Pubblichiamo un estratto dal libro Così lontano, Così vicino. Tattiche mediali per abitare lo spazio (Ombre Corte, 2010) perchè crediamo che manchi una riflessione sul ruolo che i media hanno nell’addomesticare lo spazio. I media sono strumenti del “fare casa”, del fare proprio uno spazio, è questa la tesi dell’autore. Nonostante il libro sia stato concepito in epoca pre-boom dei social media, fornisce una riflessione sulla pervasività dei media nella nostra vita quotidiana, siamo noi turisti, migranti o vagabondi, lontani da casa per sempre o soltanto per un giorno.
Stavo in piedi davanti all’ascensore del mio condominio, in attesa che si liberasse, quando ho dato uno sguardo alla mia destra. Dalla porta a vetri si intravedeva il custode, che io conoscevo come Roy, alle prese con un computer portatile, alcuni fogli, una calcolatrice. Roy mi ha visto lì in piedi e ci siamo scambiati un saluto, come sempre. Ma visto che l’ascensore non arrivava si è affacciato dalla porta e mi ha chiesto se potevo aiutarlo. È così che sono entrato per la prima volta in casa del mio custode. Era il 2003.
La casa era molto semplice ed era divisa in due zone da una porta scorrevole: la “zona giorno”, in parte visibile dall’atrio del condominio, che comprendeva la cucina, il divano, un tavolo estendibile e un armadio, la “zona notte”, con le camere e il bagno. Sul tavolo il computer era collegato a internet. Roy stava cercando di decifrare l’ultima bolletta telefonica della Telecom. Non gli tornavano i conti e mi chiedeva se potevo aiutarlo a capire perché fosse così alta. Dopo qualche calcolo verificai che non c’erano errori, purtroppo, e che ad aver fatto impennare la bolletta erano state le chiamate internazionali. Dopo quel pomeriggio entrai altre volte a casa di Roy, per salutarlo, per fare due chiacchiere, per ritirare pacchi di posta che mi aveva messo da parte.
In qualche modo diventammo amici. In seguito, quando ho cambiato casa, Roy mi ha dato una mano con i cartoni del trasloco, ci siamo salutati sull’uscio di casa sua e non ci siamo più visti per alcuni anni. Nel gennaio del 2008 sono passato di nuovo dal mio vecchio condominio sperando che Roy fosse ancora lì e che volesse farsi intervistare per la mia ricerca. Roy era lì, dietro la porta a vetri, al suo posto. Questa volta aveva tra le mani un palmare. Ha alzato la testa e mi ha salutato come sempre.
Quando gli ho spiegato le motivazioni della mia ricerca mi ha risposto che “Certo, non c’è problema, io uso molto le comunicazioni per tornare a casa”. Così, per due settimane sono tornato più volte a casa sua per intervistarlo (interviste in profondità a domanda aperta) e osservarlo mentre passava dal computer al cellulare, da You Tube al palmare, tentando di rimanere aggiornato sulla situazione politica filippina e sulla vita dei suoi familiari.
Questa breve ricerca etnografica non ha la pretesa di dimostrare “sul campo” le mie ipotesi – troppo ristretto è il campione prescelto – ma ha l’obiettivo di mettere alla prova alcuni dei dati emersi nella letteratura passata e sottoporre ad una prima, parziale, verifica, il percorso teorico fin qui intrapreso.
Dalle interviste e dall’osservazione partecipante non è emersa soltanto la frequenza d’uso e i significati associati alle tecnologie, ma anche e soprattutto la storia di un migrante che prova a ricostruire un senso di casa per sé e per la sua famiglia con tutti i mezzi a sua disposizione.
Storia di Roy
Roy è nato a Burauen, un paese dell’isola di Visayas, Filippine meridionali, quasi cinquant’anni fa. Rosendo è cresciuto a Burauen per poi trasferirsi a Manila a studiare ingegneria meccanica all’università. Nel 1981, appena laureato, ha trovato lavoro ad Amman, in Giordania, dove si è occupato per dieci anni degli scambi con l’estero di una ditta giapponese che produceva componentistica elettronica per vari marchi (“tra cui la Hitachi e la Sony”). Nel 1982 ha conosciuto sua moglie, che lavorava come segretaria all’Hotel Intercontinental di Amman. Si sono sposati un anno dopo e nel 1986 è nato il primo figlio. I parenti di Rosendo vivevano tutti nelle Filippine, mentre quelli di sua moglie erano emigrati in Europa, alcuni – i suoi genitori – anche in Italia.
