Uova di rana. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne

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    Publichiamo un estratto dall’ultimo libro di Laura Tripaldi, Gender tech (Laterza). Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

    La rana Xenopus laevis, conosciuta anche come rana artigliata africana, è un anfibio originario dell’Africa australe. Si tratta di una rana carnivora esclusivamente acquatica, con occhi privi di palpebre che le conferiscono un’espressione perennemente sconcertata. Le sue zampe anteriori, che non sono palmate, hanno una buffa somiglianza con le mani umane, mentre le sue zampe posteriori sono munite di tre artigli che le permettono di smembrare le prede più grandi di cui si nutre in natura. A partire dagli anni ’30, lo zoologo britannico Lancelot Hogben, trasferitosi all’università di Città del Capo in seguito a una serie di peregrinazioni accademiche dovute, secondo alcune testimonianze, alla sua personalità poco conciliante, iniziò a diffondere tra i suoi colleghi l’utilizzo di Xenopus laevis come l’animale ideale per la sperimentazione biomedica. La rana, infatti, era ampiamente diffusa e di facile cattura; le femmine, molto più grandi dei maschi, erano distinguibili con un solo colpo d’occhio. Diversamente da altri animali usati per la sperimentazione, Xenopus laevis poteva sopravvivere nelle vasche dei laboratori per settimane senza cibo e senza fare rumore.

    Tra il 1933 e il 1935, due colleghi di Hogben, Harry Zwarenstein e Hillel Shapiro, scoprirono che se l’urina di una donna in gravidanza veniva iniettata nel corpo di una femmina di Xenopus laevis, la rana avrebbe, nell’arco di massimo 18 ore, prodotto delle uova. Questo meccanismo, si accorsero, era legato alla presenza nell’urina delle donne gravide dell’ormone hCG (gonadotropina corionica), che, se diffuso nel sangue dell’animale, era in grado di stimolare l’apparato riproduttivo della rana e innescare il processo di ovulazione. Come nella maggior parte delle rane, infatti, anche nella rana artigliata africana la fertilizzazione delle uova avviene al di fuori dal corpo dell’animale, dopo che le uova sono già state deposte. Ben presto, i due scienziati iniziarono a proporre l’utilizzo di Xenopus laevis come un nuovo, semplice ed economico test di gravidanza. Diversamente dalle rane europee, che hanno un ciclo riproduttivo regolato dalle stagioni e che si accoppiano soltanto durante la primavera, Xenopus laevis può infatti deporre le sue uova per tutta la durata dell’anno; per questo, lo stesso esemplare poteva essere utilizzato come test decine e decine di volte nell’arco della sua vita. Questa scoperta segnò l’inizio della circolazione globale di Xenopus laevis, che, dopo milioni di anni di esistenza indisturbata nelle foreste dell’Africa meridionale, nell’arco di meno di un decennio viaggiò prima nel Regno Unito per poi raggiungere gli Stati Uniti. Il responsabile della sua esportazione oltreoceano fu un luogotenente della Marina americana di nome Jay Cook, il quale, avendo intuito le promettenti prospettive economiche associate alla diffusione del nuovo test di gravidanza, portò con sé dall’Africa del Sud una colonia di tremila rane ottenute da un fornitore privato che ne organizzò la cattura. Entro l’inizio degli anni ’50, l’uso di Xenopus laevis come test di gravidanza si era ormai affermato in molti paesi europei e in tutti gli Stati Uniti: le poche migliaia di rane di Cook erano già diventate centinaia di migliaia.

    Con il ventesimo secolo, i modelli scientifici utilizzati per comprendere la differenza sessuale erano iniziati a cambiare. Tra gli anni ’20 e gli anni ’30, la graduale affermazione della teoria ormonale aveva segnato la transizione da una concezione del sesso come una caratteristica localizzata nei genitali a un fenomeno diffuso in tutto l’organismo.

    Confrontare il modello ormonale del corpo sessuato con il modello fisiologico che l’ha preceduto, che privilegiava il ruolo degli organi e dei nervi, è un po’ come confrontare Internet via cavo alla connessione wireless: nel modello ormonale l’informazione non è trasmessa da un punto a un altro, ma è diffusa ovunque nel corpo, e viene interpretata da qualsiasi componente biologico sia in grado di riceverla. L’idea che la differenza sessuale fosse veicolata da un messaggio chimico richiedeva l’uso di interfacce capaci di interpretarlo, decifrando il linguaggio molecolare per trasformarlo in un’informazione clinicamente leggibile.

