la ricerca e per l’istruzione universitaria nel suo paese: draconiani, ovviamente (non ho resistito!). Molti docenti stanno andando in pensione, pochissimi nuovi docenti sono assunti, le opportunità per fare ricerca scarseggiano e la qualità della didattica universitaria peggiora.

    La situazione in Italia è simile, ho detto io (per esempio qui trovate un po’ di informazioni sui tagli alla ricerca in Italia, qui sulla diminuzione degli iscritti e la spesa per iscritto, e qui un recente e più breve articolo sui due argomenti). Stessa storia anche in Argentina, ha aggiunto il nostro commensale di Buenos Aires. E l’altro commensale, un professore inglese, ci ha detto che la ricerca nel suo dipartimento è finanziata al 40% con fondi europei – fondi che, una volta finalizzata la “Brexit”, si presume non saranno più disponibili.

    Nell’arco dei prossimi dieci/venti anni andranno all’università i figli di molti miei amici. Se si iscriveranno in Italia, troveranno spesso aule dove un docente fronteggia almeno un centinaio di studenti, se la diminuzione delle assunzioni del personale docente non si arresterà. Se desidereranno tentare la strada della ricerca, saranno il più delle volte invitati a cercare master e dottorati fuori dall’Italia – perché i gruppi di ricerca italiani rimasti attivi saranno pochi (magari molto buoni, ma davvero pochi).

    Avrà senso per i figli dei miei amici andare a fare un dottorato nel Regno Unito? Potranno aspirare a diventare ricercatori in quel paese, sino a oggi meta di tanti ricercatori italiani e aspiranti tali? Quanto grave sarà l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea? Ci saranno limitazioni per i cittadini europei che vogliono studiare o lavorare nel Regno Unito? E se volessero andare negli Stati Uniti?

    Il silenzio di Trump sui fondi alla ricerca, sia durante la campagna elettorale che nei primi giorni della sua amministrazione, sta suscitando timori: forse i tagli stanno per arrivare anche lì. Non mi sembra irragionevole aspettarmi che la cosiddetta “fuga dei cervelli” dall’Italia continui nei prossimi dieci/venti anni (a meno che non vi sia un cambio di rotta nelle politiche per l’istruzione e la ricerca). Né che i figli dei miei amici troveranno più opportunità di ricerca in Cina, che nel Regno Unito, o forse persino negli Stati Uniti. Né che i figli dei miei amici che andranno all’università in Italia (sempre che decidano di andarci) avranno una formazione di livello inferiore rispetto a quella dei loro professori, e dei professori dei loro professori.

    Non mi sembra irragionevole pensare che il risultato dei tagli di oggi all’università e alla ricerca non sarà solo molto meno lavoro per i ricercatori della mia generazione, ma un’università peggiore nell’arco dei prossimi decenni, e dunque ancora meno opportunità per la nuova popolazione italiana. Anche questa volta, è la contestualizzazione che fa la differenza. Non mi è difficile immaginare questo scenario futuro perché la ricerca è il mio lavoro e a queste cose ci penso quasi tutti i giorni.

    Però, come nel caso dell’esperienza di vita negli Stati Uniti, sono parte di una minoranza (quella delle persone che lavorano nell’università) e non mi posso aspettare che tutti quei miei connazionali che si occupano di altre cose e che passano la vita in altri posti (in Italia, o fuori), sentano con la stessa urgenza questi problemi che per me fanno parte del quotidiano. Io, per esempio, sono consapevole che l’Italia beneficerebbe da una riforma della giustizia, ma ci penso di rado e non saprei spiegare in dettaglio di cosa c’è bisogno.

    Nel video del sistema stella/pianeti diverso dal nostro c’è un problema di astrazione: vediamo immagini talmente schematiche che facciamo fatica a realizzare che quello che stiamo vedendo accade da qualche parte nell’universo, da qualche parte qui attorno a noi, benché molto lontano. La situazione con i problemi di scala globale e con quelli – come la crisi dell’università e della ricerca in Italia – le conseguenze dei quali si estendono lontano del tempo mi pare sia simile: sappiamo che la crisi dei rifugiati è di un’entità tale che in qualche modo avrà un impatto anche sulla nostra vita, ma – se non andiamo a sbattere direttamente in faccia al problema (per caso o per scelta) – facciamo fatica a sentire che le cose stanno così, a percepire l’urgenza del problema per noi.