Nel 1991, a causa della Guerra del Golfo e della nuova instabilità politica, la ditta giapponese per cui lavorava Rosendo decise di delocalizzare altrove la produzione e spostare i suoi dipendenti in altre sedi. Rosendo venne assegnato alla sede di New York, ma prima di trasferirsi lì portò la sua famiglia in Italia, a Milano, dai parenti della moglie. Lui proseguì per New York, dove lo aspettava il suo nuovo lavoro e dove sperava di farsi raggiungere dalla famiglia non appena possibile. Ma dopo un anno negli Stati Uniti, non riusciendo ad ottenere il visto per la famiglia, Rosendo decise di lasciare il lavoro e tornare in Italia. “Ero triste di stare là senza la mia famiglia e così sono tornato”.
In Italia Roy ottenne prima un permesso di soggiorno temporaneo lavorando durante la settimana in una ditta di pulizie e contemporaneamente come pastore della comunità cattolica filippina del suo quartiere. Nel 1996 venne invece regolarmente assunto come custode in un condominio milanese, dove lo conoscerò nel 2002. Anche sua moglie lavora oggi come custode in un altro condominio vicino al suo: “ È difficile trovare lavoro per noi immigrati, qui in Italia per noi è difficile applicare il nostro background educativo, così abbiamo trovato lavoro come portieri”.
In Italia è nata la sua seconda figlia, nel 1998. Entrambi i figli, dice Roy, si sentono italiani: “Mio figlio non gli importa niente delle Filippine, non vuole andare nemmeno in vacanza. Mia figlia è nata qui, ha studiato qui, è completamente italiana. Anche mio figlio è cresciuto qua e si sente italiano.” Roy invece nelle Filippine ci torna spesso, almeno una volta l’anno. Quando gli chiedo dov’è la sua casa risponde che è nelle Filippine ma che qui sta bene. Ma il suo cuore, dice, è diviso:
Torno annualmente a Manila, lì ho comprato casa, e poi vado a fare visita ai miei parenti in Visayas. Ho alcuni fratelli e sorelle a Manila ma la maggior parte della mia famiglia, i miei genitori, sono a Visayas. Noi siamo felici qua, abbiamo matrimonio forte, abbiamo lavoro stabile, frequentiamo la chiesa, viviamo questo sistema di vita. (…) Prima di tutto sono qui per lavoro, per vivere. Metà di mio cuore è italiano però quando vado nel mio paese mi viene sempre da pensare che quando vado in pensione torno nelle Filippine. In cima ai miei pensieri c’è la voglia di andare e venire. Stare un po’ qua, che ci sono i miei figli, e un po’ là. Qui a Milano abbiamo comprato una casa, per assicurarci un futuro anche qui.
Dalla lettera alla webcam: tornare a casa (home) secondo Roy
Quando Roy parte per la Giordania è il 1981. Il world wide web all’epoca non esiste ed è anche inimmaginabile. Roy non immagina che solo pochi anni dopo userà un computer per spedire lettere a casa, o potrà vedere i suoi parenti muoversi dentro una finestra aperta sul suo computer e ascoltare la loro voce che esce dall’altoparlante, nè che un giorno leggerà quotidianamente dei brevi messaggi da sua sorella su un piccolo schermo portatile e la richiamerà all’istante, ovunque lui o lei siano.
L’unico modo per raccontare la sua vita giordana e avere notizie di casa è scrivere lettere a mano, imbucarle e aspettare almeno “tre settimane, se non un mese” prima di avere una risposta. La lettera rappresentava il mezzo di comunicazione più comune, quello d’uso più frequente: “Ci scrivevamo un paio di volte al mese, a volte scambiandoci foto dei nuovi nati o di viaggi particolari”. In occasione di ricorrenze speciali, civili o religiose, Roy riceveva e spediva cartoline d’auguri, soprattutto “cartoline di Natale, San Valentino e quelle per fare gli auguri di compleanno”. Il telefono era usato con molta parsimonia, soltanto “per le emergenze, quando stava male qualcuno”, oppure quando Roy doveva spiegarsi, chiarire delle faccende personali. “Negli anni ottanta le chiamate internazionali costavano troppo, per me e per loro. E poi non tutti avevano il telefono in casa”.