    Prima che fosse possibile isolare gli ormoni dai corpi che li producevano, e prima che venissero sviluppati procedimenti biochimici capaci di rilevarli al di fuori dell’organismo, questa interfaccia doveva necessariamente essere costituita da un corpo vivente.

    La scoperta del funzionamento degli ormoni, così come la loro categorizzazione in ormoni femminili e ormoni maschili, dipendeva dalla possibilità di osservare l’effetto di queste sostanze direttamente sull’organismo. Nei primi studi sugli ormoni sessuali, asportare chirurgicamente le gonadi di un roditore per poi impiantarle in altre parti del suo corpo era una pratica comune; questi esperimenti permettevano di verificare che l’effetto degli ormoni fosse del tutto diffuso e indipendente dall’anatomia dell’animale.

    L’ormone hCG, caratteristico della gravidanza, era divenuto noto al mondo scientifico alcuni anni prima della diffusione di Xenopus laevis, nel 1926, quando i due biologi tedeschi Bernhard Zondek e Selmar Aschheim scoprirono che l’iniezione dell’urina di una donna incinta in una femmina di topo ancora sessualmente immatura innescava immediatamente la sua ovulazione. Fino all’avvento di Xenopus laevis, grazie al quale sarebbe stato sufficiente attendere che l’animale deponesse delle uova, l’unico modo per verificare la presenza dell’hCG era uccidere – o, nel gergo tecnico, “sacrificare” – l’animale stesso, aprire il suo ventre e osservare direttamente le condizioni delle sue ovaie. Fu questa tecnica, in seguito estesa dai topi anche ai conigli, a rappresentare il primo test di gravidanza nella storia della scienza moderna. L’espressione gergale inglese “the rabbit died”, utilizzata per riferirsi alla scoperta di una nuova gravidanza, nasce proprio dalla pratica di iniettare l’urina delle donne nel corpo dei conigli, che venivano poi sezionati per determinare l’avvenuta ovulazione. Tuttavia l’espressione è piuttosto imprecisa, perché il coniglio, indipendentemente dall’esito positivo o negativo del test, sarebbe comunque morto: davanti all’impossibilità di spalancare i corpi delle donne per osservare direttamente i loro meccanismi nascosti, lo sguardo scientifico si rivolgeva allora su altri corpi più “sacrificabili”.

    L’uso di organismi viventi come interfacce per accedere a una conoscenza profonda dei nostri corpi non è una pratica esclusiva della modernità. I primi documenti scritti che segnalano l’esistenza di un test di gravidanza risalgono a più di tremila anni fa. In un papiro conservato al Museo egizio di Berlino, datato attorno al 1350 a.C., è descritta dettagliatamente una procedura utilizzata dalle donne egizie per determinare la gravidanza e prevedere il sesso del nascituro. Secondo il papiro, la donna che sospettava di essere incinta doveva innaffiare con la propria urina un sacchetto di semi di grano e di orzo; se questi avessero germogliato, la gravidanza sarebbe stata confermata. In più, il papiro suggeriva che se fosse germogliato prima il grano, il bambino sarebbe stato una femmina; viceversa, se fosse germogliato l’orzo sarebbe nato un maschio. Almeno per quanto riguarda la determinazione della gravidanza, il metodo sembra avere un fondamento, e potrebbe aver avuto un’efficacia diagnostica vicina all’80%: è probabile che la presenza elevata di ormoni nell’urina delle donne gravide fosse in grado di stimolare la germogliazione dei semi, la cui crescita sarebbe stata altrimenti inibita. Ma, al di là dell’efficacia del test, è stupefacente trovare una così stretta somiglianza tra una pratica antica, pre-scientifica e apparentemente magica, e le pratiche della medicina contemporanea. Se messa al confronto con l’idea di iniettare l’urina di una donna dentro a una rana o un topo, la procedura egizia appare di gran lunga meno barbarica.