    Lo stesso vale per la mobilità dei ricercatori, per i finanziamenti alla ricerca a livello internazionale, e per il futuro dell’istruzione universitaria in Italia e altrove. E per moltissime altre questioni. In filosofia si distingue fra sapere che (che i papaveri sono rossi, per esempio) e sapere come, sapere che effetto fa (per esempio sapere che effetto fa vedere un papavero). Posso sapere che i papaveri sono rossi senza averli mai visti in vita mia e quindi senza sapere che effetto fa vedere i papaveri. Posso sapere che la qualità dell’università italiana peggiorerà senza aver ancora sperimentato l’effetto di questo peggioramento sul futuro dei miei figli.

    Magari se le immagini del video del sistema stella/pianeti fossero sì schematiche, ma ancora più nitide e colorate, potrebbero meglio catturare la nostra attenzione. Similmente, le notizie del giorno è meglio leggerle da fonti affidabili (per fedeltà ai fatti e assenza di censura), se si può. Faccio fatica a non sentirmi patetica mentre scrivo queste parole, nei giorni in cui la diffusione di concetti come “post-verità” e di “fatto alternativo” segna il trionfo dell’opinione non sostanziata sul sapere come stanno le cose.

    Mi rendo conto che sto scrivendo un pezzo che, se andrà bene, leggeranno cinquecento persone, molte delle quali la pensano più o meno come me sugli argomenti che sto toccando. So che lo sto scrivendo nella lingua che si parla in un paese dove si stima che la popolazione sia composta per due terzi da analfabeti funzionali (persone in grado di leggere un testo, ma non di comprenderlo) e dove anche le conoscenze e abilità di molti studenti universitari lasciano a desiderare. E allora che ci faccio qui, a parte solleticare un po’ il mio ego e avere una buona scusa per procrastinare impegni poco eccitanti?

    Sembra che il successo delle serie TV di qualità stia nella loro forma di finanziamento: alla HBO, per primi, hanno capito che il pubblico era disposto a pagare per vedere una serie di qualità, e hanno finanziato produzioni di alto livello e costo elevato grazie agli abbonamenti sottoscritti dagli spettatori. Niente di più spontaneo e condivisibile del desiderio di sedersi in divano a fine giornata e farsi raccontare una buona storia. Con l’informazione temo che le cose siano più difficili. Potersi preoccupare di come ci s’informa è un lusso – richiede tempo per scegliere cosa leggere, vedere, ascoltare e una buona educazione (o quantomeno che si sia ancora dei lettori capaci, anziché degli analfabeti funzionali). E senza informazione di qualità è difficile rendersi conto, a meno che non si sia immediatamente coinvolti dal problema, della necessità di migliori risposte alla crisi dei rifugiati, o che la ricerca e l’università stanno affogando e che le ripercussioni si avranno su tutti gli italiani che in futuro vorranno iscriversi all’università, per limitarsi ai fatti di cui ho parlato sopra.

    Alle buone serie TV ci stiamo abituando. È facile vederle: basta pagare cifre accessibili per l’abbonamento, oppure scaricarle illegalmente o usare qualche oscuro servizio di streaming (inutile negarlo). Per quanto mi riguarda, sono un piacere al quale mi costerebbe rinunciare. All’informazione di qualità, invece, sembra che ci stiamo disabituando. Reperirla richiede spesso più fatica che pagare un abbonamento, fare un download, aprire una pagina di streaming. E ne richiede ancora di più se dobbiamo andare a pescarla in mezzo a una montagna di post-verità, fatti alternativi e stronzate varie, o se un articolo che vale davvero la pena leggere su un certo argomento è scritto in una lingua che non conosciamo, o mastichiamo appena.