Telefono fisso, lettere e cartoline erano gli unici mezzi di comunicazione disponibili negli anni ottanta. I ricordi di Roy rispecchiano molto da vicino le testimonianze raccolte dall’antropologa australiana Raelene Wilding: i cambiamenti nell’uso di tecnologie per la comunicazione transnazionale seguono la stessa linea evolutiva, sia in Roy che nei migranti intervistati da Wilding. Se negli anni ottanta la lettera era il mezzo più comune e il telefono quello più raro, negli anni novanta i due mezzi si scambiano di ruolo. Il costo delle chiamate internazionali si abbassa in tutto il mondo e aumenta l’uso del telefono per la comunicazione di routine, mentre la lettera viene utilizzata solo per occorrenze particolari.
L’arrivo di internet (con tutto quello che ne consegue: email, chat room, web cam, web radio, social networking) e del cellulare si andranno a sommare al telefono, soppiantando quasi del tutto la vecchia lettera scritta a mano: “Abbiamo smesso di scriverci lettere, comprese le cartoline, non le usiamo più. Ora basta un sms” (Roy). La differenza tra gli intervistati di Wilding e Roy sta soprattutto nel diverso uso delle email. Mentre i migranti incontrati dalla Wilding comunicavano con casa soprattutto attraverso l’email (con l’eccezione dei rifugiati in cerca di asilo, che usavano invece più comunemente carte prepagate e cellulari) Roy la usa molto raramente con i familiari, perché “nelle Filippine i computer costano molto, anche internet costa molto e quasi nessuno della mia famiglia se lo può permettere”. Scambia qualche email solo con i fratelli e le sorelle che si sono trasferiti a Manila. Con loro si incontra anche in chat room per conversare in tempo reale.
Durante una delle nostre sessioni di intervista per esempio, abbiamo interrotto la conversazione perché sul computer che aveva davanti a lui aveva rilevato la richiesta di chat (via Skype) di un suo fratello. Si sono scambiati poche righe, anche per colpa della mia presenza, ma la sostanza della loro breve comunicazione era “solo” salutarsi, farsi un cenno, chiedersi “come stai” e proseguire la giornata. Con i familiari che non possiedono un computer invece, soprattutto quelli rimasti a vivere nei villaggi – a volte, raramente, si accorda per incontrarsi via webcam: “Devo dire che…in alcuni dei nostri villaggi ci sono internet shop. Quando ho nostalgia di casa, quando voglio vedere qualcuno dei miei parenti, fissiamo un appuntamento via chat e ci vediamo via web cam”. Roy possiede un computer costantemente collegato a internet (abbonamento Adsl flat), dotato di webcam. È da qui, dalla cucina/sala da pranzo/salotto di casa sua che si mostra e si rivolge ai parenti attraverso la webcam. Tranne questi contatti eccezionali via email, chat room e web cam, il contatto quotidiano con casa, il canale di comunicazione più frequente e più diretto, è rappresentato per Roy dal telefono cellulare e soprattutto dal sistema di short messaging e multimedia messaging.
Quando nel 1991 Roy e la sua famiglia sono approdati in Italia hanno continuato a scrivere lettere a casa ancora per un po’. In Italia non avevano ancora attivato una linea telefonica domestica e se volevano telefonare (“raramente”) usavano le carte prepagate. Quando Roy si è trasferito a New York ha scritto molte lettere a casa e “quando la nostalgia era troppo forte e mi mancava la voce della famiglia” usciva in strada a telefonare, usando una scheda telefonica comprata in un corner shop etnico.
Nel 1996 Roy acquista il suo primo cellulare (lo ricorda con orgoglio e ne specifica la marca – un Mitsubishi). Lo paga novecentomila lire, un’enormità, “quasi più di due stipendi”, ma ne vale la pena, secondo lui, perché:
Con il cellulare il mondo diventava vicinissimo. Filippine anche. Non c’era ancora sms, lo utilizzavo per chiamare perché non avevamo la linea fissa in casa. Poi con le promozioni per gli sms abbiamo iniziato ad utilizzare gli sms, che sono diventati il modo per noi più comune per chiamare.
