Il futuro è una promessa mai mantenuta, il presente di David Graeber

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    Una domanda inespressa aleggia intorno a noi, un senso di delusione, una promessa non mantenuta che ci hanno fatto da bambini su quello che il nostro mondo sarebbe diventato quando saremmo stati grandi. Non mi riferisco alle tipiche false promesse che si sono sempre fatte ai bambini (che il mondo è giusto, che chi lavora sodo sarà ricompensato), ma a una particolare promessa fatta a chi era bambino negli anni cinquanta, sessanta, settanta e ottanta: una promessa che non è mai stata articolata come tale, ma presentata come una serie di ipotesi su quello che sarebbe stato il nostro mondo da grandi. E siccome non è stata mai una promessa vera e propria, ora che non si è realizzata ci lascia sconcertati: indignati, ma allo stesso tempo imbarazzati per il nostro sdegno, vergognandoci di essere stati tanto sciocchi da credere ai nostri vecchi, tanto per cominciare.

    Per dirla in breve, dove sono le macchine volanti? Dove sono i campi di forza, i raggi traenti, le capsule per il teletrasporto, le slitte antigravitazionali, i tricorder, le pillole dell’immortalità, le colonie su Marte e tutte le altre meraviglie tecnologiche che ogni bambino cresciuto nella seconda metà del ventesimo secolo credeva che oggi sarebbero esistite? Anche quelle invenzioni che sembravano a portata di mano, come la clonazione o la criogenia, hanno finito per tradire le grandi aspettative. Che cosa è successo?

    Siamo ben informati delle meraviglie del computer, come se questa fosse una sorta di compensazione imprevista, ma, in realtà, anche in questo caso non siamo arrivati al punto che negli anni cinquanta si aspettavano: non abbiamo computer con i quali possiamo fare una conversazione interessante, non abbiamo robot che portino a spasso il cane o i nostri vestiti in lavanderia.
    Io sono tra quelli che avevano otto anni al momento dell’allunaggio dell’Apollo, mi ricordo che calcolavo di avere trentanove anni nel magico 2000 e mi chiedevo come sarebbe stato il mondo.

    Mi aspettavo di vivere in un mondo pieno di meraviglie? Naturalmente. Come tutti. Mi sento ingannato ora? Non sembrava probabile che sarei vissuto tanto da vedere tutte le cose delle quali leggevo nei romanzi di fantascienza, ma non mi veniva mai il dubbio che non ne avrei vista nemmeno una. 
Alla svolta del millennio mi sarei aspettato un profluvio di riflessioni sul perché ci eravamo tanto ingannati sul futuro della tecnologia. Invece, quasi tutte le voci più autorevoli, di sinistra e di destra, hanno iniziato a riflettere partendo dal presupposto che noi viviamo, in un modo o in un altro, in un’inedita nuova utopia tecnologica.

    Il modo comune per affrontare quel senso di disagio che fa pensare che forse le cose non stanno così è di rimuoverlo e di convincersi che quello che avrebbe potuto succedere è proprio successo e di considerare tutto il resto una sciocchezza. “Ah, vuoi dire quelle storie de I Pronipoti (The Jetsons)?” mi hanno chiesto, come per dire, ma sono cose per bambini! Certo, ora che siamo grandi ci rendiamo conto che la visione del futuro presentata da I Pronipoti (The Jetsons) è altrettanto precisa quanto quella dell’Età della Pietra sui cartoni animati de Gli Antenati (The Flinstones).

    Perfino negli anni settanta e ottanta, in realtà, serie fonti come quelle del National Geographic e dello Smithsonian Institute informavano i piccoli lettori delle imminenti stazioni spaziali e delle spedizioni su Marte. Gli autori dei film di fantascienza proponevano date reali, spesso non oltre quelle di una prossima generazione, nelle quali ambientavano le loro fantasie futuristiche.

    Nel 1968 Stanley Kubrick ritenne che il pubblico cinematografico avrebbe trovato perfettamente naturale presumere che solo trentatré anni dopo, nel 2001, avemmo avuto voli commerciali sulla Luna, stazioni spaziali grandi come città, computer con personalità umana che avrebbero mantenuto gli astronauti in vita sospesa in rotta verso Giove. Più o meno l’unico strumento tecnologico di quel film che sia apparso veramente è il videotelefono, ed era già tecnicamente possibile quando il film fu girato.

    Odissea nello spazio può essere visto come una rarità, ma che dire di Star Trek? I miti di quei telefilm erano ambientati negli anni sessanta, ma sono stati continuamente riproposti, lasciando che gli spettatori di Star Trek Voyager, per esempio nel 2005, tentassero di immaginarsi come, secondo la logica del programma, il mondo si sarebbe ripreso dalle lotte contro il governo di superuomini nati creati dall’ingegneria genetica nelle Guerre Eugeniche degli anni novanta.