    Verso la fine degli anni ’50, con la diffusione di nuovi test di gravidanza che non richiedevano più l’utilizzo di animali vivi, le vasche di Xenopus laevis nei laboratori diventarono una spesa inutile. Molte rane finirono per essere vendute come animali domestici, mentre altri esemplari furono destinati a nuovi progetti di ricerca, rendendo la rana artigliata africana protagonista, se così si può dire, di alcune tra le avventure più singolari della scienza contemporanea. Fu, per esempio, il primo animale clonato con successo in laboratorio, quando, nel 1958, il nucleo di una cellula della sua zampa fu inserito dentro a una delle sue uova non fecondate, mostrando che la specializzazione cellulare, secondo cui dopo lo sviluppo embrionale ogni cellula è destinata a svolgere esclusivamente una specifica funzione, era un processo reversibile.

    Questa scoperta, tra l’altro, segnò la nascita della ricerca sulle cellule staminali, e valse il premio Nobel al biologo britannico John Gurdon. Per studiare gli effetti della microgravità sull’embriogenesi, a partire dagli anni ’70 le uova di Xenopus laevis furono spedite nello spazio numerose volte, verificando la capacità degli embrioni di sopravvivere e svilupparsi in orbita. Più di recente, nel 2019, alcune cellule epiteliali e cardiache di Xenopus laevis sono state assemblate con un algoritmo di intelligenza artificiale e trasformate in quella che è stata definita la “prima forma di vita sintetica” mai realizzata dall’uomo, lo Xenobot.

    La storia di Xenopus laevis evidenzia il modo in cui lo sviluppo delle tecnologie di genere contemporanee sia il risultato di una rete complessa, e per questo sempre imprevedibile, di relazioni tra una molteplicità di soggetti, umani e non-umani. Illustra come queste relazioni, che si instaurano per prima cosa sulla scala locale del laboratorio, siano anche rapporti politici, capaci di informare e riprodurre le stesse strutture di potere che si manifestano su scala globale. Si potrebbe sostenere che l’uso che la ricerca ha fatto dei corpi delle femmine di Xenopus laevis e di molti altri animali, trasformati in macchine per la produzione di sapere e di profitto – entrambi destinati a rimanere saldamente nelle mani di istituzioni maschili e imperialiste – non sia poi così diverso dal rapporto di oggettificazione violenta che la scienza in quegli anni ha intrattenuto con i corpi delle donne. “L’imperialismo europeo funzionava come un circuito biologico che portava gli organismi attraverso mondi che non avevano mai conosciuto”, ha osservato acutamente la storica della scienza Denise Lynn in un articolo sullo sfruttamento di Xenopus laevis nella ricerca scientifica. “L’inserimento intenzionale e non intenzionale delle risorse naturali nel mercato era radicato nell’imperativo imperialista di controllare il mondo umano, vegetale e animale.” Questa stessa pulsione di controllo globale, d’altra parte, può produrre come effetto uguale e contrario una proliferazione incontrollata di nuovi modi di essere, aprendo la strada alla nascita di forme inaspettate e sovversive di sopravvivenza.

    Piuttosto che fluttuare in un assoluto isolamento dal mondo e dalla storia, l’oggettività scientifica si costruisce in continuo dialogo con un ecosistema molto più ampio di relazioni e di saperi; più che uno sguardo disincarnato sulla natura, è un assemblaggio che emerge dalla circolazione di materiali e di concetti attraverso la natura e la società. Nel contesto delle tecnologie di genere, ripercorrere i filamenti di queste reti è l’unico modo che abbiamo per non smarrire la profondità epistemologica e politica del nostro sapere sul corpo. A proposito di ecosistemi, alcune delle rane importate dall’Africa per essere usate come interfacce nei test di gravidanza riuscirono in qualche modo a sfuggire dalle mura delle cliniche e finirono a sguazzare libere negli stagni di tutto il mondo. Ben presto, gli esemplari di Xenopus laevis fuoriusciti dai laboratori di ricerca europei e americani cominciarono a riprodursi a velocità impressionanti, iniziando gradualmente a soppiantare le specie autoctone. La sorprendente fecondità di Xenopus laevis – la caratteristica che l’aveva resa così promettente per la ricerca scientifica – si rivelò ben presto capace di trasformarla in una specie infestante in moltissimi ecosistemi, dall’Europa all’America del Nord fino al Sud America, innescando una catastrofe ecologica globale che non è mai stata risolta. Le pareti dei laboratori, dopotutto, sono spesso più sottili e permeabili di quanto non sembri.

     

    Immagine di Glitch Lab App da Unsplash

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