Anche in questo racconto c’è una forte analogia con gli intervistati dalla Wilding: innanzitutto Roy condivide con loro un grande entusiasmo per le ICT. Molti degli intervistati dalla Wilding parlavano di “miracolo” e tutti hanno usato termini di “vicinanza” e “prossimità” per descrivere i motivi d’uso delle ICT. Inoltre, se le ICT hanno quasi del tutto sostituito i vecchi sistemi (lettere, cartoline) si sono però integrati tra loro agendo come “moltiplicatori” del senso di prossimità: sia gli immigrati in Australia di Wilding che Roy usano internet, cellulari, sms e satelliti a seconda del contesto e del bisogno, senza che nessuno sostituisca l’altro. Hanno messo a punto una piattaforma di comunicazione a più livelli, ognuno attivabile in determinate circostanze. Tutti assieme, questi livelli, contribuiscono, come sostiene la Wilding, a “costruire una maggiore capacità di sentirsi vicini”3. Moltiplicatori di prossimità, cornici per sentirsi a casa, strumenti “miracolosi”, qualunque definizione si voglia sposare, dovrebbe essere ormai chiaro il valore affettivo attribuito dai migranti alle ICT, il loro ruolo nel mantenere saldi o nel “lubrificare” i legami a distanza:
Non provo più la nostalgia di casa che provavo prima, non è più lo stesso sentimento di prima, prima di internet e degli sms. Prima quando avevo voglia di tornare nelle Filippine e non potevo perché il viaggio costa caro (oggi circa 1000 euro) non potevo fare molto. Soltanto nelle emergenze, quando viene a mancare qualcuno della famiglia, decidiamo di partire, di fare il viaggio. Per il resto, ora è più facile stare vicino alla mia famiglia. La tecnologia ci fa sentire più a nostro agio, il sentimento di nostalgia diminuisce grazie a questi strumenti.
In particolare, nel caso di Roy, è l’sms il mezzo più utilizzato:
Oggi utilizziamo gli sms perché è il mezzo di comunicazione più facile e più rapido ed economico. Se vogliamo parlare a lungo con casa usiamo la linea fissa. I miei parenti mandano sms per dirmi di chiamarli. Siamo noi a chiamarli perché da qui è più economico chiamare là che il contrario.
Qui possiamo cogliere un’altra similitudine tra gli studi dell’antropologa australiana e le risposte di Roy: chi è emigrato verso un paese ricco viene considerato non solo responsabile del mantenimento dei parenti rimasti a casa ma si deve anche far carico delle spese di comunicazione. Chi è rimasto nel paese d’origine si aspetta non solo di essere chiamato ma decide anche quando deve avvenire il contatto. Se tecnologie come skype e chat room rendono facilmente visibile la disponibilità alla comunicazione degli utenti (in skype e chat posso “settare” la mia presenza on line in maniera che chiunque voglia contattarmi sa già se sono on line o sono occupato altrove) il telefono da questo punto di vista rende “ciechi” gli utenti: nel momento in cui voglio contattare qualcuno non so se lo troverò finchè non mi risponde e non so se disturbo finchè non me lo dirà chiaramente. Una buona parte dell’uso di sms fatto da Roy e dai suoi parenti filippini va in questo senso, serve cioè a sondare la disponibilità altrui alla comunicazione e, in caso positivo, alla formalizzazione dell’incontro telefonico. Una volta fissato l’appuntamento, sarà però sempre Roy a sostenerne le spese, non solo perché “dall’Italia le chiamate costano meno”, ma anche perché “pensano che è più giusto che sia io a chiamare”.
Durante le mie visite a casa di Roy non ho mai assistito ad una telefonata tra lui e i suoi parenti nelle Filippine ma lo ho visto spesso ricevere e mandare sms a casa. Roy mi ha detto che normalmente la frequenza di questi scambi è di circa quattro-cinque messaggi al giorno. Il contenuto di questi messaggi (normalmente brevi e semplici) – tranne in casi particolari in cui si devono comunicare un evento o una notizia – è per lo più di tipo affettivo (brevi saluti, parole d’affetto per ricordare a chi sta dall’altro lato del mondo la propria esistenza e la propria attenzione) o di tipo fàtico, cioè incentrato sul canale comunicativo (richieste di chiamata, organizzazione dell’appuntamento telefonico).
La prossimità risultante dallo scambio di sms è però fredda, meccanica. Serve a mantenere aperto il canale di comunicazione attraverso il quale, con minore frequenza, passerà una comunicazione più intima, più calda, che metta in gioco piì intensamente i sensi: la chiamata telefonica vera e propria (da fisso o cellulare) o la conversazione via skype+webcam. Almeno nel caso di Roy l’sms è usato come lubrificante, mentre telefono, chat e webcam sono dei veri e propri carburanti per il mantenimento dell’intimità familiare a distanza. L’sms serve a non far scricchiolare la porta di casa, a facilitarne l’apertura.
