I bastardi dell’innovazione culturale

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    “L’attenzione al mezzo espressivo comporta (…) una accentuata consapevolezza dei limiti invalicabili di esso: se possiamo intendere l’arte come <<passione per il senso>> (…), o anche come tentativo di esprimere la totalità del senso della vita, che resta inafferrabile dalle forme della conoscenza e delle rappresentazioni, allora l’arte si definisce come quella forma di mediazione simbolica che più direttamente pone in luce il carattere riduttivo dei significati e che si costituisce, di per sé, come costante rinvio all’indicibilità del senso: l’arte anziché tentare di esaurire quest’ultimo nel significato, mostra il senso. Una forma espressiva è tanto più autenticamente artistica, quanto più, rinunciando alla pretesa di dire il senso, fa balenare ciò che in parole non può essere espresso” (Franco Crespi Manuale di Sociologia della Cultura, p.181, Laterza, 1998).

    Negli ultimi anni, quando si parla di innovazione culturale si intende un panorama estremamente variegato di innovazioni di prodotto e di processo portate avanti da reti frammentate di individui, gruppi, associazioni e imprese che operano sia nell’ambito dell’attivismo che in quelli del non-profit e del profit. Senza necessariamente riconoscersi come parte di uno stesso mondo, migliaia di innovatori si stanno interrogando su come cambiare le industrie culturali, un settore che in questo paese più che in altri è rimasto vincolato alle logiche ed alle strutture di un ‘900 ormai troppo lontano.

    In questo senso, molte delle domande che ci si pone quando si riflette sull’innovazione culturale hanno a che fare con temi estremamente concreti. Solo per citarne alcuni: la sostenibilità economica della cultura; i nuovi ruoli possibili di istituzioni tradizionali come musei, università e biblioteche; le forme ed i luoghi del lavoro dell’economia immateriale; le pratiche virtuose di riappropriazione e rigenerazione territoriale; il rapporto tra tecnologia e cultura. In pratica, sono gli interrogativi ai quali cercano di trovare risposta i partecipanti al bando cheFare, ma anche a IC-Innovazione Culturale e Culturability, così come i frequentatori di incontri come ArtLab, Nuove Pratiche, Fattidicultura, e molti altri.

    Eppure, guardare all’innovazione culturale come qualcosa di collegato esclusivamente alle industrie culturali (seppure intese in un’accezione ampia) vuol dire considerare solo una piccola parte della posta in gioco. Non stiamo parlando, forse, del tema più ampio dell’innovazione sociale, e di quello più ampio ancora di come sia possibile pensare, dire e agire il cambiamento nel mondo intorno a noi?

    Proviamo a considerare le cose da una prospettiva diversa: quella della lettura sociologia fenomenologica elaborata negli Stati Uniti sulla scorta del pensiero di Husserl. La sociologia fenomenologica e le sue molte derivazioni e mutazioni si interrogano su come individui e gruppi umani danno senso all’azione sociale. Cosa diamo per scontato nelle nostre interazioni sociali quotidiane? Cosa è “naturale”, e perché? Perché diamo per scontato che se c’è un incendio si chiamano i vigili del fuoco? O che possiamo scambiare dei pezzi di carta chiamati “banconote” con cibo o sedute dall’analista? Cosa è deviante, e cosa non lo è? Cosa è veramente il senso comune, “quello che tutti sanno”? E cosa succede se iniziamo a problematizzare l’ovvio e a dare per scontato l’anormale?

    Si tratta di domande tutt’altro che banali, che negli ultimi decenni hanno portato a cambiamenti a volte radicali negli studi sull’educazione, sulle istituzioni sanitarie e psichiatriche, sui media, sulle organizzazioni, sull’applicazione delle norme giuridiche e sull’epistemologia e le procedure scientifiche. Chi ha cercato le risposte lo ha fatto mettendo a soqquadro le nostre certezze sulla vita quotidiana e sui modi in cui costruiamo la definizione stessa di realtà, inseguendo oggettività e soggettività in una continua negoziazione inter-soggettiva.

    Alcuni autori italiani come Donolo, Jedlowski e De Leonardis negli ultimi decenni hanno rielaborato le riflessioni sul rapporto tra senso comune e innovazione, a partire dalle linee guida “classiche” della sociologia della vita quotidiana. In quest’ottica, lo spazio primario dell’elaborazione dell’innovazione sociale è quello del senso comune: la vera innovazione riguarda le modalità di tipizzazione attraverso le quali la realtà viene percepita, socialmente, come tale. Se il senso comune è “quello che tutti sanno”, ovvero quello che tutti danno per scontato, allora ogni innovazione in questo senso va intesa come un processo di riorganizzazione della percezione della realtà; un momento nel quale la familiarità a-problematica della realtà viene messa in discussione e si innesca un meccanismo che porterà nuove risposte e nuovi problemi.

    L’apertura al nuovo è una caratteristica fondante delle società umane (e non solo). Non è possibile, infatti, concepire la riproduzione delle strutture della società senza contemplare un processo adattivo che vada oltre la mera riproposizione di schemi di pratiche e simboli già preordinati: una società che procedesse attraverso mere operazioni meccaniche di “copia e incolla” sarebbe una società morta.

    Tuttavia, in determinati momenti storici alcune variabili fanno sì che la cultura diffusa di una società sia costitutivamente più aperta al nuovo: “la possibilità di rotture delle routines e di sospensione dell’atteggiamento della familiarità è favorita dalla presenza di culture dove è scarsamente presente il tipo di legittimazione degli ordinamenti legato al valore normativo delle tradizioni” (Jedlowski, p. 11).

    Tanto meno si legittimano i valori e le istituzioni tradizionali, quindi, tanto più si è propensi a mettere in discussione le tipizzazioni “normali” del senso comune.

    E tanto più si è pronti al cambiamento. In un certo senso, quindi, l’innovazione sociale è caratteristica di tutti i contesti moderni: nasce dalla possibilità di confronto tra diversi sensi comuni, ossia tra le modalità di costruzione sociale della realtà propri di gruppi sociali diversi. Una chiamata al compromesso, al far sì che la propria rappresentazione del mondo cambi, si ibridi, si innesti con altre.

    Può accadere che questa forma d’innovazione subisca un’accelerazione improvvisa a causa di eventi “di rottura” che mutano radicalmente le condizioni materiali o simboliche: guerre, rivoluzioni e catastrofi – ad esempio – obbligano a riorganizzare le categorie di tipizzazione della realtà in tempi necessariamente brevissimi.

    In tempi meno drammatici, le nuove proposte di organizzazione simbolica possono provenire da molti ambiti, ma è chiaro che i media e i settori culturali hanno un ruolo centrale. Ed è lì che entrano in gioco i nuovi attori dell’innovazione culturale, ibridi delle organizzazioni e mutanti dei simboli.

    Quando si parla d’innovazione culturale non si ragiona solo nei termini, pur fondamentali, dei processi economici, amministrativi e produttivi. Anche e soprattutto si ragiona a proposito di incertezze, conflitti, rinegoziazioni; di percorsi nei quali ci si assume il rischio di vivere la mutazione culturale e di provare a trasformare il senso comune attraverso la sovversione dei processi di categorizzazione della realtà; di rendere, in altre parole, possibile l’impossibile. Si ragiona, insomma, dell’esercizio della cultura nelle sue forme più fieramente bastarde di critica dell’esistente, di esercizio della possibilità, di rinvio continuo all’indicibilità ultima del senso, di tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere.

    Immagine di copertina: ph. Kevin Horstmann da Unsplash

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