    Nel 1989, quando i creatori di Ritorno al futuro II mettevano solertemente automobili volanti e skate-board antigravità nelle mani di normali adolescenti del 2015, non era chiaro se facessero predizioni o se scherzassero.

    Solo tecniche di simulazione

    Nella fantascienza il trucco normale è di restare vaghi riguardo alle date, per rendere “il futuro” una zona di pura fantasia, non diversa dalla Terra di Mezzo o di Narnia, oppure, come in Guerre stellari, “tanto tempo fa in una galassia molto, molto lontana”. Per questo il nostro futuro fantascientifico, nella maggioranza dei casi, non è affatto un futuro, ma una dimensione alternativa, un tempo onirico, un Altrove tecnologico esistente in giorni a venire alla stessa stregua degli elfi e degli ammazzadraghi che esistevano nel passato: un altro schermo per mettere in scena i drammi morali e i miti fantastici nei vicoli ciechi del piacere consumistico.

    Sarebbe possibile considerare la sensibilità culturale che è stata definita postmodernismo come una lunga riflessione sui cambiamenti tecnologici che non si sono mai verificati?

    Mi sono fatto questa domanda mentre guardavo uno degli episodi recenti di Guerre stellari. Il film era terribile, ma non potevo fare a meno di sentirmi colpito dalla qualità degli effetti speciali. Ricordando quelli goffi dei film di fantascienza degli anni cinquanta, mi sono messo a pensare che effetto avrebbero fatto a un pubblico dell’epoca, se avesse saputo quello che sappiamo ora. Ma ho subito capito: “In realtà no, gli spettatori non ne sarebbero stati affatto colpiti. Avrebbero pensato che oggi noi saremmo stati capaci di fare tutte quelle cose, senza immaginarsi l’esistenza di mezzi più sofisticati per simularle.”

    Questo verbo, simulare, è la chiave. Le tecnologie che rappresentano un progresso, dagli anni settanta in poi, riguardano principalmente la medicina e l’informatica e sono in gran parte tecniche di simulazione. Riguardano in gran parte quello che Baudrillard ed Eco chiamano “iper-reale”, la capacità di fare imitazioni che sono più realistiche degli originali.

    La sensibilità postmoderna, la sensazione di essere in qualche modo entrati in un nuovo e mai visto periodo storico nel quale si capisce che non c’è più niente di nuovo, che le grandi narrazioni storiche di progresso e di liberazione erano prive di senso, che tutto ora sarebbe simulazione, reiterazione ironica, frammentazione e imitazione, tutto questo ha un senso in un ambiente tecnologico nel quale gli unici rivolgimenti sarebbero quelli che rendevano più facile creare, trasferire e riorganizzare proiezioni virtuali di oggetti che esistevano già o che siamo arrivati a capire che non esisterebbero mai.

    Sicuramente, se fossimo in vacanza in cupole geodetiche su Marte o se ce ne andassimo in giro con impianti di fusione nucleare tascabili o dispositivi telecinetici a lettura mentale nessuno avrebbe mai ragionato in questo modo. Il momento postmoderno è stato un tentativo disperato di accettare quella che altrimenti sarebbe stata un’amara delusione e darle una veste in qualche modo epocale, emozionante e nuova.

    La fine del lavoro non ci sarà

    Nelle primissime formulazioni del postmoderno, che provenivano in gran parte dalla tradizione marxista, si era accettato moltissimo di quei fondamenti tecnologici. Il libro di Fredric Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, proponeva il termine “postmodernismo” per riferirsi alla logica culturale di una nuova fase tecnologica del capitalismo, quale era stata annunciata dall’economista marxista Ernest Mandel nel 1972.

    Mandel aveva sostenuto che l’umanità era alle soglie di una “terza rivoluzione tecnologica”, profonda come la rivoluzione agricola e quella industriale, nella quale computer, robot, nuove fonti di energia e nuove tecnologie dell’informazione avrebbero sostituito la manodopera industriale: la “fine del lavoro”, come venne ben presto chiamata, ci avrebbe ridotto tutti a designer ed esperti informatici capaci di ideare pazzesche visioni che sarebbero state prodotte in fabbriche cibernetiche.

    Tra gli anni settanta e ottanta le discussioni sulla fine del lavoro erano frequenti e i sociologi rifletteva- no su che cosa sarebbe successo delle lotte popolari guidate dalla classe operaia, una volta che la classe operaia fosse scomparsa. (La risposta: sarebbe diventata politica identitaria). Jameson si considerava impegnato ad analizzare le forme di consapevolezza e di sensibilità storica che ne sarebbero probabilmente emerse.