Dal quotidiano a you tube: tornare dentro la sfera pubblica filippina (heimat)
Quando Roy era in Giordania, negli anni ottanta, si faceva spedire spesso film e musica filippina. Vhs, cassette (e poi cd) gli arrivavano talvolta dalle mani di amici di ritorno dalle Filippine, da parenti in visita, oppure più semplicemente le acquistava per posta. Durante le solitarie notti giordane il giovane ingegnere filippino non ancora sposato si accontentava di un surrogato di casa guardando qualche pellicola filippina o ascoltando qualche nastro di musica tradizionale. E se voleva sapere qualcosa della situazione politica del suo paese comprava i giornali filippini che arrivavano con almeno una decina di giorni di ritardo sulla data di pubblicazione. Una volta arrivato in Italia Roy ha continuato a comprare i giornali filippini con dieci giorni di ritardo e ad interessarsi alla politica e alla cultura del suo paese. Ma “internet”, dice, “ha cambiato tutto:
Prima di internet usavo molto di più le videocassette e compravo i giornali, che qui arrivavano con almeno una settimana di ritardo. Oggi non compro più i giornali. Li leggo in internet. Abbiamo satellitare (collegato al pc), possiamo vedere canali stranieri – Bbc, Cnn – ma guardiamo poco. Usiamo spedirci cassette e cd attraverso corriere. Film filippini, musica filippina. Cd o dvd continuiamo a spedirceli, ma meno frequente, perché adesso che c’è internet scarichiamo dalla rete – usiamo emule, adunanza.
Internet è il metamedium che sostituisce – nel caso di Roy – stampa, radio, televisione e cinema. Gli stessi giornali che prima era costretto a leggere con giorni di ritardo ora li segue in tempo reale tutti i giorni (tranne blog e siti di social network, di cui non conosce l’esistenza), mentre le casse del computer diffondono lo streaming della radio pubblica filippina e due finestre del desktop rimangono aperta in sottofondo, una su skype e l’altra su You Tube.
Quando Roy è in servizio, fino alle diciotto, il computer è acceso e “always on line”. Tra un suono di campanello e l’altro, tra l’arrivo del postino o di un condomino, che lo riportano nella sfera della sua vita quotidiana milanese, Roy risiede virtualmente dentro la sfera pubblica filippina.
Nei pomeriggi passati da lui ho visto poco altro sul suo computer che non fosse legato alle Filippine e al suo lavoro di pastore della comunità cattolica dei filippini del suo quartiere. Sul desktop del suo pc tiene sempre aperte più finestre contemporaneamente – dal sito del giornale filippino che sta leggendo al canale di You Tube dedicato alle news del suo paese.
Ognuna di queste finestre è una porta sulla sfera pubblica filippina. Ogni giorno Roy entra ed esce da questa porta innumerevoli volte, compiendo innumerevoli viaggi a casa. Ma la permanenza temporanea tra le pareti virtuali della sua Heimat non è solo passiva, come un tempo avveniva con la lettura dei giornali domestici.
I mezzi che Roy usa per tornare temporaneamente dentro i confini nazionali non replicano semplicemente le funzioni di informazione, intrattenimento e aggiornamento dei giornali che leggeva in ritardo e delle cassette che riceveva per posta, ma gli permettono di prendere parte, in remoto ma quasi in tempo reale, alla vita pubblica del suo paese.
Roy mi ha detto di scrivere, “ogni tanto”, dei commenti sul sito del giornale che legge, di aver scritto email alla radio che ascolta via web per sapere il nome della musica trasmessa, di aver mandato foto della sua famiglia al giornale locale della sua regione, di aver partecipato ad alcune chat di emigrati filippini e di aver effettuato delle donazioni on line ad alcuni partiti politici. Inoltre, la sua attività di pastore cristiano lo porta a scambiare pareri e documenti (testi e audio) via email con i suoi referenti ecclesiastici nelle Filippine.
È una partecipazione saltuaria, d’accordo, e Roy forse non diventerà un opinion leader della diaspora filippina, ma questa forma di partecipazione a distanza mediata dal computer ha soprattutto valore per Roy stesso, perché lo fa sentire “più vicino a casa”.