    In questi giorni, soprattutto negli Stati Uniti, l’attivismo politico è più forte che mai. La Women’s March del 21 gennaio ha portato più di un milione di persone (non solo donne) a Washington, D.C. e coinvolto più di cinque milioni di persone in tutto il mondo. La “missione” della Women’s March (che è anche il nome dell’organizzazione che ha ideato la marcia) e delle iniziative che seguiranno a essa è presentata così nel sito dell’organizzazione:

    La retorica dell’ultimo ciclo elettorale ha insultato, demonizzato, e minacciato molti di noi – immigranti di ogni condizione, mussulmani e fedeli di varie religioni, persone che si identificano come lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali, nativi americani, neri e marroni, persone con disabilità, vittime di violenze sessuali – e le nostre comunità stanno soffrendo e sono spaventate. Ci domandiamo come andare avanti di fronte alla preoccupazione e alla paura a livello nazionale e internazionale. […] Invitiamo tutti i difensori dei diritti umani a unirsi a noi. Questa marcia è il primo passo per l’unificazione delle nostre comunità, fondata su nuove relazioni, per creare il cambiamento a partire dal basso. Non ci fermeremo finché le donne non avranno parità ed equità a tutti i livelli in cui si esercita potere nella società. Lavoriamo pacificamente pur riconoscendo che non vi è vera pace senza giustizia ed equità per tutti. [Traduzione mia, l’originale è qui]

    Women’s March ha identificato dieci azioni in cui gli attivisti potranno impegnarsi durante i primi cento giorni della presidenza Trump (dieci giorni per azione). La prima è stata marciare, la seconda, che andrà avanti per i primi dieci giorni di febbraio, è riunirsi in piccoli gruppi per conoscersi e identificare una o più attività in cui impegnarsi nel breve e possibilmente anche nel lungo tempo al fine di difendere la libertà, la giustizia, i diritti umani e la democrazia. Alcune proposte di attività sono descritte con cura sul sito dell’organizzazione. C’è da augurarsi che una frazione significativa dei cittadini americani che hanno partecipato alla marcia continui con le azioni dei prossimi cento giorni (non mi è chiaro che cosa si possa fare concretamente al di fuori degli Stati Uniti, a parte evitare di appoggiare gli amici di Trump a casa nostra). C’è d’augurarsi che molti cittadini americani continuino a prestare attenzione alle politiche che danneggiano loro, i propri vicini e il resto del mondo e che continuino a sentirsi parte di un movimento che può cambiare le cose.

    Credo che bisognerebbe creare qualcosa di simile a Women’s March per promuovere l’informazione di qualità. La molla di Women’s March è stata la stupefacente ascesa al potere di Trump e i devastanti editti dei suoi primi giorni da presidente continuano a motivare tanti cittadini all’azione. Non m’immagino una molla altrettanto forte che possa accendere allo stesso momento in tanti il desiderio d’informazione migliore, motivandoli a cercare e diffondere, regolarmente, testi e video di qualità. Questo non toglie che si potrebbe magari organizzare una giornata globale della buona condivisione (fatemi sapere se esiste già!), sperando in più di sei milioni di persone attorno al mondo impegnate a diffondere informazione di qualità attraverso i mezzi che hanno a disposizione. Ma l’attivismo della condivisione di buona informazione, come ogni forma di attivismo, ha bisogno dei gesti quotidiani di singole persone. Persone che, prima di condividere un link, leggere un articolo online, comprare un quotidiano o una rivista, scrivere un commento, si chiedano se c’è ragione di ritenere che i fatti di cui vogliono leggere o parlare siano realmente accaduti. Lettori o spettatori che evitino di condividere un pezzo in cui non si riescono a distinguere le opinioni e le illazioni di chi scrive dalla descrizione di quanto è accaduto. Utenti di social network che s’impongano di non fare commenti di pancia e di dire la loro solo se, pensandoci bene, sentono davvero di avere qualcosa da dire.

    Judith Donath, membro del Berkman Center for Internet and Society dell’Università di Harvard e direttrice del Social Media Group del MIT Media Lab, indica tre regole di buona condotta per la diffusione di buona informazione: 1) il classico don’t feed the trolls: se ci sembra che qualcuno abbia condiviso una notizia falsa o irrilevante con l’intento di provocare, evitiamo di amplificare l’impatto del suo gesto aggiungendo un nostro commento, anche se si tratta di una critica; 2) sforziamoci di diffondere informazioni affidabili e di persuadere i nostri amici a fare lo stesso; 3) apprezziamo la satira, spesso nemica dei diffusori di notizie false. Buona resistenza.

    Note