    Invece è successo che la diffusione degli strumenti informatici e i nuovi modi di organizzare i trasporti (le spedizioni in container, per esempio) hanno fatto sì che le stesse attività industriali non scomparissero ma fossero trasferite in Asia orientale, in America latina e in altre aree dove la disponibilità di manodopera a basso costo permetteva l’impiego di linee di produzione molto meno sofisticate dal punto di vista tecnico di quelle che si sarebbero dovute adottare da noi.

    Dal punto i vista di chi viveva in Europa, in Nord America e in Giappone, il risultato sembrava proprio confermare le predizioni. Sono scomparse le ciminiere delle fabbriche, il lavoro è stato suddiviso tra uno strato inferiore di lavoratori del terziario e uno superiore di persone che giocano col computer e stanno sedute in gusci asettici. Sotto tutto questo permane una scomoda consapevolezza del fatto che la civiltà del post-lavoro è una frode colossale. Le nostre scarpe da ginnastica, frutto di un design hi-tech, non sono prodotte da cyborg intelligenti o con nanotecnologie molecolari autoreplicanti, sono fabbricate con equivalenti delle vecchie macchine da cucire Singer dalle figlie di contadini messicani o indonesiani che, a causa dei trattati commerciali promossi dall’Organizzazione Mondiale del Commercio o dal NAFTA, sono stati espulsi dalle terre dei loro avi. È un senso di colpa che sta alla base della sensibilità postmoderna e della sua celebrazione di un gioco incessante di immagini e superfici.

    Come mai la progettata esplosione della crescita tecnologica che tutti si aspettavano (le basi lunari, le fabbriche robotizzate) non si è verificata? Ci sono due possibili spiegazioni.

    O le nostre aspettative sul ritmo dei cambiamenti tecnici erano irrealistiche (nel qual caso dobbiamo capire perché tante persone intelligenti pensavano il contrario) oppure non lo erano (nel qual caso dobbiamo capire che cosa sia successo che ha fatto deragliare tante idee e prospettive credibili).

    Gran parte degli studiosi di scienze sociali sceglie la prima spiegazione e fa risalire il problema ai tempi della gara per la conquista dello spazio tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Perché, si chiedono questi studiosi, sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica erano tanto presi dall’idea di mandare uomini nello spazio? Non è mai stata un’idea efficiente per impegnarsi nella ricerca scientifica. E ha favorito teorie irrealistiche su quello che sarebbe stato il futuro degli esseri umani.

    Sarebbe possibile rispondere che tanto gli USA quanto l’URSS erano stati, nel secolo precedente, società di pionieri, una che si espandeva oltre la frontiera occidentale, l’altra sul territorio della Siberia? Non condividevano un mito di un futuro di espansione illimitata, di colonizzazione umana di vasti spazi vuoti, che convinse i leader di tutte e due le superpotenze di essere entrati un una “era spaziale” nella quale battagliare per il controllo del futuro stesso? Qui erano entrati in gioco miti di ogni genere, non c’è dubbio, ma questa spiegazione non dimostra niente riguardo alla fattibilità del progetto.

    Rivista Anarchica 400, futuro

    Alcune di quelle fantasie fantascientifiche (a questo punto non possiamo sapere quali) avrebbero potuto essere trasformate in realtà. Chi era cresciuto tra Ottocento e Novecento, leggendo Jules Verne o H.G. Wells, s’immaginava un mondo, diciamo nel 1960, con macchine volanti, astronavi, sommergibili, la radio e la televisione; ed è proprio quello che si è realizzato. Se non era irrealistico nel 1900 sognare uomini in viaggio per la luna, perché lo era nel 1960 sognare razzi da zaino e cameriere-robot?
    In realtà, perfino mentre quei sogni prendevano forma, la base materiale per realizzarli cominciava a erodersi.

    Ci sono motivi per ritenere che già negli anni cinquanta e sessanta il ritmo di innovazioni stesse rallentando rispetto a quello sostenuto della prima metà del secolo. Ci fu un’ultima impennata negli anni cinquanta, quando apparvero in rapida successione il forno a microonde (1954), la pillola (1957) e i laser (1958). Dopo di che, però, i progressi tecnici hanno preso la forma di nuovi metodi intelligenti per combinare le tecnologie esistenti (come nella corsa spaziale) e per metterle a disposizione dei consumatori (l’esempio più famoso è la televisione, inventata nel 1926 ma prodotta solo dopo la guerra).

    Eppure, forse perché la corsa spaziale dava a tutti l’idea che si stessero verificando progressi significativi, l’impressione popolare negli anni sessanta era di un’accelerazione impressionate e incontrollabile del progresso tecnologico.

    Estratto dal saggio di David Greaber, Ma quando arriva il futuro? pubblicato all’interno del numero 400 di Rivista Anarchica, estate 2015

    Immagine di copertina: Wikimedia Commons


     

    Che cosa è il futuro? Qui il primo intervento di Carolina Bandinelli, Il futuro è una skype call con uno sconosciuto

    Note